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LETTERATURA: I MAESTRI: La morte di Ungaretti

31 Marzo 2018

[da “La Nazione”, giovedì 4 giugno 1970]

1 – La parola e il mistero
di Pier Francesco Listri

Arrivò in Italia mezzo secolo fa, dal nativo Egitto, indenne da quasi tutte le querimonie letterarie, con alle spalle solo un tuffo nella Senna, e rove ­sciò D’Annunzio. Veniva dav ­vero dal deserto, non soltanto quello natale di Alessandria d’Egitto: senza una lingua pre ­cisa (la Lucchesia, l’Oriente, Pa ­rigi), senza una terra (poeta di fiumi: Nilo, Serchio, Senna, Tevere), con una madre labo ­riosa e pia e molta povertà. Da quei giorni lontani, traversan ­do tutta quella che chiamiamo la nostra epoca, ha cercato di « accordare, aiutandosi con l’o ­recchio e con l’anima, in chia ­ve d’oggi, un antico strumento musicale ». Profondo e autarchi ­co, Ungaretti ha cercato per mezzo secolo, cucendo insieme la Grecia e Mallarmé attraver ­so Leopardi, di ridurre ed esaltare il dicibile nel castone del ­l’endecasillabo. La sua fatica e la sua grandezza di poeta sta in questa doppia operazione: smontare l’eloquenza postcarducciana e ricostruire dall’in ­terno un modo nuovo di quel ­lo che si dice fare poesia. Nono ­stante mille varianti dal « Por ­to sepolto » fino e oltre « La Terra promessa », Ungaretti ha rispettato la tradizionalità del suo genio. « Cercare â— ha con ­fessato â— ragioni di una pos ­sibile speranza nel cuore della storia stessa, cercarla cioè nel valore della parola ».

Ora che il suo antico cuore si è fermato e stringe i nostri (c’è una cronaca di sortite e di lutti che, per quanto fur ­tiva o disattesa, scandisce dav ­vero ciò che conta e si per ­de), non ci preme una defini ­zione, ma solo una testimonianza. Tuttavia qualcosa di davve ­ro proprio, per misurare il pe ­so del poeta, va riconosciuto.

Ungaretti ha poetato di tutto, dal Carso alla Luna, ma mai per occasione. Ha parlato di bellezza, di morte, di eternità (il più difficile linguaggio di sempre, oramai bandito dai ga ­latei letterari), riuscendo però sempre fedele alla sua prospet ­tiva metastorica. In questo sen ­so si può dire che Ungaretti è stato l’ultimo grande poeta antideologico italiano: si è arro ­gato un ruolo congeniale perfi ­no al suo carattere, di poeta ­-vate.

Tuttavia ogni sua poesia â— e viene spontaneo suggerire il volume recente mondadoriano che tutte le raccoglie Vita d’un uomo â— sempre prende le mos ­se dalla cronaca e dai dati di questa terra: fiumi e amori, fo ­reste e stragi belliche sono i segni della sua cronaca vissuta da « uomo di pena ». Stupenda appare ora la sua capacità di legarsi a dati, luoghi e circo ­stanze, ed accendere la fanta ­sia su precisi riferimenti reali ­stici, per disincarnarsi rapida ­mente in un brivido di trasfi ­gurazione, immettendo i suoi versi in una circolazione lon ­tanissima da ogni realismo psi ­cologico, in una dimensione di incandescenza morale, libera da scorie di colori o forme natu ­ralistiche.

Giuseppe Ungaretti partì ( di ­ce lui stesso ) « da pensieri oscuri di stretta essenzialità espressiva » per giungere a rico ­noscere che l’arte « è un mi ­racolo di equilibrio », e la pa ­rola « riconduce, nella sua oscura origine e nella sua oscura portata, al mistero ». E’ a que ­sto punto che la sua poesia si incontra con la storia, la defini ­sce e la trascende.

