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LETTERATURA: I MAESTRI: L’isola di Arturo

29 Dicembre 2016

di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]

Dal proprio lettore, come dal proprio critico, Elsa Morante si aspetta un rapporto diretto, frontale. Desidera essere ri ­conosciuta subito in viso, da sguardi che non s’attardino a spiarla attraverso lenti o schermi. Ammette certe media ­zioni, è vero, anzi le sottintende, le implica, scherzando, come sanno fare gli artisti, con le allusioni e i misteri, con simboli e enigmi, e con grazie e civetterie. Tutto le riesce facile, da questa parte, le viene spontaneo come a una na ­turale virtuosa. La musica, i movimenti della Morante sono da flauto magico. Ma tanto vale dirlo subito: sotto trucchi e giochi, questa scrittrice nasconde lineamenti assoluti e eccezionali, e non solamente nel senso per cui i casi dei poe ­ti sono sempre eccezionali.

Fuori da ogni tracciato, estranea a qualsiasi tradizione consacrata nel Novecento, è intanto la sua figura tecnica: esotica e familiare, naturale e iperbolica, la scrittura della Morante non lascia intravedere modelli. Sfugge alla fami ­glia dei « prosatori d’arte » italiani come a qualsiasi altra parentela di ceppo illustre. Non paga debiti, la Morante, al neorealismo coevo. Sarebbe impossibile inquadrarla nei so ­liti disegni, nelle organizzazioni manualistiche della « let ­teratura ». È nata da se stessa, Elsa Morante, e tutto fa cre ­dere che ai suoi due romanzi, Menzogna e sortilegio (1948) e al più tardo L’isola di Arturo (1957) si sia accinta con la stessa eccitazione, la stessa avidità obliosa e vitale con la quale una ragazza si appresterebbe a una festa, a un convito. Trepidante e maestoso, l’inchiostro si abbandona alla promessa, alla scoperta delle parole. Padroneggiare quel po ­tere occulto, trattare quella tenera sostanza stregata, distil ­lando una precisione sfolgorante, invidiata da tutti i poveri e impotenti talismani del mondo: da questo piacere confi ­dente e infantile, da questa nube di gioia rinasce scritta la vita, si ripete attraverso finzioni fatate e reali, inganni estro ­si e fantastici, travestimenti, maschere, invenzioni, tutto ciò che piace ai poeti… Tradimenti, amori, oltraggi, collere, dannazioni, onori, sospetti, malintesi, destini: un immenso, romanzesco repertorio di seduzioni convenzionali. Che cosa trasforma questi sogni, queste visioni cavalleresche, questo teatro di circostanze idalgose in altrettanti universi reali, storicamente e sociologicamente precisi, assolutamente novecenteschi e « meridionali »?

La Morante non nomina mai la nevrosi, i « disturbi della psiche ». Ma dei nascosti combattimenti dell’anima, delle imboscate dello spirito la sua arte ha cognizione al tempo Messo romanzesca e precisa, lucidissima e mitica, quale nes ­sun altro narratore contemporaneo può vantare. La Morante intinge la penna in questa materia di fuoco e non si scotta mai. Chi se la sentirebbe di definire Menzogna e sortilegio una storia di idee coatte? E chi potrebbe prendere L’isola di Arturo per la messinscena di un complesso edipico? « Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra, fu tutto… » E tutto quello che avviene nell’Isola di Arturo po ­trebbe dirsi una tempesta in un bicchier d’acqua, se il bic ­chiere non fosse poi così miracolato, nelle sue umili dimen ­sioni, da detenere una capienza appunto planetaria.

Nato come odissea alla rovescia, nel senso che esplora ­zioni e navigazioni, viaggi e iniziazioni dell’eroe convergono verso il prima, verso le acque del grembo materno – ma che cos’altro sono i confini dell’oceano? – invece di sca ­tenarsi al di fuori, il romanzo della Morante esige innanzi tutto una lettura, nell’ordine mitologico, complementare e parallela. L’isola di Arturo è una piccola, criptica Achilleide resuscitata. All’eroe, ad Arturo, al guerresco ragazzo dal nome di stella, Arturo-Boote (in realtà, di cognome, il ra ­gazzo fa più procidanamente Gerace), è concesso di vivere soltanto un fulgido mattino, un istante di splendore solare e glorioso, e di viverlo nei termini impossibili di una sfida.

