PITTURA: I MAESTRI: Paolo Uccello: Il tempo dietro il tempo3 Aprile 2018 di Ennio Flaiano Aspettavamo la fine dell’arte, è venuta la fine della moda. Come farfalle notturne, i genii impazienti vol Âteggiano attorno al lume, qualcuno finisce nella cera della candela. Alla mostra di questo genio trovai che l’unica opera esposta era una coppia di cavalli da tiro presi a nolo. Nel silenzio mondano due camerieri giravano coi loro vassoi tra gli invitati impassibili. Uno dei cavalli lordò il pavimento. L’artista prese allora a dipingerlo di celeste. “Ah, no,” pensai “non si può copiare così sfacciatamente Paolo Uccello”. Ma nes Âsuno sorrideva. La regola del gioco impone l’ele Âgante accettazione di ogni idea; e non è più un mi Âstero che oggi il cretino è pieno di idee. Qualche tempo dopo ero a Firenze, mi rivenne in mente Paolo Uccello. Ma, chiuso il Chiostro Verde per restauri, e gli Uffizi per il riposo settimanale, giro Âvagai sotto un vento allegro, mi persi per strade dove vecchi artigiani sembravano ulivi piantati nelle loro botteghe. Al crepuscolo, la luce era quella senza tem Âpo degli antichi maestri. Da Alinari comprai fotografie di opere di Paolo Uccello, le distesi sul letto della mia camera d’albergo. La solitudine non mi è mai nemica. Nell’angolo superiore della finestra vedevo un comignolo possente e uno spicchio di luna toscana, netta e parsimoniosa. I libri d’arte e il cinema ci hanno insegnato a vedere i particolari, a estrarli dal totale: quell’angolo di fine Âstra era “un particolare della tavola precedente”. Di quale autore? Rimasi così seduto a lungo, senza pen Âsare. Di colpo, come accade verso la fine di certi so Âgni, appena prima del risveglio, in cui s’illumina il significato del nostro destino e tutto diventa chiaro, la pittura mi parve potersi definire una vita nella quale riflettiamo la nostra. Prospero, noi siamo fatti della stoffa dei buoni quadri, non di quella dei sogni! Un attimo dopo questo pensiero s’era dissolto, me ne restava soltanto l’abbaglio: inservibile, vuoto di sen Âso. Guardai l’autoritratto di Paolo Uccello. Era sul cuscino, coi suoi folti scopettoni bianchi, la bocca indurita dalla rassegnazione; ma di vecchio non facile. ” capricciosissimo “. Ne seguì questo dialogo: Io Maestro, di voi si hanno notizie sostanzial Âmente tristi. Il prospetto cronologico di ogni artista è sempre triste, per bene che vada, ma il vostro è deso Âlante. Anche molte attribuzioni sono discusse. Il Vasari, che scrisse di voi settantacinque anni dopo la vo Âstra scomparsa, vi ritiene un maestro di buona volon Âtà , perdutosi dietro le cose della prospettiva. Le quali, anche se ingegnose, estrapolano dalla grande arte. “Chi le segue troppo fuori di misura” dice esatta Âmente il biografo “getta il tempo dietro il tempo, affatica la natura, e l’ingegno empie di difficultà . e bene spesso di fertile e facile lo fa tornare sterile e difficile”. Così vorrebbe spiegare il vostro destino “solitario, strano, povero e malanconico”. Investigan Âdo la prospettiva trascuraste le figure e alla fine, in Âvecchiando, “sempre le faceste peggio”. paolo Discutiamone. Il fine dell’arte della pit Âtura non era per me fare figure meravigliose; poiché il meraviglioso a lungo andare porta alla perfezione e la perfezione alla maniera. Un secolo dopo la mia scomparsa non c’era in tutta Italia pittore che non sapesse fare eccellenti e inutili figure, alla maniera di qualcuno, o alla propria. La malattia professio Ânale dell’artista è di ripetersi, quella del pittore deve essere invece di affinarsi, di restare senza linee e senza colori: come il baco da seta che resta senza filo. Io ho