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LETTERATURA: I MAESTRI: Per Silone

28 Giugno 2018

(in occasione dei settant’anni dello scrittore)
di Geno Pampaloni
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 29 aprile 1970]

Nel ’49, invitato da Adriano Olivetti, Ignazio Silone assisté a una riunione del Movimento Comunità. Rimase per tutto il tempo silenzioso e impenetra ­bile, senza raccogliere, neppure con un cenno del volto, le allusioni o le lusinghe di qual ­cuno di noi al suo passato e alla sua opera. Verso la fine si alzò a parlare, lentamente com’è suo costume, a voce bassa, con lunghi intervalli, appena scanditi dal sommesso scroscio della sua tosse; con quel timbro grave di confi ­denza che non avrebbe più cessato, nella sua prosa osti ­nata, di toccarci nel profondo. « Avevamo l’illusione, ci dis ­se, di poter rinnovare dal di dentro i partiti tradizionali, avevamo l’illusione di poter evitare nella politica italiana la spartizione in due campi: uno sotto la protezione russa ed un altro sotto quella americana. Avevamo l’illusione che in questo dopoguerra la Chiesa potesse essere risparmiata e occupare una posi ­zione diversa da quella tradi ­zionale. Queste nostre speran ­ze sono fallite. Nella nostra attuale posizione è implicita la confessione delle sconfitte politiche subite. Noi siamo certamente le persone che so ­no state più sconfitte ».

Fu un discorso breve, di un antitrionfalismo assoluto; vòl ­to a metterci in guardia, più che dal giovanile conformismo dei giudizi, dalla mistificazio ­ne dei nostri stessi ideali, ci insegnava a non cercare mai di scaricare sugli altri, e su quei tremendi « altri » che so ­no i fatti, le nostre proprie responsabilità. Ma, al di là di questa pur singolare le ­zione di sobrietà morale, la cosa che più colpiva era un’altra. Da quella pacata e inesorabile registrazione di « sconfitte » non derivava sconforto, o rancore o tanto meno decadentistico compia ­cimento; se ne traeva al con ­trario, misteriosamente, una liberatrice forza di fiducia.

Questo   rimane   un tratto fondamentale della sua per ­sonalità; e forse la sua più autentica radice poetica. Egli ama   affondare le lame del suo plumbeo sarcasmo nella figura umana sfigurata dalla menzogna e dalla retorica, ai confini di un pessimismo «ci ­nico »; ma ciò che se ne ricav ­a è un intatto impegno di vita, una speranza implacabile. I protagonisti dei suoi libri sono perseguitati, uomini in fuga, costretti e quasi snidati dal Potere a uscire dal ritmo     tranquillo, elementare e contadino, della loro vita di uomini semplici, per farsi testimoni e martiri della repressione che subiscono. Ma subito le parti si rovesciano, essi vincono nel momento stesso in cui sono violentati  e sconfitti, poiché è sempre la vittima che dà al suo op ­pressore l’immagine dell’uomo riposta nel fondo dell’anima di ambedue. Non si pensi dunque a un Silone poeta dei « vinti ». Tra Verga e lui è passato tor ­bido il fiume della Storia, gonfio di tirannidi. Il destino non è più natura o Dio, ma è fabbricato ogni giorno nelle centrali di propaganda, si annida nei ruoli delle burocrazie del potere, o impugna come un arcangelo apocrifo spade dell’ideologia e del progresso.

La tragedia contemporanea non chiede pietà ma milizia. La forza del Silone è quella di chi è riuscito a intuire sotto il travaglio minuto, quo ­tidiano, insistente, dell’illiber ­tà le linee universali di un dramma religiosamente umano. Il senso ultimo della sua opera, credo, va cercato nel conflitto senza fine tra Sto ­ria e Utopia, tra le Istituzioni che si arroccano su se stesse e la speranza che si rinnova senza limiti entro l’infinito che è l’uomo. Così, anche quando la più proterva storia trionfa, l’utopia la tallona, la smaschera, la insidia, non le dà pace, come un allarme pere ­nne, come un’ilare, libera voce imprevista; nello stesso modo, o presso a poco, in cui per un cristiano, la Re ­surrezione incombe sul tem ­po, minaccia e salvezza, rivo ­luzione permanente, « la scu ­re è posta alla radice del ­l’albero ».

*

In misura imparagonabile ad ogni altro nostro scrittore, l’esperienza politica è al cen ­tro dell’opera letteraria del Silone; ma per rendersene ragione sino in fondo, occorre dare al termine « esperienza politica » il significato più ampio, comprensivo di tutte le motivazioni che convergo ­no nelle scelte esistenziali che l’uomo è chiamato a compie ­re giorno per giorno di fronte alla realtà, alla storia, ai pro ­pri simili e alla propria co ­scienza. Per molti aspetti, il libro chiave è Uscita di sicu ­rezza, nelle cui pagine egli porta a chiarezza fantastica il suo sentimento della politica, intesa da lui non già come lotta per il potere, ma, per doloroso paradosso e quasi contrappasso, come lotta per lo spazio di libertà da strappare al Potere. Uno degli emblemi nei quali si potrebbe riassumere la sua opera è il conflitto eterno tra l’uomo libero (sia « cafone », intellet ­tuale, prete, organizzatore po ­litico o Celestino V) e l’uomo mascherato del potere (sia sbirro, fascista, Cesare, Pila ­to o papa).