Ma dovendolo definire con un solo tratto sommario, Ar ­turo ci appare in primo luogo un « grande e insieme pic ­colo » (come Edipo dice di se stesso in Sofocle) compri ­mario di qualcosa che lo trascende. Se si può essere prota ­gonisti di una misteriosa alleanza, di un invisibile sodalizio con Dio, questo è Arturo. Ma questa fratellanza sembra d’origine sublime e incestuosa. Destinato a subire una pro ­va, anzi la prova, nato e cresciuto in un’isola, da cui una forza inconscia gl’impedisce di staccarsi, orfano di madre, su che cosa può contare il ragazzo, oscuramente, nel suo duro privilegio di solitudine, se non sul conforto, sulla com ­plicità di una materna divinità marina? E infatti nei mo ­menti cruciali della vita, quando i venti soffiano forte con ­tro, o gli avvenimenti congiurano, o lo schiaffeggia la novità insopportabile del dolore, intervengono a proteggere Arturo sogni rivelatori, coincidenze superiori e furtive, casi provvidenziali, sul tipo di quelli messi in moto dalle sup ­pliche di Teti o Atena. Le femmine in carne e ossa che Ar ­turo incontra sul suo cammino non sono che poverelle, illuminate emissarie, mitemente consapevoli della sua futura giornata radiosa.

Nasce a Procida, Arturo Gerace, da padre di sangue mi ­sto, tedesco e italiano (la madre, morta di parto, la cono ­sciamo attraverso un’ingiallita fotografia). Vive lunghi anni beati tra spiagge e scogliere, pago di sogni fantastici, della sua fida cagna Immacolatella, di una barca fregiata di titolo piratesco; Non si cura di vestiti e cibi. È stato allevato con latte di capra, da uri soldato di nome Silvestre: una carto ­lina d’auguri a ogni compleanno, da parte del balio, e un cammeo con incisa la testa della dea Minerva, futuro segno di riconoscimento e gentile ricambio di Arturo, che un gior ­no ha trovato l’oggetto, per caso, su un lido (roba da riven ­duglioli, questo cammeo: « una pietra magnifica », a detta di Arturo) prolungano a distanza la strana amicizia. Tutto quello che compete ad Arturo Gerace, o che gli appartiene, è regale. Un idillio solitario e supremo lo affratella alle meraviglie del mondo. Idolo irraggiungibile, numinoso, dai cenni e umori sovrani, la vichinga immagine paterna: Wil ­helm Gerace, dal fazzolettone a fiorami annodato intorno al collo, camiciola aperta sul petto, eterni pantaloni scolo ­riti e pieni di sole. Parte e arriva sempre inatteso, il padre di Arturo, tiene valigia con lo spago, gira l’isola in sandali, dio distratto e corrucciato, corsaro di barba incolta, di lun ­ghi, capricciosi riposi irrequieti. Alle spalle ha lasciato av ­venture, forse lo attende una scorta di prodi. Nido di gufi, sporchissima, a picco sul mare, la disammobiliata abitazione d’Arturo, antico convento di frati, poi teatro di misteriose riunioni maschili – la Casa dei guaglioni – non conosce ser ­vizi domestici. Vi crescono erbacce, vi corrono lucertole e la polvere s’ammucchia. Ma non esiste immondizia sull’i ­sola. La vita è profumo d’Oriente, promessa d’imprese e prodigi.

Nel giro di due inverni e due estati, in Arturo matura e precipita una crisi. Le nozze impreviste del padre gli por ­tano in casa una matrigna, poco più che una ragazza, Nunziata, essere inspiegabile, ma capace d’infinite e irritanti sor ­prese. Niente importa meno ad Arturo « dell’oscuro popolo delle donne », niente gli sembra più insignificante di questa specie brutta, piccola, pallida, infagottata in gonne e sot ­tane, indaffarata e sfuggente. Ma al contatto di Nunziatella, di quest’animale stupidello e fiero, l’anima solitaria dell’eroe si scioglie per la prima volta alla confidenza. Siamo a un terzo del romanzo.

