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LETTERATURA: I MAESTRI: La perdita del significato

28 Giugno 2012

di Cesare Brandi
[dal “Corriere della Sera” del 23 giugno 1969]

Più di vent’anni or sono usci un libro sull’arte moderna che divenne ben presto famoso. La perdita del Centro, di Hans Sedlmayr. Il li ­bro era di uno storico d’arte, illustre per giunta, e rappre ­sentava un acuto intervento, acuto anche per chi profon ­damente ne dissentiva; né or ­mai sarebbe il caso di ravvi ­varne la tesi, che procedeva da un punto di vista così ostentatamente « di centro », per fondare una requisitoria dalla fine del ‘700 al tempo nostro. Da allora, per chi in ­sista su un punto mediano dove starebbe la virtù, le co ­se sono ancora peggiorate, an ­zi vanno a rotoli. Ma non è per rinfrescare questa visio ­ne apocalittica che ora mi muovo: semmai per avversar ­la anche contro me stesso, co ­me mi è accaduto pochi giorni fa, quando, rientrato nell’Università di Roma, de ­vastata « a vuoto » nella recente occupazione, con le bar ­ricate inutilizzate dietro cui le milizie si squagliarono senza colpo ferire (e per for ­tuna fecero così), leggo pro ­prio su quella specie di aren ­gario che sta sulla sinistra della Facoltà di Lettere, que ­sta iscrizione cubitale in ver ­nice rossa: « Non per il di ­ritto allo studio ma per il di ­ritto alla lotta contro lo stu ­dio ».

Sulla violenta ribellione, che sorse dentro di me, get ­tai naturalmente tutta l’ac ­qua che potei: i dissennati trovandosi sempre anche fra i migliori, anzi i peggiori fra i migliori, come diceva un an ­tico adagio latino, la corru ­zione dell’ottimo essendo pes ­sima, e che insomma, col sen ­so infantilmente provocato ­rio, la scritta provocava pro ­prio un irrigidimento in chi già è più rigido del ferro, nel ­le sue prerogative, e invece uno scoramento in chi, nella radicalizzazione della lotta, non vede che il naufragio della cultura. Comunque non sopravvalutiamo la scritta e non sopravvalutiamo le bar ­ricate fatte e abbandonate per il letto familiare e il lat ­te caldo: ma un significato devono pure avere. E’ allora che mi sono sovvenuto di quella perdita del Centro, che si è configurata in me come perdita del significato. Ma come, perdita del significato, se tutta la scienza è protesa, e proprio quella più attuale, in una ricerca del significato?

*

Se lo strutturalismo, dalle basi di de Saussure, è volto quasi esclusivamente alla indi ­viduazione di strutture portan ­ti di senso, e così è trapassa ­to dalla linguistica nella psi ­canalisi e nell’antropologia, le tre scienze che, a dire di Foucault, rappresentano i sa ­lienti stessi del pensiero mo ­derno? Non mi sognerei allo ­ra di negare questo orienta ­mento della scienza che è sempre più deciso, anche se io non ritenga che lo struttu ­ralismo debba confinarsi, per l’arte almeno, nella sola ri ­cerca del significato, o alme ­no del significato come s’in ­tende per il segno in lingui ­stica.

L’orientamento è questo, ma solo per chi interroga il nostro tempo dai diversi pun ­ti di vista panoramici: per chi vive a livello, e sempre più alla giornata, il signifi ­cato dilegua. Né altrimenti si potrebbe interpretare la vo ­ga della psicanalisi che dalla America sta dilagando ormai dappertutto, perché dapper ­tutto dilaga l’incapacità di cogliere il significato, di dare un significato alla propria vi ­ta. Da questo punto di vista la contestazione acquista un aspetto ben diverso, che sia quella degli studenti univer ­sitari o quella dell’Isolotto, o appena ieri in San Pietro. La contestazione che diviene glo ­bale, diviene globale proprio per questo, per l’assenza di significato, per l’impossibilità o l’incapacità di arrestare, o delimitare o concretare una richiesta, che, appena formu ­lata, sfugge a se stessa, si vuota come un palloncino ri ­pieno di gas.

Dalla dispera ­zione di un significato che sfugge, si cade allora nella contestazione di tutto, in una ansia di rinnovamento che non crede al rinnovamento, che non può credere in nulla perché, per credere, in primo luogo bisogna che la cosa in cui si crede abbia significa ­to. Sull’incapacità degli stu ­denti di esprimere delle idee o metodologie concrete, che non si risolvano, come la ri ­chiesta del voto unico, in as ­senza di metodologia o in rinnegamento della cultura (la lotta contro lo studio, dell’iscrizione famigerata), naturalmente si specula a non finire da parte dei benpen ­santi: ma non è che questi gio ­vani, che riconoscono se stes ­si solo in assemblea e non vogliono plenipotenziari, sia ­no particolarmente o subdoli o incapaci o svogliati o anar ­chici. Nella misura in cui ap ­paiono soli, lo sono per man ­canza di fondamento: e il fondamento siamo noi che non gliel’abbiamo trasmesso. Perché questo fondamento lo abbiamo perso anche noi, se mai l’abbiamo avuto. La crisi attuale della Chiesa è allora più che tipica: col Vati ­cano II doveva rinnovarsi, col Vaticano II ha messo in luce che le innovazioni litur ­giche, l’abbandono del latino e della tonaca scoprono sem ­pre di più che il deposito della fede è un sepolcro vuo ­to: il significato della fede sfugge al credente, come il significato dello studio sfugge allo studente.

