LETTERATURA: I MAESTRI: L’inganno28 Aprile 2018 di Mosca L’impresa di Bornlan, Lovell e Anders non tanto mi sem bra abbia valore per essersi essi così appressati alla Luna da riuscire a vederla in ogni anfratto e, direi, in ogni ce spuglio, quanto per essersi in tal misura allontanati dalla Terra da poterla scorgere in tera, sospesa nello spazio, va ria di luci e d’ombre, come fosse una Luna, ma con qual che cosa di più: i colori, fra i quali i tre cosmonauti assi curano predominare il bianco, il celeste e l’oro, senza dire dell’alone opalino che la cir conda, spiccante nel nero as soluto dello spazio. Meraviglioso, poi, assicura no essere lo spettacolo del sorgere della Terra. Girando intorno alla Luna, l’hanno potuto ammirare dieci volte nel corso di meno d’un gior no: un chiarore palpitante, quasi il mondo in cui viviamo anziché un pianeta fosse una persona, e perciò respirasse, e prima loro cura, dicono, era di cercare, in quel palpito, ciò che, pure, era impossibile di stinguere, il tetto di casa loro e il viso delle mogli e dei figli, e appuntavano gli occhi fino a sentirsi scoppiare le tempie, ma non per questo smettevano di sperare, essen do tale folle speranza l’unico antidoto alla follia in agguato tra i monti della Luna troppo vicina. Racconta Borman di non aver mai veduto niente di più morto del satellite al quale Leopardi così fiduciosamente rivolgeva la parola dai deserti dell’Asia credendolo deposi tario dei nostri misteri, il pa tir nostro, il sospirar, che sia. Questa Luna, dice Borman, è una sfera di gesso con niente altro di vivo che le gelide ombre dei monti nel loro eter no allungarsi e scorciarsi. In genuo chiederle cosa pensi, cosa faccia, dove vada e per ché vada. Non sa nulla. E’ un impasto bucherellato di silen zio e di deserto. Battuta dal Sole rimane gelida. Borman affrettava in cuor suo l’ora del ritorno per rivederla lon tana e bella, come in certe notti d’estate quando al suo splendore impallidiscono le stelle, e nel variare delle luci e delle ombre ora appare un sorridente volto femminile, ora il bacio di due innamora ti, ora Caino e le spine, o come in certe notti d’inverno allorché l’atmosfera della Ter ra prestandole un alone che va dall’argento al sanguigno ne fa la più femminile delle donne, continuamente can giante parrucca, fino a che un improvviso vento, soffiando sugli olivi o sui castagni, non la lasci calva. Lassù, intorno alla Luna, dopo quattrocentomila chilo metri del più rischioso dei viaggi, i tre naviganti aveva no, per tutto premio, perduto l’incanto di un inganno, ma acquistatone, in compenso, un altro, quello della Terra mutata in gigantesca Luna, adorna di vaghissimi colori, cele ste la fame del Biafra, d’ar gento le pianure insanguinate del Vietnam, smeraldo Buda pest e Praga, squisitamente rosa Hiroshima. Le vere conquiste dell’uomo sono gl’inganni. Perduto quel lo della Luna, vogliamo pri varci anche di quello della favola dei canali di Marte, anche di quello dello splen dore di Venere, chiamato da gli antichi Espero quando, al tramonto, precede l’apparire delle stelle, e Lucifero allor ché, nell’alba, è l’ultimo a spegnersi? Né Luna, né Marte, né Ve nere debbono essere le nostre mete, ma punti dello spazio sempre più lontani dalla Ter ra, così che questa ci si pre senti allo sguardo sempre più piccola, più unita, più colo rata. Von Braun avrà com piuto il suo capolavoro quan do a un milione di chilometri dalla Terra galleggeranno nel cosmo vastissime piattaforme provviste di balaustre, cariche non già di atomiche, ma di gitanti convenuti da ogni par te del loro pianeta natio per goderne gl’inganni donati dalla lontananza, e chi sa che