LETTERATURA: I MAESTRI: L’interprete
12 Agosto 2008
di Giacomo Devoto
[dal “Corriere della Sera”, martedì 28 ottobre 1969]
Ogni testo che viene sotto i nostri occhi contiene un mes saggio. Questo non arriva a noi, immediato, integro, come il suo autore lo ha concepito, ma sottomesso deformato o impoverito nel codice lingui stico convenzionalmente accet tato: italiano francese tede sco, e così via. Ci sono mes saggi in cui la deformazione del codice si fa appena senti re, ci sono quelli che, come ha detto con frase, ahi quan to pedestre, il filosofo Hans Georg Gadamer, « non si intendono di primo acchito ».
Questi devono essere per ciò sottoposti a una elabora zione, sia per depurarli dalle rigidità deformazioni e violenze imposte dal codice, sia per inquadrarli nel mondo socio-culturale, nel quale sono nati. Se il paragone non è irriverente, ogni testo impor tante ha bisogno di una dop pia operazione di « mediato rato ». Nell’un caso come nel l’altro il mediatore che si pre sta a questo compito è l’inter prete. La parola non è stata certo sempre viva attraverso le generazioni: per secoli è rimasta sepolta, nella forma latina « interpres », nelle bi blioteche medievali. Ma an che risalendo a 2500 anni fa, essa non rinnega le sue origi ni modeste, legate alla vita economica. Essa è legata a «pretium », e definisce colui che si mette a metà fra due che stanno per compiere una operazione di Compravendita. Superata la fase economica, la parola si è divisa in tre fi loni: quello del mediatorato linguistico fra individui che non parlano una stessa lin gua; quello del mediato rato politico e morale fra interessi o aspirazioni di masse e un gruppo dirigente; infine il me diatorato intellettuale, il no stro. Il paragone non deve parere irriverente, perché di ogni lettura possiamo dire che è facile, come di una mercé che è poco cara; oppure che è difficile come una mercé ca ra, per la quale occorre una opera di avvicinamento o di persuasione da parte di chi e in grado di esercitarla.
L’analogia però si arresta non appena si prenda in con siderazione il fattore della persuasione: l’interprete di un testo non può contare sulla sua bonarietà astuzia o propensione agli affetti, come è invece il caso per il media tore economico. In altri termini, il mediatore economico si muove nell’ambito di una « tecnica » che nella migliore delle ipotesi, si troverà al li vello di quella pubblicitaria, mentre il mediatore intellettuale non si muove se non nel mondo della ragione, e della « scienza ».
Il problema che si pone è allora il seguente: se l’operare scientifico, che è alla base di qualsiasi interpretazione, permette di giustificare una specialità scientifica, una «scienza della interpretazione », oppure costituisce un ele mento scientifico essenziale, insito in « qualsiasi » attività di lettura e ricerca. Scelgo cinque esempi che mi sembra no decisivi.
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II vangelo di S. Giovanni comincia con queste parole: « In principio era il Verbo. E il Verbo era presso Dio. E il Verbo era Dio ». Proposizio ni più semplici non si potreb bero imaginare. La lettura grammaticale è automatica. Ma senza un « interprete » ci arrestiamo interdetti. Che co sa sia il Verbo, in che senso si possa dire che si trovava presso Dio, e cioè diverso da Dio, e subito dopo che era Dio, quasi si trattasse di due, questo non ce lo può spiegare che uno specialista di problemi teologici e storici; un «interprete » autorizzato del mondo in cui il vangelo di San Giovanni si era venuto formando. Senza questo mediatore, quelle frasi così lineari e cristalline rimangono vano esercizio grammaticale. L’interprete, rispetto alla struttura del testo, è esterno ma necessario.
Nel primo canto dell’inferno si legge di « una lupa che di tutte brame – sembrava carca nella sua magrezza » e del veltro « che la farà morir con doglia ». Questi animali sono « simboli »: di istituzioni, di persone. Quali queste siano state, è stato a lungo dibattuto, e la curiosità e l’interesse per siffatti problemi non sono ancora venuti meno. Anche qui, come nel vangelo di San Giovanni, la lettura grammaticale è chiara, ma la scia dei perché. Soltanto, a differenza di quello che accade col testo di San Giovan ni, la risposta ai perché non è indispensabile. Ci sono stati i maniaci della allegoria che si sono abbandonati alla ricerca di allusioni e di appigli, ma, rispetto al giudizio estetico del testo, il loro apporto non è determinante. Possiamo rifiutare ogni allegoria, considerare la lupa e il veltro come degli stemmi sulla carta intestata della Divina Comedia, e rimanere paghi di questo riserbo, certi di avere inteso ugualmente quella poesia. L’intervento dello specialista di cultura medievale « può » essere benefico, ma è facoltativo, non indispensabile. L’interprete rappresenta in questo caso una «sovrastruttura », un lusso.
Nessuno oserà dire che le memorie proustiane siano di lettura automatica, di immediata comprensibilità. Non lo sono, neanche da un punto di vista strettamente grammati cale, non foss’altro per i pe riodi così lunghi e tormentati. Ma per questa operazione pre liminare, bastiamo noi stessi, con un po’ di pazienza e di ordine. Chiarita la struttura grammaticale, bastiamo anco ra noi per la seconda opera zione. Questa consiste nel tra durre il ritmo impassibile del racconto proustiano, in quel lo, variabile, talvolta angoscioso, delle imagini soprag giungenti l’una sull’altra, sve late compiutamente in una perfezione mai più raggiunta, attraverso la loro sottomissio ne al ritmo sintattico, di tanto più lento. Certo, anche questa è un’operazione da interpreti: ma non richiede specialisti esterni né impalcature proprie di una sovrastruttura. Richie de a noi lettori generici la sola capacità e consapevolez za di individuare « ad-strutture », possibili in qualsiasi cir costanza storica e in qualsiasi sistema linguistico, offerte alla bravura di qualsiasi scrittore. Non ci troviamo di fronte a problemi esterni, da affidare a specialisti, per necessità op pure per solo lusso, ma a « casi particolari » che gli utenti di un qualsiasi sistema linguistico sono in grado di chiarire da sé.
