LETTERATURA: I MAESTRI: L’altipiano dei fallimenti1 Marzo 2018 di Alberto Moravia La Paz, marzo. Da La Paz al lago Titicaca si va in macchina in meno di due ore. Si corre per una pi sta di pietrisco attraverso la steppa che ha un colore uniforme fra il marrone e il bruno, con striature gialle e gri gie: il colore dei cespugli bassi e spinosi che riescono a resi stere ai venti, al freddo, all’aridità, alla rarefazione dell’aria dell’altipiano. Poiché è la sta gione delle piogge, un’immo bile nuvolaglia nera pende a mezz’aria, simile ad una cate na di montagne capovolte, con la base in su e le punte in giù, lasciando sereno l’azzurro scu ro e gelato degli orizzonti. L’altipiano non è così piatto co no sembra: ogni tanto file di colline pietrose e sgretolate si sollevano di poco sulla step pa. Valichiamo una di queste collinette ed ecco, sotto di noi, allargarsi la distesa diafana del lago Titicaca. Ha un’esten sione di novemila chilometri quadrati; ma le numerose iso le e promontori che ne emer gono e l’aspetto paludoso, in certo, informe delle rive lo fanno parere un’immensa pozzanghera sparsa di pietre, che si stia prosciugando al sole. Quest’impressione è esatta, del resto. Il lago sta morendo; per de per assorbimento del terre no e per evaporazione più ac qua di quanto ne riceva. * Eppure il lago Titicaca co si informe, così deserto, così privo di tracce umane, è stato il centro di una delle due sole culture originali (l’altra è quel la del Messico) dell’America precolombiana. Al lago Titi caca sono collegati i miti del le origini del mondo secondo la religione india; e gli inizi della dinastia imperiale degli Incas. In una delle sue trentasei isole, chiamata, per il culto a cui era votata, l’Isola del Sole, è apparso per la pri ma volta, secondo il mito, Viracocha, creatore dell’uomo, della donna, degli animali, del cielo e della terra. In quella stessa isola sono nati i figli del Sole, Manco Capac e sua sorella nonché coniuge alla maniera faraonica Marna Od io, capostipiti della dinastia che in linea diretta, attraver so quindici monarchi, arriva fino ad Atahualpa, l’ultimo imperatore, ucciso a tradimen to da Francisco Pizarro. Di queste leggende e di questi eventi il lago Titicaca, natu ralmente, non conserva nulla. La memoria atavica degli indi e le ricerche archeologiche degli europei qui si scontrano con il vuoto assoluto e maestoso di una natura forse ori ginariamente abitata dalla sto ria ma che la storia ha abban donato per sempre. Poco lontano dal lago Titi caca, in un immenso anfitea tro naturale formato da basse colline nude ed erose, si tro vano le rovine del santuario di Tiahuanaco, il centro reli gioso più importante della ci viltà india prima degli Incas. A Tiahuanaco si esasperano i caratteri dell’altipiano: solitu dine, luminosità, vastità, vuo to. silenzio. Il tempio affon dato per metà sottoterra, ha muraglie costruite con enor mi blocchi di pietra grigia in castrati a secco con grande ingegnosità e perfezione. La celebre Porta del Sole, con la sua divinità dalla testa felina e la stele chiamata dagli Spa gnoli el fraile (il frate), in realtà un dio anch’esso, in for ma umana, con caratteri tipici indi (busto lungo, gambe cor te, testone, facciona) sono le parti del tempio in cui, oltre alle capacità tecniche ed ar chitettoniche, si rivela il talento propriamente artistico degli indi. * È ammirevole, attraente, bella quest’arte? Diremmo piuttosto che è strana e che ispira un curioso senso di ma lessere, diciamo così, estetico. Paragonala ai prodotti artisti ci dei veri primitivi (arte ne gra, polinesiana, greca arcai ca ecc. ecc.) rivela una stiliz zazione, una cifra per niente ingenue, di tipo tardo e deca dente che dà un’impressione sgradevole come di frutto per metà acerbo e per metà già putrefatto. Che c’è in fondo a quest’impressione? Il senso di una civiltà isolata, senza pos sibilità di prestiti, di confron ti, di apporti, che arriva alla decadenza direttamente dalla primitività senza passare per la fase della maturità. Quel non so che di crudele e di te tro che emana da quest’arte sembra alludere al destino proprio delle cose predestina te al fallimento in quanto fin dagli inizi avviate per la stra da sbagliata. L’individuo può correggere i propri errori attra verso una presa di coscienza; ma le nazioni, le società, le collettività, poiché non vivono a livello morale ma storico, non si accorgono di sbagliare e in realtà non « possono » sbagliare. Possono soltanto fallire, ossia avere una storia breve, una storia catastrofica, una storia in forma di vicolo cieco. Nell’erba, presso la mura glia del santuario, giacciono alla rinfusa molti blocchi di pietra. Si pensa che siano ca duti giù per opera del tempo o delle devastazioni degli spa gnoli. Ma non è così. Il san tuario di Tiahuanaco, a quan to sembra, è stato abbando nato prima di essere finito. Quei blocchi semilavorati era no già interrati nell’erba pri ma della conquista. Chissà, forse gli indi si erano accorti di aver « sbagliato »; di esse re stati traditi dai propri dei; ossia di aver creato una civil tà