LETTERATURA: I MAESTRI: Le cerimonie sadiche della critica28 Febbraio 2012 di Alfredo Giuliani Roland Barthes, « Critique et vérité », Giorgio Manganelli, « La letteratura come menzogna », L’idea del linguaggio letterario come mera viglioso e pericoloso animatore di labirinti, nei quali si avvera « l’assenza » dello scrit tore, e la poesia è sempre più sostituita dalla nostalgia dei suoi procedimenti, e ogni luci dità aspira dissimulatamente alla magia, è questa femminilità della « scrittura » che in triga e seduce i Nuovi Critici francesi. Anche quando la critica letteraria non sta al centro dei loro interessi, com’è il caso del filosofo Foucault, l’esperienza della letteratura linguag gio « vano e fondamentale » finisce con l’in fluire sul loro metodo, sicché il fascino del simbolismo, del discorso « non discorsivo », della vertigine mallarmeana suscita un cerchio magico in cui i generi s’annullano e solo cam peggia « la scrittura ». Perseguire, esplorare la « intransitività radicale » della letteratura â— concezione che per parte nostra ricondur remmo a una poetica dei segni ormai inevita bile, anche se quasi tutta ancora da scrive re â— significa per i Nuovi Critici fondere inestricabilmente la funzione poetica e la funzione critica del linguaggio. Sulle orme del prestigioso Blanchot, una schiera di anime sensitive non prive di pun giglioni si aggira nello Spazio Letterario e turbina in modi talvolta così incantevoli che a non ammirarli si rischia di passare per bruti, inintelligenti, accademici e provinciali. Sono, dopotutto, anime molto passionali, e perciò le rispettiamo; lo Spazio Letterario è scomodo, e noi non siamo meno appassionati. Ma rilut tiamo a credere che l’unificazione dello spazio annulli il problema delle funzioni. E teniamo in sospetto Roland Barthes quando in Critique et vérité affida al critico il compito di « rad doppiare » l’opera mediante « un’altra pa rola ». L’atteggiamento tipico dello scrittore, fin ché si sceglie o viene scelto tale, è una specie di inconsapevolezza attiva nei confronti del linguaggio che si fa strada attraverso di lui. L’atteggiamento del critico, o si dica pure la sua « intenzionalità », è, al contrario, una spe cie di consapevolezza passiva del linguaggio che è passato attraverso l’altro. E l’altro non è soltanto lo scrittore. Quest’ultimo non sa bene che cosa fa, e il suo scopo è di fare o d: lasciare che l’opera si faccia; egli ha sol tanto un deciso e provvisorio senso d’orientamento. Il critico deve lasciarsi « fare » dal l’opera vigilando l’insorgenza di qualsivoglia epifania egli sia in grado di connettere al testo. U critico ha anche il diritto di rifiutare odi abbozzare il fantasma di un libro che non ha mai letto: ma qui le sue ragioni devono possedere una chiarezza che lo scrittore, per sue ragioni operative e opposte, può deliberatamente schivare. Il critico deve capire, questa è |’ironia, giacché per capire dovrà in qualche modo mimare l’atteggiamento lingui stico dell’altro, dovrà distinguere le funzioni praticandole ambedue. Ma sostenere che lo scrittore e il critico non esistono perché esiste una sola intenzione d’essere â— la « scrittu ra » â— significa saltare sulle spalle del pro blema. Barthes fa diventare « l’opera » una materia prima per le trasformazioni simboli che del critico; ingenua metafora è il credere che l’opera sia un « linguaggio primo » sopra il quale il critico farebbe fluttuare un « lin guaggio secondo ». Un linguaggio primo: que sto sì, davvero, non esiste, e tanto meno in letteratura. Il cerchio, poi, presto si chiude quando Barthes, per coerenza, è costretto a dire che il critico non affronta in realtà l’opera altrui ma il proprio linguaggio. Per Barthes il critico è un lettore spurio: mentre il sem plice lettore ama l’opera, la desidera così com’è e non vuole giustapporle parole altre, il critico desidera il linguaggio dell’opera, ne agogna la « scrittura ». Le distinzioni anne gano nell’implicazione erotica â— « scrivere è un modo dell’Eros » [cfr. l’introduzione ai Saggi critici di Barthes, Einaudi, 1966] â— che resta la sola suprema Finzione Retorica. A questo punto uno scrittore erotico potrebbe avanzare l’ipotesi di Thanatos contro i pia ceri linguisticamente sadomasochisti del Mesco liamo Tutte le Cose. C’è di più, che i simboli vanno trattati con diffidenza, o meglio, maltrattati quando ne capiti l’occasione. Del resto Blanchot, in un saggio raccolto in Le livre à venir aveva mes so in guardia contro la lettura simbolica del l’opera letteraria: quella che al lettore pare una maniera simbolica di dire, per lo scrit tore è soltanto la maniera reale. Non esistono simboli perché tutto, assolutamente tutto può essere simbolico; oppure il simbolo, come dice Blanchot, non significa niente perché è una realtà, noi diremmo un segno; e se c’è una distanza dell’opera da sé medesima, quella è precisamente la zona che l’autore ha cer cato di mantenere reale: è la zona della necessaria ambiguità, della