que sti, quando l’Atlantico e il Pacifico non sembreranno che laghetti per cigni, e la Russia e l’America pietruzze colora te, chi sa che gl’inganni non ci inducano a una vita miglio re, gettare le armi nei laghetti con grande spavento dei cigni, seppellire gli odi in fosse sca vate in prati celesti o in valli d’argento, e la domenica far esplodere atomiche innocue e colorate, festosi funghi visi bili dalle piattaforme cariche di gitanti. Non è forse l’Universo tut to un grandioso inganno ai cui milioni di inganni abbia mo il torto di porre così rara mente la mente e l’animo? Quale più dolce e meraviglio so smarrirsi che nel desiderio, certe notti, in campagna, del l’impossibile computo delle stelle? Noverarle « ad una ad una », come avrebbe voluto fare Leopardi; figurarsi in cielo, per sublimarle, forme terrene. L’Orsa, l’Aquila, lo Scorpione, il Sagittario, la Cintura d’Orione, la Croce del Sud, la Chioma di Berenice, quella strada ideale ch’è la Via Lattea, quel faro del mon do ch’è la Stella Polare; credere palpitante, per l’inganno dell’atmosfera, come un no stro petto, un nostro cuore, un nostro piccolo respiro, ciò ch’è immensamente ed eternamente fermo e fisso; affidare le nostre speranze alle stelle ca denti, quanto di più morto e sperduto, cioè, che possa esi stere, ma nella breve fiamma che le incenerisce â— quasi foglie d’autunno che si fanno di fuoco nell’attimo della morte â— vedere il migliore e il più lieto dei segni. Ma l’inganno maggiore è più lontano, ai confini dell’Universo, seppure, essendo infinito, possa mai averne, là dove risplendono come Soli le stelle più affascinanti, quel le spente. Sono spente da se coli, da millenni, da migliaia e milioni di millenni, ma, lon tane come sono, l’ultima luce di cui brillarono continua a viaggiare nello spazio e a fe rirci lo sguardo come ancora risplendessero. La luce, lassù, di quella stella spenta, fredda, incenerita ingannò i primi uomini apparsi sulla Terra, continua a ingannar noi, fra un miliardo d’anni, se ancora vi saran no uomini, li ingannerà come inganna noi. Una catena infi nita di generazioni che nasco no e vivono per nient’altro che per compiacersi di luci che non ci sono più. Quanti miliardi di uomini non hanno, nelle pianure, nelle valli, sui monti, dalle soglie delle caverne, delle capanne, delle case, dei palazzi, trattenuto, per la meraviglia, il respiro, una notte d’estate, nel vedere così vivamente risplendere ciò che invece era spento? Vorrei poter cavalcare il raggio della stella spenta, ver tiginoso viaggio a trecentomi la chilometri al secondo, da vanti la spada di luce, alle spalle il buio. Inganno, inganno, inganno. L’inganno è la nostra vita, la nostra ragion d’essere, la no stra verità, la nostra grande, miracolosa ricchezza. Niente Luna, niente Marte, niente Venere. Solo allontanarsi dal la Terra per conquistare, fi nalmente, l’unico inganno che ci manchi: la Terra vista da un milione di chilometri. Se bella diventa, a distanza, quel la morta sfera gessosa ch’è la Luna, quali meraviglie â— del le quali Borman, Lovell e An ders non ci hanno dato che uno scarno, povero resocon to â— non ci riserba questa nostra pur così viva e così varia patria cui viviamo trop po attaccati per poterne debi tamente apprezzare gli in canti? E’ da lassù, da quelle piat taforme, coi gomiti appoggia ti a quelle balaustre, che potremo meglio amarla, patria che sembra così grande e invece è così piccola, tutti vicini come in un paese, in piazza, la sera, a chiacchierare, e dagli orti, che sono le foreste del Brasile, viene l’odore del basilico e della menta.
Letto 1086 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||