Il difficile e operoso itine ­rario qui appena abbozzato gli ha reso meriti e onori, certo: Ungaretti non si discute sulla qualità, la cultura unanime l’ha riconosciuto. Ma nel pubblico si è verificata una singolare al ­ternanza di dialogo e di disat ­tenzione. Se le sue poesie della grande guerra mezza Italia le sa a memoria, via via che l’astra ­zione e la ricostruzione « clas ­sica » dei versi segnava il ver ­sante costruttivo del suo lavoro, alla consuetudine è subentrato un distacco. Molti, bisogna con ­fessarlo, dopo le poesie icasti ­che («M’illumino d’immenso ») gli hanno serbato rispetto senza leggerlo. Di lui oggi, dagli schermi televisivi, dai tavoli delle conferenze, dai banchi di scuola (dove spesso si recava a discutere) ci rimaneva so ­prattutto un’immagine che perfino nei tratti del gran viso di tartaruga confondeva l’apocalis ­si con la speranza. Ci parlava con parole precise, innocenti e usuali, porgendo con quella vo ­ce indimenticabile che faceva in ­sieme paura e spettacolo, scuo ­tendo i bianchi capelli di ve ­gliardo sempre più lunghi sul ­la schiena curva, avanzando con quell’aria di rissa e di agguato che in realtà era un’innata espressione di meraviglia.

Così diverso dagli incontri di tutti i giorni, rassicurava con la sua immagine gli indifferen ­ti di questa fondamentale e su ­perflua nozione: la poesia, no ­nostante tutto, esiste ancora. Se Montale, l’altro grande dialoga ­tore poetico dell’Italia postnovecentesca, è la voce pensosa del no, Ungaretti è stato, nonostan ­te tutto, una voce dei pochi possibili e difficili sì. Una vo ­ce della speranza. Anche per questo è lecito chiamarlo l’ul ­timo poeta-vate, attento, ma senza conseguenze, alle profe ­zie e alle risse della « nuova poesia » di questi anni. Di fron ­te ai sussulti dell’epoca, Unga ­retti ha l’inamovibilità del clas ­sico che lavora su ogni detrito ma per manipolarlo su un’altra sfera d’orologio, non per grida ­re evviva ad ogni levar di mat ­tino.

Ma non vorrei accreditare la immagine edificante di un Un ­garetti, poeta del meglio, bar ­do da antologia. Forse non c’è stato ultimamente nelle nostre lettere poeta più capace di in ­felicità (non infelice) che lui. Mentre le ragioni biografiche (la guerra, il figlioletto perdu ­to) e quelle esistenziali trova ­no soluzione dentro la sua poe ­sia, il ricostruttore dell’endeca ­sillabo partecipava da tempo al ­le inquietanti domande che l’ar ­tista dei nostri anni si pone sul senso possibile della sua fun ­zione. Sapeva che mettere in forse il destino stesso della poe ­sia non fa paura per quel che si perde, ma per quel che non si riesce a trovare.

Su queste colonne, or sono cinque o sei anni, riportammo il succo di una confessione che ci affidò un pomeriggio d’esta ­te, come è oggi. Vale la pena ritrascriverla. « Oggi â— disse Ungaretti â— anche la parola è una convenzione ormai logora. C’è una violenza nelle cose che diventa la violenza propria del ­l’uomo e gli impedisce di par ­lare. Le parole non ci servono: le cose mutano e ci impedisco ­no di nominarle… Bisognerebbe risalire con la memoria fino al punto della prima innocenza. Sì, io ho sognato questa capacità senza raggiungerla ». Ai sobri e ai fiduciosi che intendono que ­sti pensieri oggi tocca segnare nel libro mastro un’altra trafig ­gente inezia: la morte di un poeta.

2 – Vita di un uomo
di Sergio Surchi

Giuseppe Ungaretti era nato il 10 febbraio 1888 ad Alessan ­dria d’Egitto da genitori lucche ­si. Perduto molto presto il pa ­dre (che morì in seguito a un incidente riportato mentre lavo ­rava allo scavo del canale di Suez), restò con la madre, don ­na dal forte carattere, che ge ­stiva un piccolo commercio ed era in contatto con molti altri italiani stabilitisi per lavoro in Egitto, fra i quali alcuni gruppi di anarchici e di socialisti.