seguito la mia arte per isolare un certo dato del vero. non mi sono posto il compito di rendere utile il mio lavoro o di iniziare una scuola, ma ho lavorato attor Âno alla natura, ne ho voluto estrarre una mia essenza particolare. La natura vista come gioco? L’uso del colore come metafora? La metafora, dice Aristotele. è chiamare le cose col nome di altre cose. Questo spiega la mia tendenza alla solitudine. Il Vasari ha scritto che fu la prospettiva a ridurmi a star solo e quasi selvatico, “senza molte pratiche”, ossia prati Âcando poco gli amici, le settimane e i mesi in casa, senza lasciarmi vedere. E che cosa deve fare un pit Âtore, se non questo? Si è parlato molto della mia povertà , facendomene un rimprovero, ma la stessa povertà è l’elogio che si fa a san Francesco d’Assisi. E non amavamo tutti e due la natura, sino a vederla come non è affatto, sino a inventarla daccapo? Io che mi chiamo Paolo di Dono fui chiamato Paolo Uccello perché dipingevo uccelli, san Francesco agli uccelli tenne persine discorsi. Dov’è dunque il mio sbaglio? Voi mi direte che san Francesco seguiva un suo ideale di perfezione morale e che questo ideale doveva dimostrarlo per eccesso, ammansendo un lupo invece di ucciderlo, lodando l’acqua che è dap Âpertutto, o il fuoco, come se non l’avessimo. Io seguivo un’altra morale, quella dell’arte, che consiste nel non frodare col proprio talento, ma anzi nel rivol Âgerlo alla comprensione delle cose naturali, tutte mi Âsteriosissime appunto perché ci appaiono evidenti. E allora si scopre che i colori non sono quelli che vor Ârebbero farsi credere: che i colori bisogna smasche Ârarli. E le linee sono soltanto un seguito di punti, che somigliano più al pensiero che alla cosa, e dunque le linee bisogna costringerle, farle rigare dritto. Il Vasari… Oltre al Vasari ho avuto uno strano bio Âgrafo, un francese, il quale ha scritto, tra alcune vite immaginarie, anche la mia. Io Marcel Schwob, un poeta. Vi conobbi pro Âprio nel modo che vi piace, attraverso lui, in una di Âmensione immaginaria. paolo Costui in sostanza mi pone sul capo un’au Âreola di santo sempliciotto ma testardo, un asceta in Âsaziabile. Fa di me un Beato Angelico della prospet Âtiva, che dipinge stando in ginocchio e trascura le cose del mondo, quello stesso mondo che intende rap Âpresentare, finché la morte lo coglie come un fiore secco, senza che se ne accorga, tutto preso dalla follia di fare e rifare le stesse cose impossibili, sordo ai la Âmenti della moglie e della figliola che chiedono pane. Io II Vasari racconta che vostra moglie soleva dire che tutta la notte voi, Maestro, stavate allo scrit Âtoio per trovare i termini della prospettiva, e che quando ella vi chiamava a dormire, voi rispondevate: “Oh, che dolce cosa la prospettiva!”. Sicché passa Âste alla storia come un maestro di questa scienza e, probabilmente, senza le tre tavole della Battaglia di San Romano, nessuno vi stimerebbe oggi grande pit Âtore. paolo Voi sapete come sono le mogli, anzi le vedove, che cosa non dicono del loro defunto, per apparire biografe esclusive. Non ricordo di aver detto mai che la prospettiva fosse una dolce cosa, ma sem Âmai una teoria, la quale anche questa il pittore deve smascherare. Voi avete citato la Battaglia. In queste tavole ho sbagliato di proposito tutte le prospettive, quelle dei vari cavalli e degli armati. Nella prima tavola, la londinese, l’errore di collocazione del guer Âriero morto è evidente. Con questo errore io insinuo nel riguardante il sospetto che la morte riduce gli uomini, anche i guerrieri più possenti, a poveri fan Âtocci, non solo fuori del tempo, ma dello spazio. Vi Âsta