Fino a tutta questa parte, la Morante sviluppa in cre ­scendo motivi tra il maestoso e l’allegro (difficile resistere alla comicità, alla selvaggia ilarità degli scontri tra Arturo e Nunziata, alle scintille di quest’arco voltaico). Ma com’è nata improvvisa da una bizzarria paterna (« Egli si versò an ­cora del vino; e mentre lui beveva, per forse due minuti rimanemmo tutti senza parlare. Si riudì l’urto dei flutti, giù, contro i piccoli golfi: e io, a quel suono, vidi nel pensiero la figura dell’isola distesa nel mare, coi suoi lumini; e la Casa dei guaglioni, quasi a picco sulla punta, con le porte e le finestre chiuse nella grande notte d’inverno… »), così altrettanto presto la pagina della vita in famiglia si ri ­chiude.

Nasce un fratellastro. Si sfascia il piedestallo paterno, in un seguito di avvilenti, amare delucidazioni e rivelazioni. Il passo delle memorie di Arturo prende adesso un ritmo incalzante, sempre più simile a quelle strane emozioni della prima notte di nozze di Nunziata, quando il padre, ridendo, sembrava giocasse col proprio diritto: « In quel momento, a me parve di udire un frastuono ritmato, quasi che una cavalcata s’avvicinasse da qualche parte; e con meraviglia m’accorsi che era il mio cuore a battere in quel modo… » Scoppiano amori e furori, s’avvicendano sconfitte e galan ­terie. La beata scorza della solitudine si screpola, si sbrec ­cia, l’idillio con la terra natale diventa un divorzio irrevo ­cabile. L’epilogo dell’Isola di Arturo è una cognizione del dolore e una fuga.

Ma per tutta la durata delle sue risse, dei suoi conflitti, l’urto dell’anima infantile di Arturo contro la logora roccia delle cose prende un duplice aspetto. Da una parte, come se non fossero mai esistiti prima di lui, in una sorpren ­dente, alterna vivezza d’inferni e paradisi terrestri, Arturo scopre gli eterni temi del vivere (l’amore e la noia, la dispe ­razione e la gelosia, l’amicizia e il dolore); e dall’altra la sua statura mitica si rivela disadatta ai corti panni del reale. La vita, per Arturo, simile a un vecchio maestro pazzo e noioso, ritrova le sue prime canzoni, i suoi primitivi, fre ­schissimi accenti, solfeggiandoli sulla curiosità del ragazzo, senza cessare un istante dal riversargli addosso tutti i rima ­sugli del suo talento. Ma la percezione che Arturo ha così delle cose ci risulta deformata, come se la realtà che ci viene descritta pedalasse col suo solito, fiacco rapporto, e il ra ­gazzo, invece, nella sua isola, ne avesse frattanto adottato un altro, con perfetta e parallela naturalezza. In questa di ­sfunzione, in questo « errore », che la Morante non sotto ­linea mai (e nessuno saprà mai s’esso appartenga agli occhi di Arturo, o non piuttosto agli occhi della « realtà »), si ri ­fugia un abisso straziante. Arturo vede e legge nei fenomeni del mondo in modo meravigliosamente giusto e obbiettivo, ma appunto per questo, anche in modo ciecamente irreale. Più la sua intelligenza afferra confusamente il vero aspetto della realtà, più egli la fraintende e la equivoca, incapace di riconoscerla nei suoi nomi falsi e usati. E la sua scrittura piega verso un riso diverso, adesso, misto di fragranza e dolore. Non potrà mai accettare, Arturo, anche ad occhi aperti, che i viaggi paterni si limitino alla circumvesuviana, e che un ergastolano famoso, un galeotto odiato si riduca a un fatuo ladruncolo che sta dentro sì e no un paio di sta ­gioni. Rimandati e restituiti da una misura volgare, i suoi sentimenti gli creano intorno uno spazio enorme. Nato e cresciuto in un’isola, Arturo torna a richiudersi illeso nel proprio grembo, dopo avere imparato il sopruso delle interpretazioni altrui.

