LETTERATURA: I MAESTRI: L’anno 161626 Aprile 2018 di Mosca Più anni passano e più vi vedo, libri che mi circondate, come uccelli impazienti di spiccare il volo. Fermi anco ra â— tenuti dalla mia pre senza â— nei nidi delle scan sie che ricoprono sino al sof fitto le pareti dello studio, sie te però tutto un fremito d’ali. V’illudete. Non sarà un volo, sarà un eccidio. Ben pochi di voi si salveranno dal macero. E’ il destino delle bibliote che, sparito che sia chi le rac colse. Ora, io non chiedo ai miei figli di andare contro un uso che dura dall’invenzione del la stampa, ma che per farmi piacere salvino i non molti di cui segue l’elenco. A, i sei grossi volumi del Dizionario della lingua italia na del Tommaseo, per l’odore acidulo che spira dai loro fo gli ingialliti, come di mele co togne messe a maturare su lunghe tavole, in un’antica cucina. Non una volta che scri vendo un articolo, un libro, una commedia, io â— curioso di tutti i più riposti significati d’una stessa parola e inna morato di quel magico gioco di sfumature che sono i sino nimi â— dell’odore di mele co togne non abbia riempito lo studio. B, un Orazio trafitto da una pugnalata. L’arma è ancora nella ferita. La famosa notte fra il 12 e il 13 agosto del 1943 la nostra vecchia casa venne sconquassata da una bomba che distrusse l’attigua, e tra i calcinacci ritrovai il mio Orazio, regalatomi da Renato Simoni, passato da parte a parte da una scheggia di mattone nel suo verso più bello, «O fons Bandusiae splendìdior vitro ». Una scheggia lunga e sottile che non sfilai perché si dice che dalle ferite al cuore, se l’arma venga tolta, il sangue zampilli tutto insieme. Orazio, perciò, vive ancora. Perde il suo sangue goccia a goccia lungo la strisciolina di seta rossa del segnalibro. Quel poco che ne conserva è l’ulti mo latino rimasto in Italia. Tra qualche anno non ce ne sarà più una stilla. Per cui vorrei, miei cari figli, che te neste il volume così com’è, col suo pugnale nella tredicesima ode del libro III, e non cori cato, ma in piedi, proprio co me morì il protettore d’Ora zio, Cesare Augusto. * C, le commedie di Goldoni in tanti volumetti da lire 0,10 ciascuno, Giovanni Gussoni editore Milano, li lessi tutti che avevo dieci anni, allora non c’erano fumetti, mettevo sullo stesso piano Salgari, Verne e Goldoni, il Corsaro Ne ro, Phileas Fogg e il Bugiar do, sulla copertina del « Ven taglio » l’arte così aerea del veneziano è tutta riassunta nell’immagine di Crispino che stringendo in una mano il pre zioso trofeo fugge â— inseguito da Coronato e Moracchio â— leggiero che non tocca terra. D, Leopardi e Petrarca avrei piacere che fossero sal vati e tenuti vicini, anzi me scolati come due mazzi di car te, la pagina del «passero so litario » accanto a quella del « Passer mai solitario »; « Va ghe stelle dell’Orsa » e «Né per sereno cielo ir vaghe stelle »; « il fior degli anni tuoi » – « al fior degli anni tuoi »; « questo m’avanza di cotanta speme » – « che di cotanta speme oggi m’avanza »; «vecchierel bianco, infermo » – « movesi il vecchierel canuto e bianco »; « e di me si spendea la miglior parte » – « la sciai di me la miglior parte addietro », eppure, anche me scolando le carte come si fa con quelle del poker o del mer cante in fiera, i due poeti co sì vicini rimangono lontani, remoti, uno come Orazio, a do lersi della vita che passa trop po presto, l’altro della morte che tarda a venire. E, un libretto da quattro soldi, il « Che significa », con commenti di mio padre a me destinati, un dizionarietto pieno d’illustrazioni compilato per stuzzicare nei ragazzi – che a quel tempo passavano in casa interminabili giornate senz’altro svago notevole che le bolle di sapone â— il gusto dei vocaboli, abbacchiare, ab bacinare, abbiadare, abbicare, abbindolare popolato di contadini che percuotono con pertiche alberi di noce, porgono la biada ai cavalli, ammassano il grano in tante biche, cioè fa stelli di covoni, girano il bindolo per tirar su l’acqua dal pozzo, ma il contadino che più mi colpiva e continua a colpirmi è quello che abbaci na, un buontempone che pre sentando al sole un bacino di rame ne dirige i riflessi contro le case sparse nella campagna. Avete mai visto, poco prima che il sole sparisca, i vetri delle finestre ad uno ad uno risplendere come se andassero in fiamme? Non è il