dall’alto, una battaglia può sembrare una festa campestre, vista dal combattente è soltanto confu Âsione, paura e dolore. La verità è nel mezzo, ogni battaglia è un happening, con la logica ferrea che la fa mostruosa poiché si trasforma, nello stesso attimo in cui si realizza, in un continuo mobile. Restano di una battaglia alcuni flashes, non necessariamente cro Ânologici e prospettivi. Resta lo stupore dei cavalli bianchi e neri, e anche di quelli rosa e celeste, lo stesso stupore arrogante dei cavalli delle giostre. Resta l’immobilità dei cavalieri, i loro gesti fissati negli attimi che precedono la morte. Quello che accadrà non mi interessa, detesto la carneficina, anzi dirò che non mi spaventa. Mi turba di più la minaccia, la cosa che dovrà succedere. Il negro che nella Cappella degli Scrovegni tiene alta una verghetta per flagellare il Cristo, e non colpisce, annunzia l’inizio della tragedia e mi sconvolge più di tutti i personaggi realistici e manieristici dei secoli seguenti, che compiono il mas Âsacro sotto i nostri occhi. La tragedia è immobilità , arte di truccarsi. I cavalli e i cavalieri di San Ro Âmano, e quelle lance che ricordano altre lanzas, sono parati per la festa della loro tragedia, impassibili. Solo un cavallo rosa perde la testa e scalcia goffa Âmente, come un somaro: e sta nella composizione come appunto un raglio di somaro prima che spari il cannone. La conoscenza della prospettiva mi è ser Âvita per dominarla, e rendere assurdi, fuori posto, come in un sogno o in un turbine, i particolari: i maz Âzocchi, gli abbigliamenti, i piumaggi, i turbanti; ma ogni oggetto ha un suo proprio punto di fuga, il che da all’insieme un che di strabico, lo strabismo di Ve Ânere, of course, quello che rende impenetrabile il volto della dea. Ma per chiuderla con questa fac Âcenda della prospettiva, vi dirò che io me ne sono servito nel solo modo accettabile: riducendola a un miraggio. E ora parliamo d’altro. Che ne pensate di Piet Mondrian, l’olandese? Io    Con tutto il rispetto, Maestro, lo considero un grande pittore. Anzi, si direbbe che m’avete letto nel pensiero, stavo appunto pensando a Mondrian, al mondo euclideo che ha esplorato, dedicandogli una vita. Per arrivare, come certi antichi esploratori dell’Artico, all’essenza di due linee immaginarie che si incontrano in uno spazio inesistente. paolo Era un uomo di fede e voleva dimostrare l’esistenza di Dio attraverso la ragione. Ma non si dimostra l’esistenza di Dio rifiutando la natura. Mi hanno raccontato di lui che, ormai avanti negli anni, una giovane donna se ne innamorò e gli regalò un fiore. Egli osservò imbarazzato quel fiore e glielo re Âstituì: non sapeva che farne; o meglio, veniva a tur Âbare le sue teorie. Io ho amato tanto i fiori e gli ani Âmali che, non potendo tenerne in casa, li dipingevo, migliorandoli un po’, atteso che anche i fiori vanno smascherati. E dipinsi animali sconosciuti, come il cammello, che ho fatto simile a un gran rospo con la gobba, per sentito dire. Io mi sarei trovato a mio agio nell’Arca del padre Noè. O nei giardini del Âl’Eden. Oh, che dolce cosa la pittura! Quando i suoi pennelli erano finiti, inutilizzabili, Giorgio Morandi, il bolognese, non li buttava tra i rifiuti: li sotterrava nel suo orto, per mettere al riparo dalla corruzione anche i più umili arnesi del suo lavoro; che avevano partecipato al suo lavoro e dovevano mantenerne il segreto. Una volta, per controllare la sua ispirazione, uno sciocco gli chiese se era mai stato all’estero. Ri Âspose: “Sì, ma non ci ho mai dormito”. Dissero del Doganiere Rousseau, il francese, che non era un sem Âplice, un ingenuo, un