E’ un conflitto che si ripete nella storia con monotona se ­quenza, e assume nel movi ­mento del tempo le forme di un rituale, insieme sacrificale, lustrale e di aspettazione: di qui il volgersi naturale dello scrittore al teatro, ove quel rito trova la sua compiuta figura di tragedia e liberazione collettiva. In realtà, se c’è uno scrittore che non ha fat ­to che riscrivere lo stesso li ­bro, questi è Ignazio Silone. Alla vigilia del suo settantesimo compleanno (nacque il 1 ° maggio del 1900), sarà fa ­cile concludere che, come Se ­condo Tranquilli adottò per lo scrittore il nome di Silone assunto nella lotta clande ­stina, così l’opera letteraria, che prende inizio esattamente quando ha termine la sua mi ­lizia di partito, ne eredita senza residui tutta la mora ­lità e la passione.

Egli aveva partecipato gio ­vanissimo ai moti socialisti, era stato costretto a un esilio che durerà vent’anni, e aveva avuto una parte di primo pia ­no nel partito comunista; un suo fratello più giovane, co ­munista anch’egli, era desti ­nato a morire nel penitenzia ­rio di Procida dopo crudeli torture. Nel ’29, rivelataglisi in tutta la sua ipocrisia e in ­famia la natura dello stali ­nismo e la viltà cui costringeva anche i migliori compa ­gni, abbandona l’attività di partito, da cui due anni dopo è espulso. Ma, nello stesso modo in cui non ha mai vo ­luto essere definito semplice ­mente dal suo antifascismo, l’uscita dal partito non ha mutato l’indirizzo e la natura delle sue convinzioni; e lo ha avvicinato, se mai, con più severa e amara consapevolez ­za alla solitudine in cui vive nel mondo la verità.

*

Tornato in Italia, scrittore ormai famoso nel mondo, non ebbe vita facile, cosa del re ­sto comprensibile per chi si definisce « socialista senza tessera e cristiano senza chie ­sa ». Sull’Unità una volta gli si rivolse l’invito a cambiare mestiere; ma poi l’articolista era preso da un dubbio e concludeva: « Politico? No. Scrittore? No. E che gli fac ­ciamo fare, pover’uomo? ». Alla intimidazione politica si aggiunse l’equivoco letterario, che lo coinvolse ingiustamen ­te nella moda e nell’ambigua sorte del neorealismo. Fontamara, il primo romanzo, letto dai più in pieno dopoguerra, fu infatti scambiato per social-populismo. Il libro risale al 1930, e allo storico del Novecento non sfuggirà che in quel giro d’anni il roman ­zo italiano esce dalla depres ­sione post-rondista e si rin ­nova.

Il Silone partecipava pro ­babilmente ignaro a quel rin ­novamento, con un libro che introduceva nel realismo so ­ciale di tradizione meridiona ­lista una componente intensa e qualificante che possiamo definire insieme popolare ed esistenziale. Vide bene allora, ma furono in pochi, chi lo apparentava ai tormentati spi ­riti religiosi del Novecento europeo, cristiani come Bernanos e Unamuno, laici come Orwell e Camus.

Non si insisterà mai abba ­stanza sulla sua « tensione » nell’interpretare in dimensione religiosa i problemi della so ­cietà laica. Egli è laico nella volontà e nel metodo di conoscenza, religioso almeno in due sensi. Il primo: nell’uso spietato, ultimativo della coerenza (in questo vicino alla gioventù d’oggi), nell’attaccare, demitizzare le ideologie prendendole sulla parola, in ­calzandole iuxta propria prin ­cipia. Il secondo: nel rispetto esistenziale della persona crea ­ta (in questo agli antipodi dei fanatici d’oggi, giovani o no) In piena egemonia idealistica, si leggeva in Fontamara: « La verità non sta nella coscienza dei poveri ma nella loro esistenza ».

Queste due attitudini ten ­gono più del paradosso cri ­stiano che dello storicismo, più dell’anarchismo libertario che della socialdemocrazia tradizionale, pur essendo in lui innestate su una ferma fedeltà democratica. Se vogliamo provarci a condensare in un’ultima immagine il messaggio dello scrittore Silone, potremo dire che nella sua opera si cerca e si afferma la coincidenza di libertà e ve ­rità, libertà come dramma da vivere, verità come fondamen ­to e destinazione dell’uomo. In questo senso la sua paro ­la, proprio mentre interpreta l’ansia di coloro che credono nella grandezza dei valori an ­tichi o eterni dello spirito (« Habeas animam »), si apre fraterna all’intransigente pu ­rezza, al non conformismo, al rifiuto che illuminano d’uto ­pia l’inquieto paesaggio della contestazione.


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Bart