Ma non è la storia di un bambino incompreso, L’isola di Arturo! Se un diaframma mitico divide il ragazzo della Morante dalla realtà delle cose, non è questa una tragedia che porti a pianti di vittima! Ragazzo-stella, lega di eroe, le voglie di Arturo sono e restano di uomo. Anzi il più vero, il più vivo desiderio di Arturo, la sua aspirazione massima, è l’azione, il cimento, la voglia impaziente, imperiosa, d’ap ­parire e essere uomo » Soffre della sua costituzione infantile, Arturo, il suo cruccio è quella pelle più vasta del numero dei suoi anni. E sogna d’atterrire la matrigna, con pose sprezzanti e feroci, ma questa non se ne da per intesa, lo cerca, lo serve, lo ama, si confida con lui. Più aumentano le villanie, più Arturo scorge negli occhi di Nunziata* nel fondo delle pupille, « una specie d’interrogazione fiducio ­sa ». E più bruciante è lo scorno, più rabbiosi i fremiti di sdegno, i puntigli, quanto più fiere le alterigie, tanto più il ragazzo stenta a trattenere le risa. « Quand’io la offendevo e la ingiuriavo, sebbene non mi replicasse mai nulla, tutta ­via mi stava di fronte impavida come una leonessa… Io avrei voluto, per soddisfazione del mio orgoglio, ispirarle paura quanto mio padre, in cospetto del quale essa tremava solo a un’ombra che gli passasse sulla fronte! e spesso, dimenticando tutte le mie ambizioni, mi perdevo nel progetto di diventare, da uomo, un brigante, un capobanda terribile, tale ch’essa dovrebbe cadere svenuta solo alla mia vista. Perfino la notte, certe volte, mi svegliavo con questo pen ­siero: Voglio farle paura… Quando le impartivo ordini, e mi facevo servire da lei, mi atteggiavo alla maniera di un torvo imperatore che si volga a un soldato semplice. E lei era sempre docile e pronta a servirmi, ma questa sua ubbi ­dienza non sembrava, per nessun segno, dettata dalla paura. Anzi, nell’affaccendarsi per me, ella si animava e assumeva perfino delle maniere pompose. E la sua faccia, da brutta e smorta, ridiventava fresca come un gelsomino… Non c’era modo di farle capire quanto fosse spietato il mio animo. »

Troppe volte la Morante ci mette sotto gli occhi questo contegno di Arturo, questo punto vulnerabile, questa piaga, perché essa non ci spieghi il mistero autentico del suo ra ­gazzo. Arriviamo anche a comprendere quella frase sibillina, che per essere dettata dalla collera, supera il ristretto tema edipico cui si riferisce: « E certo, io lo credevo pro ­vocato dall’offesa, quel furore amaro, non da altro; ma può darsi che, nella mia inconsapevolezza, io lamentassi già, invece, le pretese impossibili del mio cuore. E le gelosie op ­poste e intrecciate, le passioni multiformi, che dovevano segnare il mio destino! ».

È frammento celeste, Arturo-Boote, la sua natura ripete un archetipo mitico, si divide con una misura superiore. Ma è curioso che il mito abbia voluto che proprio Achille, l’eroe formidabile, si trovasse un giorno impacciato in vesti da femmina, a lottare con le sottane. Ignora dunque, Arturo, che il suo destino splendidamente virile, di uomo-stella, è fatto d’inutilizzabile, impossibile identità di valori femmi ­nili e valori infantili, senza nessuno degli stupidi, volgari vizi dell’uomo, Se si dovessero assommare le perfezioni di Arturo, ci si troverebbe semplicemente di fronte alla ra ­diosa latenza di tutto ciò che è poveramente adulto, falsamente « reale ».

