LETTERATURA: I MAESTRI: “Le città del mondo” di Vittorini30 Giugno 2018 di Geno Pampaloni Posso sbagliare, ma le prime cento pagine del libro la sciato inedito da Elio Vitto rini (Le città del mondo, ed. Einaudi, pp. 374, L. 3000) sono davvero molto belle, fra le più belle che lo scrittore ci abbia lasciato, fra le più belle, quindi, della letteratu ra del dopoguerra. A questo libro, che talvolta l’autore indicava anche con altro titolo: I diritti dell’uo mo, il Vittorini lavorò in va ri periodi dal 1952 in poi; si no al ’59 continuò a pubbli carne qua e là capitoli e bra ni; poi lo abbandonò, come abbandonò ogni altro pro getto di letteratura di « espressione », e il suo rifiuto ideologico della narrativa ar rivò a coinvolgere il suo stes so lavoro. Al compito di scrit tore di fantasia preferì quel lo di intellettuale moderno. Le città del mondo gode quindi, o soffre, di questa condizione eccezionale; fa parte, al tempo stesso, del l’opera dello scrittore e del suo silenzio; può essere letto in positivo e in negativo. Il lettore, e soprattutto il let tore che faccia credito al Vittorini di un autentico do no e di un più autentico dramma, mentre s’incanta a ricevere il vasto murmure e brusio di poesia che sale da queste pagine, ha insieme la sensazione di violare un’inti mità, di rompere un segreto. Sarà dunque bene riprende re in mano, a commento, quello che resta uno dei te sti più alti della sua confes sione di scrittore, la prefa zione (1947) alla seconda edi zione del Garofano rosso, là dove egli addebita (o accre dita?) al Lawrence di essere un caso illustre di « impoten za procurata », « la tragedia di uno che non arriva a far funzionare nel romanzo ‘qua le si pensa che deve essere’ i propri mezzi da romanzo ‘quale potrebbe essere’ ». Ri cordare che: « Io non ho mai aspirato ‘ai libri; aspiro ‘al’ libro ». E ricordarlo so prattutto là dove dice (nes suno dopo di lui ha saputo dirlo con tanta forza); « C’è una questione di vita o di morte nel giro del nostro me stiere. Si tratta di non la sciare che la verità appaia morta ». * Perché sono portato a di stinguere tanto nettamente fra le prime cento pagine del libro e le successive, sia quelle che fanno corpo con l’inizio, sia i vari frammenti che ancora dovevano essere sistemati nella struttura del romanzo? Per una ragione molto semplice: che in esse il Vittorini mi sembra rea lizzare il suo ideale di scrit tore, ed è sostenuto da una fantasia fresca e potente, si muove in un mondo di im magini congenialmente feli ci, la sua « maniera » tende a coincidere con la sua poe sia. Mentre dopo, quando il libro da poematico si fa, in qualche misura, romanzesco, quel mirabile flusso si rom pe, e la « maniera » mostra con una sorta di ritmo mec canico la sua agra intenzio nalità. Lo stesso tessuto lin guistico, in un primo tempo nuovo e fremente di immagi ni balenanti, cerca in segui to la sua espressività musica le non più in una limpida ac censione lirica, ma nella du rezza spigolosa dell’iterazio ne; e lo scrittore si rifugia nel suo allegretto espressio nistico impoverito di ten sione. Nelle prime cento pagine non succede nulla o quasi nulla: ma nello scenario di una Sicilia immensa e gran diosa, i cui confini occupano l’intero spazio dell’universo e del tempo, quasi in un ar cano riverbero biblico, pas sano trasmigrando o fuggen do personaggi vividi e miste riosi come annunci; e quel nulla diviene un popoloso stormire di vita. Ecco come il Calvino sintetizza le figu razioni tematiche (non si po trebbe fare meglio): « Un padre e un figlio percorrono a piedi la Sicilia. Sono pa stori di pecore. Camminando per i valloni, s’apre ogni tanto ai loro occhi la vista d’una città, che appare a un tratto ai loro piedi oltre un orlo di roccia, o alta sopra di loro come un’acropoli. Nel le città che intravvede il ra gazzo sogna la città perfetta ed è impaziente d’entrarvi; ma il padre segue un itine rario dominato da misterio se paure. Nello stesso tempo un altro padre e un altro fi glio camminano contemplan do le città da lontano: qui è il padre, poeta di villaggio, che a ogni città si sente in vestito dalla luce del mito. Sta vagando per la Sicilia anche una ragazza che fug ge dal chiuso destino del vil laggio, e un’anziana