Nell’un caso e nell’altro si accusano le gerarchie, le ba ­ronie dei professori, l’utiliz ­zazione dello studio per i quadri neo-capitalisti, come le remore ecclesiastiche, il celibato, le antiche dottrine che uscirono dalla controri ­forma anchilosate nella lette ­ra e nello spirito: ma nello stesso tempo si vuole restare nell’Università e nella Chiesa.

*

Si occupano le Università e si occupano le Chiese, dal Duomo di Parma all’Isolotto, o San Pietro. Quindi l’unica appartenenza che venga sen ­tita come tale, efficace ed ef ­fettiva, è quella del sit-in: il significato viene dall’involu ­cro esterno, dal luogo cioè dove uno si trova che sia la Università o la Chiesa. In realtà l’unico modo di affer ­mare l’inadeguatezza, su cui concordo in pieno, dell’Uni ­versità attuale come istituto, e della Chiesa come « eccle ­sia », sarebbe di disertarle. Il momento che non avessimo più studenti e i preti non avessero più fedeli, la conte ­stazione sarebbe allora e per davvero efficace. O cambiare gli istituti o rassegnarsi a chiuderli: ma non con una serrata. Vorrebbe dire che il significato della cultura o del ­la fede sarebbe stato ritrova ­to da ciascuno in una convin ­zione interna che non ha bi ­sogno di assemblee e di cor ­tei; di funzioni o di sacra ­menti.

Solo così si concreterebbe una nuova epistème, per ri ­prendere la parola contestatissima ma felicissima di Fou ­cault: un nuovo ciclo di ci ­viltà, nato su basi opposte a quelle di ieri, e neppure in dialettica, perché i veri gran ­di sovvertimenti nella storia culturale (non politica, cioè) di un’epoca esplodono senza programmarsi e senza tavole di fondazione. Starà poi al pensiero critico successivo di rintracciare, se sarà possibile, quale genesi per vie interne avrà portato alle nuove strut ­ture: ma questa loro genesi invano si ricercherà in super ­ficie o perfino nella dialetti ­ca della storia.  

Ed ecco allora che anche il favore e il fervore degli stu ­di di semantica acquistano, al di là del loro valore scientifi ­co, il vero significato; l’assen ­za di significato nell’intimo dell’individuo come nella massa, è quello che fa ricer ­care il significato e lo pone giustamente come scopo pre ­minente nella ricerca.

Perché infatti non si conte ­stano anche le partite di cal ­cio e non si occupano gli sta ­di? E’ un’eccezione solo ap ­parente: nello sport di massa, nello sport che si fa senza professarlo, stando a sedere e immedesimandosi, c’è la ri ­sposta alla richiesta di signi ­ficato. Lo spettacolo dello sport colma, sia pure provvi ­soriamente, questa misura freddamente vuota che uno ha dentro di sé, e che non osa guardare; il proprio mu ­to inferno.

Alcuni anni fa avevo ca ­ratterizzato questa mancanza di fondo della nostra epoca, come perdita nel futuro, per ­dita di una dimensione non solo della temporalità, e dun ­que dell’essere. Non credo di avere sbagliato, perché la perdita del significato non è altro che la manifestazione, a non lucendo, della perdita del futuro. Dove il significato si assimila anche la forma. Il progressivo restringersi al mi ­nimo delle arti figurative non si può ignorare, in questo quadro. A poco a poco, do ­po l’ultima civiltà figurativa, quella dell’ informale, siamo passati all’oggetto bruto, al cascame che però restava og ­getto, bottiglia di coca-cola, letto di ferro, come in Rauschenberg, o cravatta, impermeabile, pala come in Dine, calco di figura umana in Se ­gal, iterazione di un’immagi ­ne fotografica in Warhol. In ­somma c’era il tentativo di salvare se non il significante, il significato. Ma era impos ­sibile che anche l’arte non ri ­sentisse del generale scadi ­mento. Ed ecco allora la mi ­nimal art, le strutture prima ­rie che non devono assoluta ­mente rappresentare nulla se non se stesse, un cubo, una sfera, elementi geometrici e solidi sempre non significanti. E la letteratura: perfino Piz ­zuto, un anziano, investito da questo ciclone generale, divie ­ne ancora meno significante di Balestrini. In quanto alla musica, la perdita seriale, il ricorso al traguardo istanta ­neo, l’abolizione della memo ­ria: sono cose che parlano da sé, ossia non parlano affatto. Non significano, non voglio ­no significare. Dopo di che anche la rivolta studentesca trova nel profondo il suo si ­gnificato. Anche se non sia confortante.


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Bart