Ci si spiega così come L’isola di Arturo, e il destino di Arturo, finisca nel momento in cui la vita di un uomo do ­vrebbe cominciare. In uno schema psicologico e mitologico, il romanzo della Morante sottintende in tutta la sua durata, lasciandolo trasparire solo alla fine, un buio, nascosto tema di nevrosi narcisistica. Confinato nelle ultime pagine, il tema si schiude previsto e inatteso come il ricciolo della schiuma sull’onda piena e montante. Innamorato della vita, scheggia di felicità e solitudine, Arturo soffre di un sentimento in ­fantile indurito, per così dire, di « passione e ideologia », diventato scintillante e prezioso come lo smalto di una pie ­tra dura. Niente vale più di quello specchio, di quella sfera perfetta, quando la buccia d’innamorarsi del mondo è lo stesso frutto dell’amare se stessi. Quando questa buccia si rompe, la vita muore. È pretesa impossibile essere amati come ragazzi, e insieme essere trattati come adulti. Chiusa la sua giornata mitica, Arturo si allontana dall’isola, sul vapore-traghetto, la faccia nascosta contro lo schienale del sedile, verso un futuro annebbiato e confuso, che è il ciclo dove migrano e si dissolvono gli « eroi ».

Ma qui assistiamo a un nuovo evento, a un prodigio ina ­spettato. Mentre l’isola di Arturo ci è stata compagna più vera del vero, e lo specchio di un’arte rutilante ci ha resti ­tuito le immagini di un perenne mattino, e lo spettacolo terso e divino dura ancora accompagnato da suoni e canti, come sanno fare gli artisti, quella stessa isola ci scompare dagli occhi come allo snebbiarsi dei fumi di una droga. Non è il solito effetto dell’arte. Durante tutta la sua rappresen ­tazione, quella stessa Morante che ci stava raccontando di un mare più mare del mare, di un cielo più celeste del cielo, ci stava anche impercettibilmente dimostrando che la spiag ­gia della sua rappresentazione è deserta, è sempre stata deserta, l’isola in forma di delfino non esiste, e mandolini e chitarre hanno suonato una volta per dirci che essi tacciono da sempre e per sempre. La copia della realtà è vana esatta ­mente come il modello. La vita è menzogna e sortilegio.

Non sono giochi di prestigio, la Morante sdegna gli illu ­sionismi. È che un nero oceano di lutto assedia quest’arte felice, la protegge, la immunizza, trasformando i suoi umili, poverissimi oggetti in altrettante cose regali, fatandoli senza tregua, così che non sapresti dire fino a che punto essi ti rivelino la loro comune, solita essenza quotidiana, e non partecipino invece di una sostanza privilegiata e struggente, irraggiungibile e favolosa. Arturo ci scioglie l’enigma, con un accento, inatteso in lui, addirittura leopardiano: « I beati rumori e iridescenze della realtà sono un teatro incan ­tato che innamora ogni cuore vivente fino all’ultimo… La mia fantasia non saprà mai concepire la ristrettezza della morte. A confronto di questa infima misura, diventano si ­gnorie sconfinate non dico l’esistenza di un misero prigio ­niero dentro una cella, ma perfino quella di un riccio attac ­cato allo scoglio, perfino quella di una tignola! La morte è una realtà insensata, che non significa niente, e vorrebbe intorbidare la chiarezza meravigliosa della realtà ».

Quest’ombra, questa nuvola nera produce nella scrittura della Morante, per un caso curioso, effetti d’ironica, fia ­besca e sorprendente doppiezza. È probabile che uno scrit ­tore di fiabe, perdendosi nelle sue invenzioni, ne sappia anche tutta la vanità. Ma la Morante non fiabeggia mai. Travi e strutture del racconto s’ispirano al realismo, s’ap ­poggiano a stagionati modelli ottocenteschi, quando non richiamino capricciosi capolavori di un passato ormai an ­tico. Il gusto della leggenda e i modi fiabeschi raggiungono la Morante mentre il racconto s’è già incamminato. Le ten ­gono compagnia a un tratto, da un dato punto in là, soprag ­giunti e imprevisti visitatori, ilari e misteriosi, che guidano una diversa fantasia verso il suo paradossale punto d’arrivo. Raccontare fiabe è ben diverso dal raccontare cose reali, indirettamente giungendo alla conclusione che tutta la realtà è una fiaba immensa e perduta.

