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LETTERATURA: I MAESTRI: Le cerimonie sadiche della critica

28 Febbraio 2012

di Alfredo Giuliani
[da “Quindici”, numero 1, giugno 1967]

Roland Barthes, « Critique et vérité »,
Editions du Seuil, 1966, pp. 80, NF. 70.

Giorgio Manganelli, « La letteratura come menzogna »,
Feltrinelli, 1967, pp. 180, lire 1.300.

L’idea del linguaggio letterario come mera ­viglioso e pericoloso animatore di labirinti, nei quali si avvera « l’assenza » dello scrit ­tore, e la poesia è sempre più sostituita dalla nostalgia dei suoi procedimenti, e ogni luci ­dità aspira dissimulatamente alla magia, è questa femminilità della « scrittura » che in ­triga e seduce i Nuovi Critici francesi. Anche quando la critica letteraria non sta al centro dei loro interessi, com’è il caso del filosofo Foucault, l’esperienza della letteratura linguag ­gio « vano e fondamentale » finisce con l’in ­fluire sul loro metodo, sicché il fascino del simbolismo, del discorso « non discorsivo », della vertigine mallarmeana suscita un cerchio magico in cui i generi s’annullano e solo cam ­peggia « la scrittura ». Perseguire, esplorare la « intransitività radicale » della letteratura â— concezione che per parte nostra ricondur ­remmo a una poetica dei segni ormai inevita ­bile, anche se quasi tutta ancora da scrive ­re â— significa per i Nuovi Critici fondere inestricabilmente la funzione poetica e la funzione critica del linguaggio.

Sulle orme del prestigioso Blanchot, una schiera di anime sensitive non prive di pun ­giglioni si aggira nello Spazio Letterario e turbina in modi talvolta così incantevoli che a non ammirarli si rischia di passare per bruti, inintelligenti, accademici e provinciali. Sono, dopotutto, anime molto passionali, e perciò le rispettiamo; lo Spazio Letterario è scomodo, e noi non siamo meno appassionati. Ma rilut ­tiamo a credere che l’unificazione dello spazio annulli il problema delle funzioni. E teniamo in sospetto Roland Barthes quando in Critique et vérité affida al critico il compito di « rad ­doppiare » l’opera mediante « un’altra pa ­rola ».

L’atteggiamento tipico dello scrittore, fin ­ché si sceglie o viene scelto tale, è una specie di inconsapevolezza attiva nei confronti del linguaggio che si fa strada attraverso di lui. L’atteggiamento del critico, o si dica pure la sua « intenzionalità », è, al contrario, una spe ­cie di consapevolezza passiva del linguaggio che è passato attraverso l’altro. E l’altro non è soltanto lo scrittore. Quest’ultimo non sa bene che cosa fa, e il suo scopo è di fare o d: lasciare che l’opera si faccia; egli ha sol ­tanto un deciso e provvisorio senso d’orientamento. Il critico deve lasciarsi « fare » dal ­l’opera vigilando l’insorgenza di qualsivoglia epifania egli sia in grado di connettere al testo. U critico ha anche il diritto di rifiutare odi  abbozzare il fantasma di un libro che non ha mai letto: ma qui le sue ragioni devono possedere una chiarezza che lo scrittore, per sue ragioni operative e opposte, può deliberatamente schivare. Il critico deve capire, questa è |’ironia, giacché per capire dovrà in qualche modo mimare l’atteggiamento lingui ­stico dell’altro, dovrà distinguere le funzioni praticandole ambedue. Ma sostenere che lo scrittore e il critico non esistono perché esiste una sola intenzione d’essere â— la « scrittu ­ra » â— significa saltare sulle spalle del pro ­blema. Barthes fa diventare « l’opera » una materia prima per le trasformazioni simboli ­che del critico; ingenua metafora è il credere che l’opera sia un « linguaggio primo » sopra il quale il critico farebbe fluttuare un « lin ­guaggio secondo ». Un linguaggio primo: que ­sto sì, davvero, non esiste, e tanto meno in letteratura. Il cerchio, poi, presto si chiude quando Barthes, per coerenza, è costretto a dire che il critico non affronta in realtà l’opera altrui ma il proprio linguaggio. Per Barthes il critico è un lettore spurio: mentre il sem ­plice lettore ama l’opera, la desidera così com’è e non vuole giustapporle parole altre, il critico desidera il linguaggio dell’opera, ne agogna la « scrittura ». Le distinzioni anne ­gano nell’implicazione erotica â— « scrivere è un modo dell’Eros » [cfr. l’introduzione ai Saggi critici di Barthes, Einaudi, 1966] â— che resta la sola suprema Finzione Retorica. A questo punto uno scrittore erotico potrebbe avanzare l’ipotesi di Thanatos contro i pia ­ceri linguisticamente sadomasochisti del Mesco ­liamo Tutte le Cose.

C’è di più, che i simboli vanno trattati con diffidenza, o meglio, maltrattati quando ne capiti l’occasione. Del resto Blanchot, in un saggio raccolto in Le livre à venir aveva mes ­so in guardia contro la lettura simbolica del ­l’opera letteraria: quella che al lettore pare una maniera simbolica di dire, per lo scrit ­tore è soltanto la maniera reale. Non esistono simboli perché tutto, assolutamente tutto può essere simbolico; oppure il simbolo, come dice Blanchot, non significa niente perché è una realtà, noi diremmo un segno; e se c’è una distanza dell’opera da sé medesima, quella è precisamente la zona che l’autore ha cer ­cato di mantenere reale: è la zona della necessaria ambiguità, della dissimulazione, del ­la disponibilità autosufficiente.