dissimulazione, del la disponibilità autosufficiente. C’è modo e modo di desiderare la scrittura altrui; Giorgio Manganelli â— a cui piace rebbe tra i suoi dati segnaletici di venir qua lificato non già « scrittore » o « professore » o « critico », ma « Adultero » â— la desidera anzitutto perché desiderarla è illecito (infatti la letteratura è una creatura infetta e asocia le) e poi per ucciderla e quindi piamente venerarla se quella, resistendo alla profana zione omicida, ghigna in faccia al critico la sua mostruosa resurrezione. Le ghiotte letture di Manganelli sono omicidi rituali compiuti con l’iracondia gioiosa di chi si compiace di trascinare la verità per i capelli « in una re gione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso », e di contemplare con « perversa umiltà » i meccanismi orrendamente indiffe renti, esatti, sadicamente inutili della scrit tura. La letteratura come menzogna è un libro altamente provocatorio e corroborante per la sua arguta omissione di soccorso al Povero Umanesimo Dissacrato, per l’insolente mode stia con cui rifiuta obbedienza alle mitologie Esortatrici e Repressive. A Manganelli si potrebbe applicare con facilità la formula nicciana « reazione come progresso » e su di lui, così patito di portare all’estremo le conseguenze di poche idee guida, si potrebbe verificare la liquidazione della falsa idea dell’impegno (che continua a circolare travestita) nei termini espressi da Barthes: « Nessuno può scrivere senza pren dere appassionatamente partito (anche se c’è un apparente distacco nel suo messaggio) su tutto quanto nel mondo va o non va »; perché, di fatto, la discesa di Manganelli nella « rive lazione mistificatrice » della letteratura, il suo immoralismo impietoso, la sua diserzione anar chica dai tranelli della onestà e della buona coscienza gettano sul lettore le ombre bef farde dell’irrisione contro ciò che è costi tuito (opposizione compresa) e lo riducono su un lembo precipitoso, felicemente aperto sul nulla. Di qui il lettore potrà, se vuole, indi gnarsi e prendere le sue decisioni. Sebbene col passare degli anni l’abbia com pletamente assorbito in cellule e virus clan destinamente allogati nelle proprie « entra gne », direi che l’insegnamento di Edmund Wilson non cessi di agire nel gran corpo « furorale » di Manganelli. Non è senza signi ficato che proprio parlando di Wilson, egli ci dia, com’è naturale, un modello di autori- tratto: « Dubito che compito del critico sia di essere generoso, onnicomprensivo, e vaga mente neoclassico: e, comunque, Wilson non fu alcuna di codeste cose. Resterà come uno dei massimi critici americani perché non fu né universale né sincretista; ma fazioso, orgo glioso, e sommamente capace di ira intellectualis. Wilson ha assolto puntualmente al su premo compito del vero critico, che è quello di non capire alcune cose, di essere total mente impervio a taluni valori, perché altri gli si svelino con incontestabile chiarezza ». Si potrebbe fare un breve elenco delle chiarezze incontestabili che si rivelano alla violenta unilateralità di Manganelli (e riassu mibili nella « coerenza inverificabile » del l’opera riuscita), ma estratte dal contesto non parrebbero originali; il loro valore sta nel potere operativo che esercitano sulla straor dinaria fantasia del critico concentrando il fuoco del suo linguaggio su scorci essenziali e taglienti. L’originalità di fondo è nella sua concezione della letteratura come cerimoniale blasfemo: la letteratura è quell’impossibile che trasforma la morte in figura retorica e che usa gli orrori del mondo come gradus ad Parnassum. Il linguaggio è un mostro ge nerativo e indifferente all’illuminismo uma nistico degli intellettuali; e lo scrittore non è che l’organo genitale del mostro. Ma di qui cominciano le avventure della lettura. Arri vato per proprio conto a condividere alcuni punti di vista dei Nuovi Critici, Manganelli, che non è per fortuna un teorico ma piut tosto un teologo della letteratura, tiene assai chiaramente distinte le due funzioni, poetica e critica, della scrittura. Può parere eccen trico e asciuttamente barocco, e lo è: del barocco ha non la ridondanza, ma la pre cisione un po’ demenziale ed esattissima nel dare autorità all’arbitrio. Eccentrico, eppure mai periferico, restituisce alla lettura il posto che le compete: la contemplazione dello « stemma » indecifrabile e inquietante della poesia, la liberazione dell’iperbole grottesca dalle convenzioni della favola. E tante belle percezioni dei sadismi della sintassi, dell’illu sionismo delle strutture, delle grazie tenebrose che emanano dai congegni impuri delle parole. Anche per Manganelli non ci sono simboli, sistemi di simboli da trarre dalle opere, e il critico non dispone di metalinguaggi perché tutta la letteratura è una grande metafora, un luogo fittizio dove tutti i linguaggi coe sistono, una situazione di sfida permanente, un errore imperdonabile. Letto 2017 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||