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LETTERATURA: I MAESTRI: L’isola Dolore

5 Novembre 2012

di Virgilio Lilli
[dal “Corriere della Sera”, domenica 13 luglio 1969]

Sono stato in viaggio, im ­mobile. Un viaggio che al ­meno un giorno nella vita tocca quasi a tutti. Un viag ­gio che trova pochi cronisti, che non incoraggia a tenere la penna fra le dita, a ordina ­re, a schematizzare, a selezio ­nare i pensieri. Per commen ­tare un simile viaggio occor ­re una notevole forza di vo ­lontà, non disgiunta da un certo cinismo verso se stessi e soprattutto da una vecchia abitudine professionale.

Sono stato in viaggio nella terra della malattia, ho varca ­to la frontiera della mia patria, la frontiera della salu ­te. L’ho attraversata di un colpo, senza passaporto, co ­me un « indesiderabile » im ­provvisamente buttato fuori da un paese dalla polizia. I visti sul passaporto, i docu ­menti li ho ricevuti semmai più tardi, dai medici: le loro diagnosi, le loro radiografie.

Eccomi, dunque, inviato spe ­ciale in una contrada terri ­bilmente seria, che non per ­mette un filo di retorica ma neanche la brutalità del repor ­tage dei soli fatti. In un viag ­gio simile i fatti non contano quasi nulla, contano solo le meditazioni e i loro riverberi generali capaci di illuminare zone fino ad oggi per noi oscure. Ho scritto alcune no ­te dal veicolo che mi ha trasportato supino attraverso que ­sto mondo odioso e fertile: dal mio letto d’ospedale.

Devo dire, di passaggio, che il mio biglietto di viaggio, cioè il mio male, non è stato gran cosa: uno di quei percorsi cir ­colari, andata e ritorno, « open », secondo la terminologia dei biglietti aerei: che danno la certezza del ritorno in pa ­tria entro un limite di tempo ragionevole, senza tuttavia fis ­sarne la data; un male di or ­dine meccanico, di quelli che comunque non risparmiano i dolori più severi del fisico.

La mia prima nota di que ­sto viaggio così austero e im ­pervio la dedico al dolore, al suo rovente paesaggio e al suo implacabile mutismo.

*

Il dolore, con la d maiu ­scola, è il dolore fisico. Que ­sta affermazione che a certi orecchi può avere un suono blasfemo è la prima lezione non conformista della malat ­tia. Quelli che in genere noi siamo soliti chiamare « i dolo ­ri della vita », estranei al ma ­le della carne, del sangue delle ossa, quelli non sono do ­lori, sono affanni, sono cordo ­glio, sono desolazione, sono sgomenti, ansie, angosce, di ­sperazioni e altro, ma non dolore. Il dolore è un fenomeno tangibile, un oggetto, una materia, oserei dire molecole, addirittura atomi che si disintegrano, in fissione: uno scoppio nucleare o qualcosa di simile, una esplosione di materia che libera energia- dolore.

Ho visto un giorno sulle ma ­cerie di un villaggio dell’Ana ­tolia raso al suolo dal terre ­moto una madre che stringe ­va fra le braccia un figlio di forse tre anni decapitato, pro ­prio col collo mozzo, sangui ­nolento, e urlava come una cagna sottola Luna, e nes ­suno osava avvicinarlesi, to ­glierle quel relitto di bambi ­no, carezzarla; donne, uomi ­ni la guardavano e piangeva ­no in coro. Ebbene, parago ­nato al dolore autentico e pro ­fondo del trigemino, o del ner ­vo sciatico, o della spina dorsale spezzata o che, neanche quello era dolore. Non c’era in esso quella paurosa, abis ­sale liberazione di energia che avviene nell’uomo fisico, den ­tro una zona del suo corpo isolata da tutto, solitaria e de ­finitivamente incomunicabile.

Ecco la parola: incomuni ­cabile. La caratteristica del do ­lore fisico, e cioè del dolore tout court, è la incomunicabilità. Direi anzi che la incomunicabilità si realizza solo nel fenomeno del dolore fisi ­co. Esso determina la soli ­tudine per eccellenza. Un uo ­mo che soffre un dolore fisico non può farne parte a nes ­suno, non può darne un as ­saggio, un sorso per così di ­re, neppure a sua madre; non v’è sulla Terra essere a lui il più vicino e il più intimo che, vedendolo torcersi e urlare di dolore, possa accoglierne una stilla, un milionesimo di gram ­mo, una sia pure infinitesi ­male vibrazione.