impreparato mosso soltanto da un’innocua presunzione; ma che aveva ben studiato di nascosto i suoi maestri al Louvre. Quindi anche me. Così di Paolo Uccello potranno dire: non era un melanconico geometra, ma aveva ben guardato le tele del Doganiere, di Morandi e di Mondrian; il che può essermi accaduto, poiché tra i pittori di una stessa specie, solitari, apparentemente fuori della so Âcietà , in una parola portati alla perdizione (e dei quali il mondo si accorge un bel giorno che hanno lavorato, mentre gli altri pensavano), corrono le identiche informazioni: sono uniti da una medesima su Âblime certezza. Se dovessi esemplare la natura di que Âste informazioni insisterei su questo: che l’arte, come del resto la santità , è un modo di tenere i piedi sal Âdamente poggiati sulle nuvole. La mia naïveté mi ha procurato anche la fugace menzione di precur Âsore dell’odierno surrealismo. In verità l’arte è sol Âtanto trascendenza del reale, non come gioco abile o disposizione assurda di oggetti, ma come soluzione del mistero. L’arte non è un nodo che si può tagliare, si deve sciogliere. E questo porta che ogni vero artista. ognuno nella sua misura, quando dipinge fa del sur Ârealismo, propone un ordine che non esiste in natura. Ritorniamo alla Battaglia: io non voglio raggiunger’-nessuna commozione con mezzi drammatici, ma piut Âtosto suggerirne la possibilità con la presenza indissolubile di quei personaggi, che stanno si direbbe alla rinfusa, in realtà col rigore di una collocazione mate Âmatica, dove ogni elemento ha il suo significato e la sua eco. Parimenti: non chiedete alle bottiglie di Morandi di dirvi che cosa contenevano e perché stanno insieme; esse ora sono vuote e nemmeno recipienti, sono equazioni a un ballo mascherato, sempre pronte a imbarcarsi per Citerà o per la Luna, dove il silen Âzio è incorruttibile. Io Comincio a capire perché avete incluso il matematico Antonio Manetti nella tavola dove voi vi siete dipinto tra i fondatori dell’arte fiorentina, assieme a Giotto, Donatello e Brunelleschi. paolo Se mi chiedete perché volli includere An Âtonio Manetti tra quei sommi (io mi c’intrufolai ani qualche vanità , come pittore di animali e di prospet Âtive), vi dirò che io la penso come Cantor, il quale scrisse quanto sia meraviglioso che il matematico possa nella sua immaginazione trascendere ogni li Âmite. Da Manetti ho appreso che ogni vera opera di pittura contiene nella sua filigrana, come vi di Âcevo, una o più equazioni, risolte. E Morandi diceva: “Con la matematica, con la geometria, si spiega quasi tutto. Quasi tutto”. Diceva anche (e questo vi riguar Âda): “La pittura non si spiega sempre con la lettera Âtura”. Giusto: c’è un punto in cui le spiegazioni sono vane, oppure in cui la pittura non si spiega che con altra pittura, come fa lo spagnolo, Picasso; il quale io dico che è un muto che tiene lezioni sulla pittura di molte epoche, facendone un commento e un riepi Âlogo, prima della fine. (Direi che un certo tarlo della prospettiva rode anche questo pittore, una prospet Âtiva, al contrario, incessante, in cui lo stesso oggetto viene rifiutato dal punto di fuga e quindi riproposti) infinite volte. Egli non può smettere di dipingere e ci i disegnare, deve difendersi da questi oggetti che gli ven Âgono lanciati dall’orizzonte come da una macchina guasta. E si difende fissandoli. Io invece disegnavo per trattenerli, ingabbiarli, infine per identificarli.) Io Ma Donatello non approvava la vostra dedizione a questo studio di bottega. paolo Già . Mi rimproverava che la prospettiva mi facesse lasciare il certo per l’incerto, aggiungendo che serve a quelli che fanno le