La struggente vanificazione delle cose narrate presup ­pone nella Morante una maniera insolita. Sia nell’Isola di Anuro sia in Menzogna e sortilegio, la Morante ha prestato la sua voce a due cronisti che scrivono in prima persona: in Menzogna e sortilegio, una giovane donna invissuta, la povera e brava Elisa, racconta soprattutto ciò che ha udito raccontare; e nell’Isola di Arturo è una fantastica presenza virile che rievoca la propria infanzia fino al giorno del suo sedicesimo compleanno. Ospiti della vita, testimoni più che protagonisti, entrambi gli scriventi odono, vedono, ma ad entrambi, in qualche modo, è stato negato di vivere. E specie nel caso di Arturo, ci viene anzi riconfermata quella legge crudele, quell’enigma maligno per il quale tutti i veri protagonisti della vita non riescono mai a essere protagonisti della propria. Piccolo Achille stellato, Arturo non è meno voyeur della sua scolorita gemella d’arte Elisa. Vi ­vono entrambi in una prigione, grandi visionari esclusi, i due portavoce della Morante, ma la loro prigione ha poco del carcere, non è una privazione, è il contrario esatto della mancanza. Lo spazio che le si apre intorno, che la circonda, vasto come una vastità azzurrina o procellosa, ce la figura coi contorni, le insenature, i promontori di quelle vaghe, narcise copie del nostro pianeta che sono le isole.

Diversamente da Elisa, che troppe ne ha sentite per non rifiutarsi di vivere, e non accontentarsi di disseppellire nella sua stanzuccia storie di inferni altrui, Arturo aspetta, ardi ­mentoso, il giorno pieno, che è la bellezza perfetta: « II principe Tristano davvero delirava quando diceva che la notte è più bella del giorno! Io, da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita: ho sempre saputo che l’isola, e quella mia primitiva feli ­cità, non erano altro che un’imperfetta notte; anche gli anni deliziosi con mio padre, anche quelle sere là con lei! erano ancora la notte della vita, in fondo l’ho sempre saputo. E adesso, lo so più che mai; e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si ricorda, abbracciati, la lunga noia… ».

Questo fratello non verrà, non viene mai per nessuno. Ma nella scrittura di Arturo questa consapevolezza, questa certezza è volutamente dimenticata, cancellata, come in un impeto impaziente di gioia, mentre la superficie solare e marina del racconto, invece, s’increspa di un brivido che in se stesso non è favoloso. Non è la « memoria », non è il rimpianto della beata stagione infantile a dirottare la narra ­zione verso la favola: sciocche cose, sentimenti da femmi ­nella, direbbe Arturo, È un fatto tecnico. È la scrittura della Morante, che per essersi identificata col suo ragazzo raccontato, e non col suo uomo narrante, ottiene un effetto sottilmente mostruoso, di scetticismo e sorpresa, di fumismo leggero, di vaghezza ampia e ridente. Tutto è tra virgolette e tutto non lo è. L’ilarità che manierizza dolori e sogni, prodezze e tragedie di Arturo, è la stessa ilarità che can ­cella questa maniera. Non è la scrittura di un ragazzo, quel ­la di Arturo, ma nemmeno quella di un uomo. È una scrit ­tura ancipite, superiore a se stessa, una scrittura di madre e di figlio insieme, vissuta e meravigliata, saggia e buffo ­nesca, la scrittura di una persona adulta che niente abbia perduto della sua allegra, feroce irriverenza puerile. La ma ­turità è un’ombra, nel cielo festante di questa prosa, simile a un gelido pensiero rimosso, a un presagio impossibile di prossima notte. Ma che cosa è la maturità? Tutto quello che Arturo ignora, e la sua penna infallibile, invece, nar ­rando, già conosce e sa: che fuori dal limbo non v’è eliso, e quello che in un giorno luttuoso, in tutti i giorni luttuosi della vita, ci verrà inflitto a un tratto, ci coglierà all’im ­provviso, lasciandoci intontiti come davanti a una notizia inattesa, in realtà non ci verrà altro che ricordato.