trionfa le meretrice ambulante l’ac coglie sul suo carro. La stes sa intricata carta geografica contiene tutti i tempi e le storie; per le strade corrono auto guidate da ragazze fol li, motociclette della polizia, autocisterne nel loro periplo dei distributori di benzina. Al di là della rete degli iti nerari che s’incrociano, una inquietudine percorre l’isola: in ogni paese i contadini so no usciti all’alba, si sono al lontanati a cavallo in lunghe colonne, e non si sono pre sentati sui campi. I padroni e i campieri s’interrogano pie ni d’incertezza e timore. Si parla di località deserte dove gli uomini si radunano, con gli stendardi e le trombe: è un antico parlamento di tut ti i contadini che torna a riu nirsi, a distanza di anni in date inaspettate, circondato di silenzio ». Il timbro della narrazione, che brucia, sublima i suoi contenuti naturalistici, è al tempo stesso corale e lirico. La sua bellezza specifica con siste appunto nell’armoniosa alternanza del tono corale e del tono lirico, le cui « en trate » nella partitura sono ritmate da un’ispirazione si cura. In questo senso Le cit tà del mondo (parlo sempre della sua prima parte) pro segue direttamente Conver sazione in Sicilia e ne supera i risultati, così come ideolo gicamente riprende e invera il tentativo di romanzo d’uto pia fallito con Le donne di Messina, portandosi in una personalissima dimensione del mito ove la storia umana ri solve i suoi significati profon di, la sua cocciuta tensione libertaria senza (ed è forse l’unica volta in tutto Vittori ni dopo le prose di giovinez za), senza l’urgenza del tem po. La novità poetica di que sto Vittorini è che il mondo ora, per lui, non ha più bi sogno di essere « nuovo », « vergine », « come un’infan zia » per essere vero. L’infan zia è stata sostituita dall’uto pia, che non è più come ai tempi dell’ermetismo, rifiuto della storia, ma speranza e memoria di un’« altra » sto ria. L’emisfero ermetico in cui si colloca l’opera dello scrittore qui sensibilmente si incrina. I momenti lirici del racconto trovano il loro acme nella oltranza sentimentale con cui i personaggi sono rappresentati nel profondo del loro dolore di vivere. I momenti corali esprimono il sentimento generale del li bro, che proietta Sicilia, po polo, vittime della storia e della società in un’immagine di utopia. I pastori, i conta dini, gli inquieti, i reietti che si muovono nell’immobile mi tologica Sicilia vittoriniana, sembra che misteriosamente traversino il tempo, dal pas sato al futuro, dalla leggenda alla storia, dalla condanna alla libertà. E’ come un len to ma inesorabile pellegrinag gio verso una riva sconosciu ta e felice. Quando il rac conto, verso il cap. XXII, si agglomera in « fatti », a poco a poco vi s’impiglia e, benché sia spesso sostenuto da una alta passione inventiva, fini sce con il perdervisi come un fiume che non trova la sua foce. In questo fallimento, il Vittorini paga sino in fondo (e non soltanto per coerenza con le sue professioni teori che antiletterarie) il debito della sua generazione desti nata dall’educazione lettera ria e morale del tempo gio vanile a sentire come una condanna « la separazione tra prosa e poesia » e perciò ini bita di fronte al romanzo. Ma, a grande compenso, egli ha trovato nell’utopia (le «città del mondo » convergo no verso una nuova Gerusa lemme) un tema poetico che fa salva la sua passione ideo logica. Negli anni in cui cominciò a lavorare a questo romanzo, il Vittorini (ormai assorbita la scomunica togliattiana) frequentava architetti e urba nisti, anarchici e riformato ri: si presentò persino alle ele zioni. Nelle « cento pagine », sotto l’infuriare irrequieto del la sua prosa fantastica, tra luce una squillante serenità. Pur nel sentimento grave del l’attesa di un mondo diverso, c’è qui il soffio di ottimismo con cui si aprirono gli anni Cinquanta. Fu il suo ultimo momento « umanistico », e con gratitudine (e nuovo rim pianto) ci accorgiamo che la poesia lo assisteva. In mezzo a tanti « raccon tatori » è con qualche commo zione che si riascolta la voce di uno scrittore le cui pagine vivono di un’ansia profetica. (« Si tratta di non lasciare che la verità appaia morta »).
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