tarsie, “perciocché empiono e’ fregi di brucioli, di chiocciole tonde e qua Âdre, e d’altre cose simili”. Ma non aveva capito nien Âte, come spesso succede ai genii. Mi rimproverava il tempo che perdevo nel disegnare (ho lasciato casse piene di disegni), non supponendo che il disegno altro non è che la trigonometria degli spazi invisibili, e che io ne tracciavo le mappe. (Questa definizione è mia, ma gliela regalo.) Quanti rimproveri ho avuto. Di aver fatto, in una storia, i campi azzurri, le città color rosso, gli edifici variati secondo il mio estro, non osservando la regola che vuole monocrome le storie dipinte ! Di aver messo lepri e levrieri sullo sfondo di una battaglia. Ma ho fatto di peggio: nella stessa battaglia ho messo (ma non si vedono) animaluzzi che si divorano l’un l’altro, ognuno credendo di essere lui il soggetto del quadro. E ciò per monito ai combattenti, che nessuno oggi .ricorderebbe se io non li avessi ritratti. Morale: tutte le macellerie dei tempi antichi, da Canne in poi, non possono para Âgonarsi a San Romano, dove c’è un solo morto. Avrei voluto dipingerlo come in un haiku giapponese: il ca Âdavere accanto alla sua armatura vuota. Come una ci Âcala d’autunno. Forse sarebbe stato un rincarare la dose, e ciò che può valere per il poeta non deve ten Âtare il pittore. Ma parlavamo di Donatello. Il Vasari ricorda la sua più cattiva boutade sulla mia opera, quel San Tommaso che dipinsi in Mercato Vecchio sopra il portale della chiesa appunto dedicata al san Âto, e che io feci circondare di tavole affinché nessuno lo vedesse prima che fosse finito. E quando tolsi le tavole e chiesi a Donatello il suo giudizio, mi rispose: ” Eh, Paolo, ora che sarebbe ora di coprire, tu sco Âpri”. Fu quella la mia ultima opera di pittura, ero troppo vecchio per continuare, mi chiusi in casa e il resto è noto. Tutto ciò che avevo fatto ormai non contava più, il Chiostro Verde, le mie storie, le pre Âdelle,  i ritratti di gentiluomini e gentildonne.  Ah, quelle gentildonne fiorentine, tutte esangui e argute, di un’innocenza putrida,  destinate  a diventare zie. Io Maestro, parlavate di gentildonne. Il mio giudizio non ha valore, ma devo dirvi che tra le opere di pittura che sono state per me folgorazioni, dandomi la stessa felicità che la Veduta di Delft di Vermeer dava a un personaggio di Proust (ma in Âvece allo stesso Proust), tra queste opere conosciute in un’epoca in cui la riproduzione dell’opera d’arte non era così vasta e intensa come oggi; opere che vanno dall’Allegoria del Bellini, vista di colpo en Âtrando in una sala degli Uffizi quando avevo vent’anni, al cippo di Demetrio nel Museo di Atene; in Âsomma in quella galleria personale che ognuno si fa, scegliendo le opere per una subitanea e inspiegabile emozione che esse gli suscitano e che per un attimo lo fanno  sentire  in   comunione   con  l’irrazionale   e l’eterno, anzi con la felicità dell’irrazionale e l’eterno, c’è appunto una gentildonna dipinta da voi. Il qua Âdro si trova a Londra, rappresenta San Giorgio e il drago. Esso dovrebbe illustrare un’impresa attribuita a san Giorgio: soggetto che il Pisanello e il Carpac Âcio hanno svolto con una densa drammaticità , arri Âvando al capolavoro. Voi l’avete tenuto nel mondo ambiguo delle mitologie infantili,  dove ogni personaggio ha valore di simbolo come le carte da gioco. Il clima è quello di una moralità leggendaria di Laforgue, appunto Andromeda. Si pensa che san Gior Âgio sia venuto a interrompere l’incredibile idillio tra il mostro e la bella, tanto elegante appare costei che la grotta sul fondo dev’essere il suo guardaroba. Ed è così ben tenuta l’erba che