LETTERATURA: I MAESTRI: Il Paradiso27 Febbraio 2018 di Alberto Moravia Prendo il tubetto del son nifero, lo vuoto per intero den tro il bicchiere d’acqua, sopra il comodino. Quante pasticche sono? Parecchie, più che suf ficienti per farmi fare tutto il lungo viaggio fino al Paradiso. Le guardo mentre si sciol gono, fanno un mucchietto bianco in fondo all’acqua e tante bollicine d’aria ne sal gono, scoppiettando, alla su perficie. Proprio in questo mo mento squilla il telefono. Ri conosco la voce di Magda, la mia cara amica grassona. Le dico subito: « Mi telefoni in tempo per dirmi addio ». « Perché? » « Perché stavo per uccider mi coi barbiturici ». Magda è una che non si me raviglia mai di nulla. Forse è per questo che siamo ami che. lo mi meraviglio invece sempre di tutto; più che le cose, mi meraviglia il fatto che le cose esistano. Di fronte, po niamo, ad una pietra, mi fer mo, sono bloccata: com’è pos sibile che esista una cosa chia mata una pietra? Per Magda invece una pietra è una pietra e basta. Così adesso, il mio suicidio, per lei, è un suicidio e basta. Infatti prosegue, in flessibile, come se non avessi parlato: « Ti telefonavo per dirti che sono tutti qui, in casa mia e ti aspettano ». « Chi c’è? » « Giulio Cesare, Leonardo da Vinci, Dante Alighieri, Giu seppe Garibaldi, Napoleone… ». Fingo di non rilevare lo scherzo e rispondo: « D’accor do, mi preparo e vengo ». * Mi estraggo a fatica dal vi luppo di lenzuola nel quale sto avvolta da due giorni. Il mio bassotto Zen, appena met to i piedi in terra, prende su bito a saltarmi intorno: spera che lo porti a spasso, povera bestia, dopo quarantotto ore di buio e di immobilità. Gli dico: « No, Zen, no, a cuccia, buono », e per farlo star tran quillo gli do l’ultimo biscotto che è rimasto sul vassoio. So no due giorni che mi nutro di tè e biscotti; il bassotto, quasi quasi, ha mangiato più di me; ma non mi sento affatto male, al contrario. Vado nel bagno apro la doccia e sto con gli occhi chiusi sotto il getto del l’acqua. Allora, mentre l’acqua mi scroscia addosso, vedo, co me in un lampo, il disegno psichedelico che mi disegnerò sulla pancia. E’ un’illumina zione: vedo il disegno in tutti i particolari, come se l’avessi già dipinto. Chiudo la doccia, mi asciugo e, tutta nuda, vado a se dermi sul letto. Prendo la sca tola delle matite e comincio a fare il disegno partendo dal l’ombelico e poi allargandomi sempre più tutt’intorno. Dipin go l’ombelico come un occhio dalla pupilla blu e dal soprac ciglio nero; quindi lo circondo gradualmente di arabeschi on deggianti e arricciati, rossi, blu e verdi. Quando ho finito di dipingermi il ventre, passo al torace. Mi faccio con la matita nera tante righe alle costole, simili a quelle che ha la figura della morte nelle dan ze macabre medievali. Adesso il petto. Benché flessuosa e snella come un serpente, ho purtroppo, un pettone da ba lia. Dopo riflessione, decido che non ho tempo, come vor rei, di dipingere un volto su ciascun seno; mi limito dun que a dipingere un seno di verde e l’altro di viola. Sulle braccia vado alla svelta: ci faccio tanti alamari blu e ros si. Poi dipingo un punto escla mativo sulla mano destra e un punto interrogativo sulla sini stra. Passo al viso. Cipria li vida, rossetto cupo, mascara nero torno torno gli occhi. I capelli, per fortuna, li porto lunghi e lisci: basta una ripas sata o due della spazzola. Infilo pantaloni scampana tissimi, di velluto amaranto, con la cintola molto bassa, di modo che si veda la pancia col suo disegno. Ci passo una cintura di cuoio nero con gran de fibbia d’argento. Poi indosso una camicetta trasparente, nera, ricamata di grandi stelle doro e l’annodo sotto il seno il quale, esuberante, esplode con buon effetto, metà verde e metà viola. Passo al collo cinque collane, di scarso va lore materiale ma di grande si gnificato psichico e filosofico. Vengono da un paesotto sotto l’Himalaya, me ne avevano detto il nome ma l’ho dimenticato. Infilo gli anelli, uno per dito compreso il pollice, tra i quali la mia famosa pietra ro sa cangiante, grossa come un uovo di quaglia. Infine, sopra la camicetta, metto una casac ca di velluto verde malva. Eccomi pronta. * Ma c’è il problema del ca ne. Non voglio portarlo con me; non si sa mai come può finire una serata, potrei anche perderlo. Così gli dico severa mente « Zen, buono, resta qui e soprattutto non abbaiare ». Ho fatto chiamare un taxi, salgo e dico, sfinita: « Mi por ti da Magda ». Il tassinaro domanda: « Chi è Magda? » Gli rispondo con impazienza: « E’ la mia migliore amica ». Lui ribatte: « Ma dove sta? » Gli dico, esasperata, facendo un gesto con la mano: « Vada avanti, sempre avanti, alla fi ne incontrerà Magda ». Il fat to è che ho dimenticato l’indirizzo di Magda e, se una cosa è dimenticata, come si fa a ricordarla? Il tassinaro, un gio vanotto bruno niente male, si volta, mi guarda perplesso poi, come invaso dallo zelo, accen de in fretta il motore, ingrana. Si parte. Mentre il taxi corre, cerco di ricordarmi le ragioni per