Così la Morante, narrando in prima persona, identifican ­dosi col suo fanciullo-eroe, può suonare senza falsi toni due corde dal timbro misto: la meraviglia e l’ironia, la pochezza e la magnificenza delle cose, il mito e il contrario del mito. Diceva una volta Alberto Moravia, con una felicità critica degna d’essere passata a verbale, che la Morante saprebbe raccontarci la storia di Moby Dick facendoci chiaramente capire nello stesso tempo che si tratta di un cetaceo qualsiasi. Abituata al gusto d’innalzare e diminuire le cose secondo il loro capriccio vitale, figurando le umili in termini cavallereschi e riconducendo le grandi alla loro misura reale, dell’arte questa scrittrice non conosce solo i segreti. Sa qualcosa di più. Ne conosce « i sospiri infantili eterna ­mente, come quelli dell’universo ». Così, dice Arturo, « in eterno ogni perla del mare ricopia la prima perla, e ogni rosa ricopia la prima rosa ». Come in un precipizio della coscienza, dell’arte sente d’istinto, questo poeta, tutta la so ­stanza rivelatoria e illusoria.

Se mi è permessa una sciocchezza, direi che la vanità, la droga dei suoi artifici stupefacenti, la Morante è portata a percepirla in parte per un genio che la trascina verso una sublime « mistica della vita », e in parte semplicemente da donna. Può darsi che alla Morante piaccia di specchiarsi in qualche ventoso adolescente del simbolismo. Ma è nata fem ­mina, e salpa verso le sue chimere, salutata dai vecchi para ­petti del mondo, giusto in tempo per tornare salda coi piedi per terra, la testa in ordine, a dirci che tutto è Dio, tutto è fola, ma a dircelo con un disperato sorriso ammiccante. È difficile guardare un tale manierista, che tutto sa e tutto ignora, in pieno viso.

Sdegnoso di nascondersi, lo spettacolo di questa persona ­lità, che si manifesta e si vanifica, tira a ingannare di con ­tinuo. La Morante non ci parla che di cose essenziali, e nello stesso tempo chimeriche. E mentre ci parla delle une, ci sta parlando delle altre. Evita, questa scrittrice che si dibatte sempre tra assoluti, qualsiasi atteggiamento, qualsiasi pro ­blematica universale. In un tempo nel quale tutti si affret ­tano verso espressioni d’arte di tipo problematico, come se la realtà fosse un immenso cruciverba, la Morante ha sem ­pre l’aria di svolgere un tema: temi ricchi, preziosi, cuciti e ricuciti con una prosa lussuosa, che ha la civetteria, mentre s’ingioiella, di sembrare di poco conto. Quando co ­mincia un romanzo, si direbbe che la Morante ti stia raccontando non più della storia di un gatto, di un mobile di casa, tanto è vero che nascono, le sue storie, da prospet ­tive familiari, domestiche, addirittura anguste: da un corridoio, da un cortile, da una cucina, da quei luoghi dove noi abitiamo distratti, e dove la vita si ripete da sempre, e sembra durarvi perpetua, come se il tempo, frusciando tra gli oggetti a noi noti, tra cento cose consunte, trascorrendo di stanza in stanza, trovasse il modo di farci sapere che in quei luoghi egli non vi fugge, ma vi dimora.

Spesso mi sono chiesto la ragione di questi umili avvii. Come in Menzogna e sortilegio, anche nell’Isola di Arturo i fatti raccontati hanno inizio con la rappresentazione di un alloggio: « La mia casa sorge, unica costruzione, sul ­l’alto di un monticello ripido… ». E in seguito, colpisce la natura di una descrizione che arriva ad essere non solo un campionario di oggetti, osservati come tanti cimeli, ma an ­che una minuziosa topografia. Una rete di riferimenti s’intesse intorno a modifiche dell’abitato, o ad altri che vi ab ­biano in precedenza vissuto, o a fatti che vi siano accaduti in epoche remote e presenti. La serie delle cose nominate – dal solaio alla cantina, dall’antico salone dei ricevimenti al giardino – non lascia intravedere tracce di composizione, procede alla rinfusa. Un indumento può rimettere in primo piano fatti dimenticati, che vengono riportati di sfuggita, ma di cui si conserva memoria, o a cui si annette una mi ­steriosa importanza. Con l’aria di chi informa, la Morante mescola carte diverse, avvicina cose lontane e distanzia le presenti. In una parola, cancella il tempo. Ma cancella il tempo attraverso la descrizione esatta d’un luogo. È la casa di Arturo che sembra « apparire » all’improvviso, come se uscisse, prendendo corpo in quel momento, per caso, da una buia occhiaia, dal grembo di un tempo infinito rispetto al ­l’attualità momentanea in cui essa ci viene rappresentata.