La sua prima poesia l’aveva scritta a dodici anni: un sonet ­to per il compleanno di un ami ­co rimasto orfano di entrambi i genitori e rinchiuso in un col ­legio di gesuiti. L’amico scappò di notte dal collegio per anda ­re a ringraziarlo. L’infanzia di Ungaretti fu scandita dal canto dei beduini, che avevano le ten ­de presso la sua casa; qualche volta, però, arrivavano nella casa anche i figli delle belve. Il deserto fu il primo fondamen ­tale « paesaggio » della sua vir ­tuale poesia. Più tardi, quando dall’Africa sarebbe andato sul Carso, il deserto ancora, un de ­serto diverso e uguale, avrebbe dominato i suoi versi, come pre ­sagio tragico, come sottofondo di un’umanità precipitata nella sua solitudine. Dopo aver fre ­quentato l’istituto Don Bosco di Alessandria, si iscrisse all’Ecole Suisse Iacot: e già qui ebbe mo ­do di leggere Leopardi, Baude ­laire, soprattutto Mallarmé (un professore, in classe, leggeva il « Mercure de France », organo dei simbolisti francesi). Non de ­cifrava ancora il senso di Mal ­larmé â— confessava â— ma ne rimase subito affascinato. Fu un « incontro » fra i più decisivi della sua giovinezza.

Alla Sorbona

Nel 1912 lasciò l’Egitto e, at ­traversata l’Italia, si recò in Francia, a Parigi, per prosegui ­re gli studi alla Sorbona e al Collège de France. Conobbe Va ­léry, Gide e numerosi altri scrit ­tori e artisti, non solo fran ­cesi. Palazzeschi, Papini e Soffi ­ci gli chiesero delle poesie da pubblicare in Lacerba e nella rivista fiorentina uscirono fra il 1914 e il ’15 le sue prime liri ­che. Il paesaggio di Alessandria d’Egitto, la prima, fu tra quelle che poi rifiutò; ma Giuseppe De Robertis l’avrebbe più tardi rac ­colta nel volume delle Poesie di ­sperse (ventitré poesie, alcune delle quali erano apparse in La ­cerba e altre nelle prime edizio ­ni dell’Allegria).

Allo scoppio della guerra fu interventista. Nel ’15 s’arruolò e, giudicato inadatto al coman ­do, come soldato semplice del 19.o reggimento fanteria andò in trincea, sul Carso. Nel ’17, col corpo d’armata italiano in Fran ­cia, fu sul fronte della Champa ­gne. Scrisse in trincea i versi che sarebbero entrati nel suo primo volume, Il porto sepolto, e una parte di quelli dell’Alle ­gria. Stendeva quei detriti di parole, quelle poesie scarne e tragiche, fra un tiro e l’altro â— come spesso raccontava â— sulle cartoline in franchigia, sulle bu ­ste delle lettere o addirittura sull’involucro di cartone delle pallottole.

Il volumetto del Porto sepolto fu pubblicato a Udine nel 1916 da Ettore Serra, un poeta spez ­zino vissuto in Toscana, che gio ­vanissimo si trovò sull’Isonzo.

In Francia Ungaretti restò fi ­no al 1919, e a Parigi sposò una ragazza francese, Jeanne, che sa ­rebbe stata la fedele compagna di tutta la sua vita. Nel ’19, a Firenze, da Vallecchi, vedeva la luce un’altra raccolta, Allegria di naufraghi, una prima edizio ­ne dell’Allegria, che conteneva un gruppo di liriche in francese apparse a Parigi nello stesso anno: La guerre.

Nel 1920 si stabilì a Roma. Subiaco, Tivoli, Marino, e Roma stessa quando sulla Nomentana si trovava la campagna, sono teatro di quel « sentimento del tempo », di quell’evocazione o presagio della morte, che fu l’ar ­gomento sotteso a quasi tutto il lavoro di Ungaretti fra il 1919 e il ’35. Sentimento del tempo fu il titolo di una nuova rac ­colta, le cui edizioni comincia ­rono a uscire nel 1933. Preceduta dall’Allegria, la raccolta costi ­tuì il secondo volume di quella che sarebbe stata poi Vita d’un uomo, la serie stampata per lo « Specchio » mondadoriano

Furono anni materialmente duri, per il poeta: con la moglie e due bambini abitava in stan ­ze d’affitto e viveva di collabo ­razioni ai giornali.