cui poco fa volevo uccidermi. Non vengo a capo di niente: la ra gione principale sembra essere che tre giorni fa ho detto a Magda che mi volevo ucci dere. Ma le ragioni, per modo di dire, di questa ragione prin cipale, le ho proprio dimenti cate. Dovevano, però, essere del genere filosofico; oggi si vive e, dunque, anche si muo re in base a motivi filosofici. Non importa. Andrò da Mag da, ballerò, poniamo, fino alle cinque del mattino; poi rien trerò alla pensione, prenderò i barbiturici e, per mezzogiorno, sarò bell’e morta. Il taxi si ferma con uno scossone, mi riscuoto, vedo che siamo in campagna: oscurità, alberi, siepi, un viottolo che serpeggia bianco nel raggio dei fanali. Il tassinaro scende, apre lo sportello, si siede ac canto a me e poi mi si getta addosso con l’evidente inten zione di violentarmi. Chi lo avrebbe detto, un bel ragazzo che aveva l’aria così bene edu cata. Naturalmente, lo respin go, lotto, alla fine riesco a dargli una ginocchiata in pet to che lo manda a sbattere contro il fondo del taxi. Poi gli parlo con calma. Gli dico che, se vuole, una volta da Magda, potrà salire su con me e ballare e bere e stare con noi. Più tardi, Cecilia che, es sendo priva di domicilio, è sempre disponibile, potrebbe accompagnarlo, purché lui le offra da dormire. Se non sarà Cecilia, sarà un’altra. Mi guar da, a queste parole, proprio brutto, come un toro che stia per avventarsi. Quindi si av venta. Mi acchiappa per i ca pelli, mi scaraventa fuori del taxi, sale al volante, parte a gran velocità. * Mi rialzo e, contusa, impol verata, zoppicante, percorro tutto il viottolo fino all’auto strada. Seggo su una staccio nata e decido di calmarmi identificandomi, attraverso la contemplazione, con un ogget to qualsiasi. Lì, sul ciglio del fossato c’è un fiore assai co mune, una specie di marghe rita gialla, sulla quale piove la luce di un fanale. La fisso e m’incanto, concentrandomi su di essa in modo che il mon do intero mi diventi estraneo. A tutta prima il fiore « resi ste ». Meschinamente, afferma la propria personalità, cioè il colore dei suoi petali, la for ma delle sue foglie, la lun ghezza delle sue radici, come caratteri inalienabili che im pedirebbero l’identificazione. Poi, pian piano, il fiore « cede ». Lentamente, io di vento il fiore e il fiore diventa me. Tanto profonda è l’identi ficazione, così totale, che qua si non mi accorgo dei nume rosi automobilisti che si fer mano e mi fanno le solite im becilli proposte: « Allora, an diamo? », « Quanto vuoi? », « Quant’è la tariffa? » e altre simili. E’ giorno fatto, il sole è ormai alto nel cielo. Tutto ad un tratto, decido di interrom pere l’identificazione. Mi « ri tiro » dal fiore; e il fiore si « ritira » da me. D’improvviso, ci separiamo: io non sono più che una donna vestita in un certo modo, coi capelli pen zolanti, seduta su una staccio nata; il fiore non è più che un fiore sul bordo del fossato. Mi alzo a fatica, mi sento tutta bastonata e anchilosata, levo un braccio a fare il gesto del l’autostop. Subito si ferma una automobile e allora, con me raviglia, scopro che al volante c’è una donna che rassomiglia a Magda. Grassa, la faccia se molata, un porro sulla narice. Forse è Magda davvero, ma come mai? Dibatto questo pro blema per tutto il tragitto. La donna guida in silenzio; ma quando mi chiede il mio indirizzo, me lo chiede con la voce di Magda, una voce di bambina saggia e un poco pe tulante. Arriviamo alla pen sione. Scendo e le dico, tanto per vedere che cosa succede, « Ciao Magda ». Non mi ri sponde, riparte. Entro, prendo la mia chiave, mi chiudo nell’ascensore che comincia a sa lire. Eccomi nel lungo corridoio oscuro e maleodorante del ter zo piano. Apro la porta della mia stanza e la prima cosa che vedo è il bassotto disteso su un fianco, in terra, immo bile, con gli occhi chiusi, ac canto al piattino vuoto. Penso che dorma ancora, mi getto sul letto, mi avvolgo nelle co perte così come sono, calzata e vestita, e subito mi addor mento. Faccio un sogno stra no: sono in quel viottolo di stanotte, tengo al guinzaglio il bassotto e cammino in dire zione del sole che sta sor gendo. Il sole sorge del tutto, il cielo si riempie di luce. Il bassotto mi dice: « Slegami, lasciami libero; è venuto il momento di separarci; debbo andare in Paradiso ». Allora mi abbasso, stacco il guinza glio e immediatamente, come un lampo, il bassotto fugge via, scompare. Sono sola e scoppio in pianto. Piangendo amaramente, mi sveglio. Guardo al bassotto, è sempre lì, disteso e immobile, accanto al piattino, con gli occhi chiusi. Ma noto che ha le labbra leggermente sollevate e che si vedono i denti. Mi alzo e per prima cosa mi chino a toccargli il naso. E’ fresco, buon segno. Ma gli faccio una carezza e mi accorgo che il corpo è più freddo del naso. Capisco allora che il bassotto è morto; ma non so piangere: ho già pianto in sogno. In questo stesso momento qualcuno bussa alla porta e una voce terribile grida: « Telegramma! ».
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