C’è modo e modo di desiderare la scrittura altrui; Giorgio Manganelli â— a cui piace ­rebbe tra i suoi dati segnaletici di venir qua ­lificato non già « scrittore » o « professore » o « critico », ma « Adultero » â— la desidera anzitutto perché desiderarla è illecito (infatti la letteratura è una creatura infetta e asocia ­le) e poi per ucciderla e quindi piamente venerarla se quella, resistendo alla profana ­zione omicida, ghigna in faccia al critico la sua mostruosa resurrezione. Le ghiotte letture di Manganelli sono omicidi rituali compiuti con l’iracondia gioiosa di chi si compiace di trascinare la verità per i capelli « in una re ­gione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso », e di contemplare con « perversa umiltà » i meccanismi orrendamente indiffe ­renti, esatti, sadicamente inutili della scrit ­tura. La letteratura come menzogna è un libro altamente provocatorio e corroborante per la sua arguta omissione di soccorso al Povero Umanesimo Dissacrato, per l’insolente mode ­stia con cui rifiuta obbedienza alle mitologie Esortatrici e Repressive.

A Manganelli si potrebbe applicare con facilità la formula nicciana « reazione come progresso » e su di lui, così patito di portare all’estremo le conseguenze di poche idee ­guida, si potrebbe verificare la liquidazione della falsa idea dell’impegno (che continua a circolare travestita) nei termini espressi da Barthes: « Nessuno può scrivere senza pren ­dere appassionatamente partito (anche se c’è un apparente distacco nel suo messaggio) su tutto quanto nel mondo va o non va »; perché, di fatto, la discesa di Manganelli nella « rive ­lazione mistificatrice » della letteratura, il suo immoralismo impietoso, la sua diserzione anar ­chica dai tranelli della onestà e della buona coscienza gettano sul lettore le ombre bef ­farde dell’irrisione contro ciò che è costi ­tuito (opposizione compresa) e lo riducono su un lembo precipitoso, felicemente aperto sul nulla. Di qui il lettore potrà, se vuole, indi ­gnarsi e prendere le sue decisioni.

Sebbene col passare degli anni l’abbia com ­pletamente assorbito in cellule e virus clan ­destinamente allogati nelle proprie « entra ­gne », direi che l’insegnamento di Edmund Wilson non cessi di agire nel gran corpo « furorale » di Manganelli. Non è senza signi ­ficato che proprio parlando di Wilson, egli ci dia, com’è naturale, un modello di autori- tratto: « Dubito che compito del critico sia di essere generoso, onnicomprensivo, e vaga ­mente neoclassico: e, comunque, Wilson non fu alcuna di codeste cose. Resterà come uno dei massimi critici americani perché non fu né universale né sincretista; ma fazioso, orgo ­glioso, e sommamente capace di ira intellectualis. Wilson ha assolto puntualmente al su ­premo compito del vero critico, che è quello di non capire alcune cose, di essere total ­mente impervio a taluni valori, perché altri gli si svelino con incontestabile chiarezza ».

Si potrebbe fare un breve elenco delle chiarezze incontestabili che si rivelano alla violenta unilateralità di Manganelli (e riassu ­mibili nella « coerenza inverificabile » del ­l’opera riuscita), ma estratte dal contesto non parrebbero originali; il loro valore sta nel potere operativo che esercitano sulla straor ­dinaria fantasia del critico concentrando il fuoco del suo linguaggio su scorci essenziali e taglienti. L’originalità di fondo è nella sua concezione della letteratura come cerimoniale blasfemo: la letteratura è quell’impossibile che trasforma la morte in figura retorica e che usa gli orrori del mondo come gradus ad Parnassum. Il linguaggio è un mostro ge ­nerativo e indifferente all’illuminismo uma ­nistico degli intellettuali; e lo scrittore non è che l’organo genitale del mostro. Ma di qui cominciano le avventure della lettura. Arri ­vato per proprio conto a condividere alcuni punti di vista dei Nuovi Critici, Manganelli, che non è per fortuna un teorico ma piut ­tosto un teologo della letteratura, tiene assai chiaramente distinte le due funzioni, poetica e critica, della scrittura. Può parere eccen ­trico e asciuttamente barocco, e lo è: del barocco ha non la ridondanza, ma la pre ­cisione un po’ demenziale ed esattissima nel dare autorità all’arbitrio. Eccentrico, eppure mai periferico, restituisce alla lettura il posto che le compete: la contemplazione dello « stemma » indecifrabile e inquietante della poesia, la liberazione dell’iperbole grottesca dalle convenzioni della favola. E tante belle percezioni dei sadismi della sintassi, dell’illu ­sionismo delle strutture, delle grazie tenebrose che emanano dai congegni impuri delle parole. Anche per Manganelli non ci sono simboli, sistemi di simboli da trarre dalle opere, e il critico non dispone di metalinguaggi perché tutta la letteratura è una grande metafora, un luogo fittizio dove tutti i linguaggi coe ­sistono, una situazione di sfida permanente, un errore imperdonabile.


Letto 2017 volte.


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Bart