allieta lo spiazzo di pietra… L’ora è vespertina, la luna, la vostra solita luna, paolo Voi state spargendo un po’ di letteratura su un soggetto mitologico. È un vizio del vostro tem Âpo. Come molti intellettuali, anche voi, immagino, andate talvolta nei cinema d’essai a rivedere vecchi film comici che avete già visto al tempo del loro pri Âmo apparire. Vi sarete accorto che i giovani d’oggi li misurano con un metro del tutto estetico, ammi Ârano la concisione, i tagli, le inquadrature fisse, le palesi ingenuità e quel tanto di incredibile e di onirico che li anima, le corse folli, le cadute clamorose, e par Âlano di surrealismo, naturalmente. Ma non ridono. Non sanno che quei film erano prodotti da vedersi in buona fede, con un accompagnamento di orche Âstra; e che facevano ridere proprio nella misura in cui interpretavano buffonescamente il loro tempo. Oggi vengono proiettati in silenzio e si finisce per attribuirgli significati che non volevano avere. Così, la lettura di un’opera d’arte deve tener conto del tem Âpo che la vide nascere, deve essere storica. Si è par Âlato di me confondendomi con un “pittore di cas Âsoni”. Bene, quella tavola poteva essere di un cas Âsone; ma solo perché ai miei tempi anche un cas Âsone era un’opera d’arte, non nel senso che date voi a questa parola, cioè di espressione irripetibile, di fatto critico, di invenzione bizzarra, o semplicemente di scelta e di comportamento: era un prodotto. Per farlo, bisognava conoscere le fasi della lavorazione del prodotto, dominare i materiali, prevedere il risultato. Un pittore non poteva mai essere un cattivo pittore; se cattivo, non avrebbe resistito al tirocinio. E avve Âniva che i migliori pittori erano semplicemente i più bravi. Uso, amore, arte e grazia insegnano ogni cosa: così diceva Jacopone da Todi. L’uso, soprattutto. Io immagino Shakespeare nel suo teatro come un fale Âgname nella sua bottega, che squadra le tavole, sa quali deve usare per quel dato mobile, conosce il gusto dei suoi clienti, e fa tutto con facilità e genio, sen/a pensarci. Se fa entrare in scena un buffone è perché nella troupe ha un attore che piace al pubblico e fa ridere. Prendeva i suoi soggetti, li squadrava, pial Âlava, incollava, recitava, senza mai allontanarsi dalla bottega. La Bruyère diceva: ” È un mestiere fare un libro, come fare una pendola”. O come fare una barca, aggiungo io, perché se la pendola ritarda poco male, ma se la barca affonda bisogna salvarsi. Stendhal copiava dalle cronache italiane, sapeva il suo mestiere: è copiando che si inventa. Il difetto comune di oggi è di voler imparare inventando. Non esistono che idee puerili. Si preferisce cominciare inventando invece di osservare, correndo avanti col pensiero il più lontano possibile. E così cominciamo sempre con la fine. Incredibile quel che rispose Michelangelo ormai vecchio, quando gli domandarono: “Dove vai con questa neve?”. “A scuola,” rispose “per tentare di imparare qualcosa”. Il cavallo del mio San Giorgio devo averlo copia Âto, dicono, da Andrea del Castagno. E con ciò? Non è mio, in quel quadro? E la gentildonna? Presa da qualche predella. L’unica invenzione è il drago. non avevo mai visto un drago. La tavola si salva, perche la lotta si compie con grande calma e pulizia, iscritta in un triangolo scaleno; e anche a me, ora che ci penso, quella tavola mette allegria, è il triangolo più leggiadro e rigoroso prodotto dalla mia geometria, e il più fiorentino. C’è anche di buono che i colori hanno tenuto e splendono come nuovi. Ogni minimo risultato chiedeva infinita pazienza. Il genio era sottinteso.
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