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II racconto omerico è stato sistemato nell’età ellenistica attraverso la raccolta di tanti interventi parlati, di dèi, di eroi, di uomini qualsiasi, col legati e introdotti da didasca lie, che indicano il nome de gli interlocutori e le azioni che, come narratori, compio no. Le varianti che compaio no in queste didascalie non sono soltanto di ordine se mantico « dire » « raccontare » « narrare » « esclamare », che trovano facili corrispondenze lessicali nelle diverse lingue. C’è un caso più sottile. Alle volte il verbo introduttivo compare nel testo greco nel tempo imperfetto («narrava ») e cioè col segnale di una azio ne che dura nel passato, e alle volte era messo all’aoristo («narrò »), e cioè col segna le di una azione istantanea. Ai fini di una lettura appros simativa, non ha certo gran de rilievo precisare se le invocazioni di Ettore, le invettive di Zeus contro Era, o le consolazioni di Atena nei ri guardi di Achille erano in trodotte come azioni momen tanee o durative. Prendere in considerazione certe possibi lità di distinzione può sem brare in certi passi più con citati e commossi come irri verente. Eppure… « Diceva Crise », «diceva Apollo », «di ceva Tetide » non sono la stessa cosa di « disse Crise Apollo Tetide ». Nel nostro passato remoto c’è una sem plice constatazione, nell’im perfetto si ha la partecipa zione di quello che ascolta e quindi un calore di affetti. Questa possibilità di scelta, su cui noi sorvoliamo, corri sponde a una infrastruttura di fronte alla quale dobbia mo prender posizione. L’interprete è qui già insito nel lettore grammaticale, ne è addirittura un elemento se questi è effettivamente consapevole di tutte le possibilità che la comunità linguistica gli offre. Viene infine l’esempio estremo, in cui non solo l’interpretazione coesiste con la lettura grammaticale, ma la condiziona. Sia il caso delle iscrizioni etrusche di Pyrgi (V sec. a.C.) scoperte alcuni anni or sono, e tuttora og getto di dibattiti. La lettura grammaticale è ancora in condizioni rudimentali: la interpretazione, ancorata ad alcu ni caposaldi, può in certi mo menti diventare determinan te. Sia il caso della parola « pulumchva » che compare verso la conclusione del te sto. Non si sa che cosa signi fichi, la grammatica non ci dà nessun aiuto. Ma una pa rola somigliante, «phulumchva », compare in una importante iscrizione di Perugia, nella quale sembra riferirsi a un augurio di produttività agricola. La quasi identità for male, la posizione prossima alla conclusione del testo, la naturalezza con la quale un augurio di prosperità come quello di Astarte si situa favorevolmente in una iscrizio ne legata alla fondazione di un tempio fa sì che legittimamente la interpretazione « preceda » qui, sorprendente mente, la lettura grammaticale, e identifichi un elemento delle sue strutture.
Da quanto precede risulta la importanza fondamentale della nozione di interpreta zione e insieme la illegittimi tà di costituirla in un ramo autonomo del sapere: essa è un momento e non un settore della presa di conoscenza di un monumento scritto. Chiu do con tre aforismi: leggere è buona disposizione ad accogliere il messaggio dello scrittore; criticare significa inserire (oggi interpolare) propri criteri di giudizio nell’o pera d’arte; interpretare è (dolorosa) estrazione (oggi estrapolazione) del mondo in dividuale dell’autore dal mon do generale nel quale la sua opera è maturata.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Agosto 2008 @ 22:22
Il problema dell’interpretazione si fa ancor più vivo ed arduo nella poesia, specialmente se si tratta della poesia moderna (dall’ermetismo, al post-ermetismo ed oltre), dove viene abolita del tutto o quasi ogni trama di elementi pratici, dove non ci si cura del contorno preciso dell’immagine, dove si disdegna il discorso logico e si tende all’espressione immediata, cercando soprattutto di cogliere il palpito lirico puro,
dove non sempre si segue la sintassi subordinativa… In poesie di siffatto genere l’interpretazione e soprattutto l’impressione, che ne deriva, divengono non di rado soggettive. E tutto sommato ciò non mi sembra negativo.
Ricordo che una signora, alla quale avevo affidato la mia prima raccolta di poesie, ebbe a dirmi, diverso tempo dopo: “Ogni sua poesia, letta più volte in tempi diversi, di volta in volta mi suscita sensazioni e stati d’animo differenti”. Fui felice di quel commento. Forse anche questo è lo scopo della poesia o no?
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 13 Agosto 2008 @ 22:42
La poesia mette in contatto un’anima con un’altra: due universi diversi composti chi sa da quante sensibilità che determinano la qualità e soggettività dell’individuo.
La poesia, più della prosa, è dotata della virtù di toccare sempre questa o quella corda di un lettore.
Essere poeti (quelli veri) è trasmettere all’uomo la voce della creazione.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Agosto 2008 @ 23:16
Bellissimo pensiero, Bartolomeo, sono pienamente con te!
Ti abbraccio
Gian Gabriele