Lo scrittore

Nel 1936 gli fu proposto di andare a insegnare lingua e let ­teratura italiane all’università di San Paolo in Brasile. E accettò. Fu la sua quarta patria, come diceva. La prima era stata l’E ­gitto, dove era nato; la seconda l’Italia, perché era « di vecchio sangue toscano » (a Lucca de ­dicò una nota poesia: « …Ora lo sento scorrere caldo nelle vene, il sangue dei miei morti. / Ho preso anch’io una zappa… »); la terza la Francia; infine il Brasi ­le, « il paese nel quale lo scon ­tro fra natura e ragione, come dice Leopardi, o tra memoria e innocenza, come oso dire io, mi è parso più evidente ».

In Brasile Ungaretti fu però colpito da un gravissimo lutto: nel 1939, a nove anni, morì in seguito a un’operazione il suo bambino Antonietto. Scaturirono dall’atroce dolore molte liriche di quella che può considerarsi la terza parte di Vita d’un uo ­mo: il volume intitolato appun ­to Il dolore, che raccoglie versi di un arco di anni dal 1937 al 1946.

Rientrò in Italia, a Roma, dopo lo scoppio della guerra. Nel 1942 gli venne affidato l’insegnamento di storia della letteratura moderna e contempo ­ranea all’università di Roma, in ­carico che tenne fino ai raggiun ­ti limiti d’età. Al suo prediletto Leopardi dedicò la prima lezio ­ne, alla quale assistette tutto il mondo culturale romano.

Dal Brasile era tornato por ­tando con sé abbozzi e appunti per un poema, La terra promes ­sa, concepito sotto forma di cori scenici con una canzone in fun ­zione di prologo e con un nu ­cleo drammatico. E’ un ritorno al mito di Enea e una risco ­perta della terra italica. Enea sbarca infatti in Italia, e l’amo ­re e la morte di Didone sul ro ­go sono rievocati in un laceran ­te iter della memoria. I fram ­menti della Terra promessa fu ­rono pubblicati nel 1950.

Non mancarono altre e diver ­se angustie, per l’autore dell’Alle ­gria, nell’immediato dopoguerra. Sottoposto a un procedimento di epurazione, subì giudizi di tre gradi; ma le commissioni stabi ­lirono che « non poteva essergli mosso alcun addebito ». Fu tut ­tavia un’altra ragione, non lieve, di avvilimento.

In una casa sull’Aventino, da ­vanti all’ampia veduta del Circo Massimo, compose altre liriche di un’arcana magìa, come Il com ­pleanno (« Ogni anno, mentre scopro che febbraio / è sensiti ­vo e, per pudore, torbido, / Con minuto fiorire, gialla irrom ­pe / La mimosa. S’inquadra alla finestra / Di quella mia dimora d’una volta. / Di questa dove passo gli anni vecchi… »). Un grido e paesaggi, una raccolta uscita nel 1952, riuniva versi re ­centi e meno recenti, intonati per lo più a quegli « anni vec ­chi ». Rilevante è anche un poemetto in duecento versi, Monologhetto, che ha servito da mo ­dello a vari autori per una serie di componimenti analoghi.

La quarta patria

L’attività svolta da Ungaretti anche come scrittore in prosa (si pensi ai molti scritti apparsi in giornali e riviste) trovò una sorta di condensato nella raccol ­ta Il povero nella città, del 1949 e nel volume Il deserto e dopo, del ’61, che ampliava la scelta. Nel ’60 uscì anche Il taccuino del vecchio, antologia di articoli e di riflessioni. Oltre un prezio ­so volumetto (« Dialogo ») che di recente raccolse poche poe ­sie d’amore di altissima tensio ­ne poetica, da qualche mese è uscito col titolo « Vita di un uomo » un volume unico mon ­dadoriano che raccoglie con ogni apparato critico tutta la poesia di Ungaretti.

Un posto a sé ha infine il lavo ­ro svolto da Ungaretti, come tra ­duttore. Oltre i sonetti di Gongora, tradusse anche poesie di Essenin, due canti popolari arabi, opere di Palhan, l’Anabasi di St. John Perse; ma una citazione particolare merita la versione di quaranta sonetti di Shakespeare (pubblicata nel 1946), che rivela un’aderenza incandescente al det ­tato del grande classico inglese. Nel ’48 uscì la raccolta di ver ­sioni « Da Gongora a Mallar ­mé » (di Mallarmé tradusse fra l’altro L’après-midi d’un faune). Fra le traduzioni che fecero co ­noscere in Italia una poesia sco ­nosciuta, o quasi, si devono an ­noverare quelle da alcuni poeti brasiliani. Al 1950 risale un’altra versione memorabile: quella del ­la Fedra di Racine.