*

Il dolore fisico è il deserto; per chi lo subisce esso spopo ­la il mondo, d’un colpo. Noi possiamo sentire le fiamme di un incendio nella testa o in un occhio o nei reni o do ­vunque, e chi ci è vicino, co ­loro che ci sono ritti accosto al letto, che ci toccano, che ci carezzano, di quell’incendio non sentono nulla: essi sono lontani miliardi di miliardi di anni-luce dal nostro dolore, non esistono perché sono il non-dolore: un’altra galassia.

In quei momenti simili alla tempesta della guerra, alla catastrofe del terremoto, alla ro ­vina della valanga, alla furia dell’inondazione, allo scatena ­mento corale dei più impietosi tormenti dentro pochi cen ­timetri quadrati (o millime ­tri? o micron?) del nostro corpo, subito fuori di noi tut ­to è calmo, pacifico, normale. In quei momenti il dolore ha fatto per noi, attorno, un vacuum assoluto: non ci in ­teressa più nulla; l’amore, l’arte, la dignità, il dovere, il danaro, la famiglia, le voca ­zioni positive e negative, e il lavoro, e le amicizie, e gli odi: zero, tutto scomparso. Siamo soli, prigionieri del campo ma ­gnetico della singolarità per eccellenza, della individualità, della indivisibilità del dolore, nostro e solo nostro, che de ­limita il perimetro del nostro ego concreto, irraggiungibile dal resto degli uomini, e da essi remoto, come una stella.

E’ allora che nell’atmosfera incandescente della ultrasensi ­bilità solitaria del nostro es ­sere corporeo due soli concet ­ti si precisano convulsi nella nostra mente: il concetto di felicità e il concetto di Dio. L’uno e l’altro con lineamen ­ti semplici e perfino rozzi: felicità è l’assenza della sofferenza fisica e nient’altro; spetta solo a coloro che al di fuori di noi non sentono la sofferenza fisica, ne sono esclusi, ubicati oltre il suo rag ­gio devastatore. Che siano or ­fani da un’ora o vedovi da un giorno o condannati all’ergastolo o altro di terribile non ha importanza: sono felici perché si trovano al di là del ­la irradiazione della materia energia dolore (e non lo sanno).

Quanto a Dio, in forma convulsa ripeto, è colui che â— con l’ultimo filo di capacità di pensare â— riusciamo a sperare possa annientare il mo ­stro annidato nella tana del nostro corpo: e nello stesso tempo colui che accusiamo di averci abbandonato. Dio, in quei momenti, costituisce dun ­que la nostra estrema speran ­za e insieme la nostra estrema delusione: « Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Il di ­sperato grido di Cristo sulla croce è la stessa definizione del dolore fisico e della sua incalcolabile solitudine.

(Aggiungerei che, per la comprensione del dolore, ri ­mane un transfert mentale, tuttavia vano al momento in cui esso opera a pieno regi ­me: il pensiero che altri i qua ­li ci sono vicini lo abbiano già sperimentato sul loro cor ­po, a loro spese, nella stessa sfera solitaria: ma non è in realtà un aiuto, non è nulla di funzionale. In quel momen ­to che è esclusivamente no ­stro e non loro, essi « sanno » ma non « sentono »: non esi ­ste contiguità fra noi che soffriamo ed essi che soffri ­rono).

In queste note di « viaggio nella malattia », il dolore fisi ­co e la sua incomunicabilità rappresentano, per chi scrive, una scoperta. La scoperta che noi possiamo trasmettere un turbamento, un trauma, una ferita dello spirito, un lutto, una profonda tristezza, una disperazione di natura ideale; ma non le pene del corpo. E che quindi il vero inferno del nostro io, solo e inconsolabi ­le, è precisamente il nostro corpo. Si tratta, sempre per l’autore di queste righe, di una scoperta tutto sommato religiosa; di una riconferma al ­l’uomo dei valori appunto del ­lo spirito, .col suggerimento di attendere non senza serenità la fine della materia.


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