Esiste nella Morante un’idea immobile, ciclica della vita.

I suoi oggetti romanzeschi sembrano inghiottire, risucchiare un’eternità, ma sembra spettare loro anche il privilegio di riprodurla, di rivelarla con una corrusca evidenza. Nella descrizione della casa di Arturo si enumerano oggetti, ma mentre la serie delle cose nominate si avvicina in primo piano, le medesime cose appaiono come parti di un tutto che non coincide con loro, con la loro somma. Quanto più sono colti in un preciso rilievo reale, tanto più si ha l’im ­pressione che questi oggetti vengano investiti di un ruolo diverso, malioso, di un loro muto linguaggio, come fossero sul punto di lasciarsi sfuggire da un momento all’altro qual ­che indecifrabile significato. Mentre la narratrice li osserva, sembra che ella stessa ne sia osservata. Oggetti che guar ­dano, oggetti che potrebbero parlare:   gli oggetti della Morante   sono,   dunque,   amuleti.   Controllano   destini,   filano sorti, concentrano nel loro immobile esistere il mistero di cose che in apparenza si svolgono nel tempo. Nella realtà, come in un immenso amuleto, tutto è già contenuto: un’ora può durare più di dieci anni, il futuro è la proiezione di ciò che ignoriamo, e il tempo che misura i fatti dell’anima  è certo diverso da quello col quale siamo soliti regolare l’orario dei nostri pasti.

Dicono gli scienziati, dell’universo, ch’esso si racchiuda in un punto. Allo stesso modo la vita di un ragazzo, il giro di una generazione, la vicenda di una famiglia potrebbero trovare la chiave del loro destino se potessero interrogare tutte le cose che, mute, hanno assistito al loro passaggio. Così le ferite di Arturo si correlano a un orologio d’acciaio, con la scritta Amicus, e così la nevrosi dì Anna Massia, la protagonista di Menzogna e sortilegio, s’identifica ossessiva ­mente con un anello a due pietre, diamante e rubino. Quello che eccita la vocazione della Morante, del romanziere Elsa Morante, è la percezione di un secondo modo di durare delle cose, come se la vita potesse essere, insieme, eternamente perduta e eternamente viva. Come definirla, quest’eternità psichica, illusoria? Non è che questa menzogna, questo sor ­tilegio il modo di durare della realtà, vertiginosa e pacifica. Ed ecco, allo stesso modo per cui a uno scrittore proble ­matico, che si accanisca sui cruciverba, può accadere d’offrirci solo lo spettacolo della sua fissazione, così a un altro che svolga dei temi, può accadere l’inverso, che svolgendo il suo, svolga quello di tutti. Ma a questo punto l’eccezio ­nalità di Elsa Morante cesserebbe d’essere tecnica, renden ­domi difficili le parole. È che non riesco a dissociare l’im ­magine di Elsa Morante scrittore e poeta dall’immagine che ho di lei come persona fisica, vivente e contemporanea. Le due immagini si confondono, si sovrappongono. E so come sia difficile definire persone che quanto più s’esprimono, quanto più si manifestano, più lasciano trasparire, di se stesse, non la loro evidenza, ma il loro mistero. Persone dal facile approdo, ma di conquista impossibile. Simili a uni ­versi, si lasciano percorrere, esplorare da cima a fondo, ma non si lasciano conoscere. Simili a continenti, ci ricordano continuamente che non c’è continente che non sia un’isola. E poiché sono portate d’istinto a vivere secondo modi di sentire universali, si direbbe che ignorino, queste persone, la morte. Ma siccome ignorano la morte, così, a differenza della maggior parte dei viventi – la cui dotazione di conformismo è così sconcertante da stabilire dei compromessi perfino col nulla – si direbbe che ignorino anche il riposo, quella pace parassitaria della vita che chiamiamo maturità. Sono tutte vive, tutte infantili, le persone come Elsa Mo ­rante, e nella loro infanzia si portano addosso la croce di far parte non di un oggi, ma di un sempre. Così « in eterno ogni perla del mare ricopia la prima perla, e ogni rosa rico ­pia la prima rosa ».

(1963-1969)

 

 


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Bart