predestinata al fallimento. Sull’altipiano, però, non so no stati soltanto gli indi a fallire; ma anche i loro oppres sori, gli spagnoli. La croce cristiana è graffita sulla spalla del fraile; e dietro la collina spunta la cupola di una chiesa fabbricata, a quanto ci dicono, con materiale portato via dal santuario del Sole; ma il falli mento spagnolo è visibile dap pertutto nell’abbandono in cui giacciono gli antichi palazzi viceregali, le monumentali chiese barocche, e ancor più nella miseria, nell’ignoranza, nell’arretratezza della popola zione india, dopo quattro se coli di cultura europea. Dalla chiesa, adesso, giungono suo ni agri e discordi di musiche, tonfi cupi di tamburo, scoppi secchi di petardi. E’ la fiesta india, rozzamente e povera mente folcloristica la quale, tra la morte del santuario pa gano e lo squallore della chie sa cristiana, dà il senso acuto e straziante del fallimento con giunto delle due culture. La civiltà india originaria (chiamata collas dal nome del la tribù più importante) era di tipo comunitario, libera e democratica. Ma all’arrivo de gli spagnoli, questa civiltà già da quattro secoli è stata tra sformata dagli Incas in impe ro schiavistico. D’altra parte, gli spagnoli conquistano l’A merica in piena fase controri formistica, quando tutto ciò che c’è di vivo e di nuovo in Europa si trova schierato con tro la Spagna. Così la conqui sta si potrebbe definire la fu sione di due fallimenti, quello indio e quello spagnolo, l’in nesto mostruoso della deca denza europea sul tronco della decadenza india. Ma qual è il motivo profondo del momen taneo successo di questa ope razione teratologica? Come mai un centinaio di avventu rieri si sono impadroniti di un impero di dieci milioni di indi? * Forse l’evoluzione singolare dell’istituzione della mita può fornire, in maniera simbolica, la chiave del mistero. Origi nariamente, ai tempi della ci viltà comunitaria preincaica, la mita era un servizio pubblico al quale le comunità indie si assoggettavano volontariamen te e gratuitamente. Si tratta va di coltivare le terre della comunità, di irrigarle, di im brigliare i corsi d’acqua, di mantenere i sentieri ecc. ecc. La mita era insomma un la voro collettivo in cui si ma nifestava l’alto grado di senso « associativo » degli indi. Poi con l’impero degli Incas, la libera organizzazione comuni taria, si trasforma in struttura rigidamente centralizzata e statale ossia, in sostanza, in servitù della gleba inquadrata e diretta da una burocrazia di tipo religioso. Si trattava, pe rò, di una servitù della gleba di un genere particolare, non tanto basata sullo sfruttamen to a scopo di lucro, quanto sulle necessità reali di un’agri coltura estensiva che dipende va in gran parte da vasti e complessi sistemi di irriga zione. Il passaggio dalla servitù della gleba degli Incas alla franca e orrenda schiavitù mi neraria imposta dagli spagno li, sembra dovuto alla forza. In realtà, è reso possibile dal senso sociale degli indi, che già a suo tempo aveva consen tito la trasformazione dell’economia comunitaria in econo mia statale. Intendiamoci: il senso sociale non è un difetto ma una qualità. Sempre, però, che non distrugga l’istinto in dividuale, come sembra esse re avvenuto nella civiltà in dia. La mancanza di indivi dualismo fa sì che la mita da servizio pubblico libero e spontaneo si trasformi con gli Incas e poi con gli spagnoli in corvée. Gli indi erano soprattutto e soltanto « sociali » ossia docili, sottomessi alle leggi, disciplinati e ligi. Gli Incas si sono serviti di questa socialità per avviare gli indi allo statalismo teocratico; gli spagnoli per farne degli schiavi. In un secolo la popo lazione india cade da dieci milioni ad un solo milione. La mita diventa una condanna a morte. Tanto è vero che quan do un indio veniva reclutato per la mita mineraria, i com pagni gli facevano i funerali in anticipo. Il mitayo era si nonimo di indio morto. All’atrofia del sentimento di individualità degli indi fa ri scontro l’ipertrofia dell’indivi dualismo degli spagnoli. I conquistadores sono avventu rieri intrepidi ma senza nep pure l’ombra di quel cristia nesimo di cui tuttavia alzano il vessillo. Spietati, fedifraghi, sanguinari, insaziabili, dicono di rappresentare la società spagnola; ma in realtà rappre sentano soltanto se stessi, an che perché la società spagnola, individualista e feudale, è sta ta lei a farli così come sono. Anche a giudicarli col metro morale molto particolare del Rinascimento, difficilmente possono essere giustificati e tanto meno assolti. Sterminano gli indi, si sterminano tra di loro; e questo pur sempre per motivi di potere e di bottino. È vero che la Corona di Spagna e la Chiesa cercano di proteggere le disgraziate popolazioni indigene; ma sono lontane mentre i feudatari sono presenti sul luogo. Il fallimento spagnolo è già in germe in questo individualismo efferato e imprevidente. Come, d’altra parte, il fallimento indio era già in germe nell’eccessivo senso comunitario, nella mancanza di spirito individuale degli indi.
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