Fra le traduzioni all’estero del ­la sua poesia, importanti sono quelle uscite in Francia ma ogni grande paese gli ha ormai tri ­butato traduzioni e riconoscimen ­ti critici indiscussi.

Nel gennaio 1961 il presiden ­te della Repubblica, in Campi ­doglio, gli conferì la « penna d’oro » per la sua opera poeti ­ca. Da anni aveva lasciato la casa sull’Aventino e era andato ad abitare a un panorama estre ­mamente diverso: all’EUR. Quest’anno il poeta, da anni candi ­dato all’altissimo riconoscimento, era stato sul punto di ricevere il premio Nobel.

Aveva viaggiato assai negli an ­ni sessanta: fra l’altro era stato alcuni mesi negli Stati Uniti per tenere un corso sul Leopardi al ­la Columbia University, e, con altri scrittori della Comunità Eu ­ropea, si era recato nell’URSS. Un incontro con due mondi nuo ­vi per lui, di cui parlava spesso con vivacità e anche con entu ­siasmo. Proprio negli Stati Uniti dove si era recato per ricevere un altissimo riconoscimento cri ­tico, l’ha colto l’ultima recente malattia.

3 – Dal sito del Comune di Lucca:
(autore Valerio Cecchetti)

Il poeta Giuseppe Ungaretti nacque in Egitto da genitori lucchesi, il padre di San Concordio, la madre di Sant’Alessio; erano emigrati là per il taglio dell’istmo di Suez. Esiste ancora a San Concordio la Corte Ungaretti dove abitavano i suoi avi. La mattina del 15 maggio 1958 il Sindaco di Lucca conferì solennemente al poeta la cittadinanza onoraria ed io ero tra le numerose persone convenute per vedere ed ascoltare questa personalità così illustre e famosa. Avevo presente nella mia mente la poesia “Lucca”, dove in pochi versi stringati, ma coinvolgenti, così sintetizzava l’emigrazione lucchese: “A casa mia, in Egitto, dopo la cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di questi posti. La mia infanzia ne fu tutta meravigliata. La città ha un traffico timorato e fanatico. In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è partire. Mi sono seduto al fresco, sulla porta dell’osteria, con della gente che mi parlava di California come di un suo podere…” Assistei, quella mattina, alla trasformazione di quella “meraviglia”, suscitata in lui dai racconti della madre che “parlava di questi posti”, in esultanza vera. Al tempo in cui vissero i genitori del poeta, i cittadini lucchesi andavano a lavorare lontano, ma ritornavano in famiglia appena potevano; quella gente parlava “di California come un suo podere”, era là il loro posto di lavoro. Partivano con la stessa facilità di quando si va a lavorare nei campi, nelle officine, nei negozi, negli uffici e poi si torna a casa! Quella mattina, in Comune, il poeta prese la parola per ringraziare, iniziando con un delicato rimprovero, infatti esclamò: “Da settanta anni, oso dire, aspettavo questo giorno! Non gli onori, che sono il segno di una immeritata benevolenza, ma il riconoscimento – e la benevolenza volle essere solenne – il riconoscimento che prima di tutto io sono figlio di Lucca. Tutto – il – mio – sangue – è – lucchese” scandì “da origini che immagino remote, perché discendo da contadini. Non so quando venne al contadino la smania d’emigrare, ma avrà posseduto sempre le due nature, del nomade e del casalingo. La voglia di partire non si disgiunse mai nell’animo dall’ansia di sentirsi attaccato alla patria sua, anche quando, ne sono testimone, sia rampollo di generazioni succedutesi in lontananza… La fedeltà alle memorie, l’ossessione delle memorie, per cui un ricordo possa farsi eccessivo, leggendario sarà forse il carattere da cui indovinare il lucchese? l’ho visto vivere in Egitto. Era la mia stessa vita. L’ho incontrato in Brasile bottegaio divenuto re del caffè o della canna da zucchero, ed era per me egualmente persona di costumi così tenaci che ovunque si fosse recato a dimorare, non gli sarebbe mai potuto accadere di sentirsi sradicato dall’amato suolo, quantunque la nostalgia roda senza pietà…”


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Bart