sole, il quale li accenderebbe tutti insieme e tutti insieme si spengerebbero, ma il contadino buontempone che, presente in tutte le campagne del mondo, si diverte con il bacino di rame spostandone i ri flessi secondo il suo capriccio. F, ho una prima edizione dell’« Orlando Furioso », Ferrara, 1516, in soli quaranta canti (quella in quarantasei canti non uscirà, sempre a Ferrara, che nel 1532), e prego venga conservata non perché preziosa, ma perché intonsa. Non so se la taglierò mai. Rimando sempre questo piacere, il quale niente ha da invidiare a quello del bevito re che lascia piovere la polve re sulla bottiglia di vino an tico, e prego anche, quel li bro, di non spolverarlo trop po. Ambedue, bottiglia e Or lando, contengono la forza e il profumo d’una vita, il calo re d’un sole che al primo con tatto col cavatappi ed il ta gliacarte svaporano. Il ferrarese che nel 1516 comprò il libro fu il primo a rinviare un piacere che, rin viato dalla catena dei suoi suc cessori, è giunto fino a me an cora da godere. Non sarò io a rompere l’incanto. Forse questo volume an drebbe consegnato agli ameri cani con la preghiera di stap parlo sulla Luna per ricor dare Astolfo che tanti anni prima di loro ritrovò lassù â— come si legge nel canto XXXIV â— non il Surveyor, ma l’ampolla contenente il Senno di Orlando. * G, l’anno più doloroso del la storia del mondo è il 1616. quando l’umanità fu privata di due insieme tra i suoi maggiori geni, Shakespeare e Cer vantes. Vorrei perciò che, come quelle di Petrarca e Leo pardi, le loro opere, delle qua li posseggo non so quante edi zioni, venissero mescolate, con Amleto accanto a quel Don Chisciotte ch’io â— se fossi privato della lettura di tutti i libri tranne che di uno â— non esiterei a scegliere. Ambedue finti pazzi, Am leto per trovare fuori di se stesso la forza di compiere la giurata vendetta, Don Chi sciotte per trovare, di fronte al proprio buonsenso di sta gionato hidalgo, la giustifica zione alle stranezze imposte gli dal desiderio, anzi dalla erma volontà di rivivere la perduta giovinezza con i suoi amori, le sue contestazioni, le sue illusioni, le sue utopie. Vero è che nei primi ca pitoli Cervantes non esita a mostrarcelo come uno cui, per la lettura dei romanzi cavallereschi, abbia dato di volta il cervello, ma nei pri mi capitoli l’autore non co nosceva ancora il proprio personaggio, il quale con l’an dar delle pagine non tardò a rivelarglisi ben diverso da com’era nato. Da quel momento smise di prenderlo in giro e cominciò a rispettar lo. Niente pazzia. I libri ca vallereschi, i quali indubbia mente lo esaltarono, non an darono però oltre l’incorag giarlo a mettere in atto la sua decisione, della quale il ristabilir la giustizia nel mon do, la punizione dei prepo tenti, la protezione della ve dova e dell’orfano non sono che un piccolo particolare. Don Chisciotte mirava a ben altro. Come Faust vuole rivivere il tempo â— con la capacità, ora, di assaporarne tutti i piaceri â— nei quali un’osteria sembra un castel lo, un gregge un esercito, un mulino a vento un gigante, una brutta contadina la più bella dama, un catino da bar biere un elmo d’oro. Nei bo schi della Sierra Morena ab bandonarsi a capriole in ono re di Dulcinea. Nella pianura d’argilla ai piedi della Sierra non esitare, in nome di un utopistico ideale di libertà, ad assalire la forza pubblica che porta in galera una schie ra di ladri e d’assassini. Per far questo, un uomo stimato come serio e dabbene non può che fingersi pazzo, anche se di una pazzia che ad ogni passo paga cara, e cara, trascinato nell’avventu ra, deve pagarla anche il po vero Sancio, il quale però, nonostante le paure e le livi dure, finisce con l’innamorar sene e col gridare, al capez zale di Don Chisciotte mo rente: « Guarisca signor pa drone, e torniamo alla nostra vita, chi sa che dietro un cespuglio non troviamo la si gnora Dulcinea disincantata ». I due finti pazzi, dunque, insieme, mescolati. Il primo, pericoloso, che sparge il san gue di Polonio gridando « Al topo! », il secondo che assale il barbiere non per fargli del male, ma per prendergli il bacino con il quale, come il contadino del « Che signifi ca? », divertirsi ad abbacina re giocando col sole sui vetri delle finestre delle osterie scambiate per castelli.
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