LETTERATURA: I MAESTRI: L’opera di Giuseppe Berto9 Giugno 2018 di Geno Pampaloni Una folla da grandi occasioni per la presen tazione del nuovo romanzo di Giuseppe Berto nella sede romana dell’Unione Italiana per il Progresso della Cultura. Una folla formata dì amici che avevano voglia di salutarlo dopo tan to tempo (vive ormai a Cortina d’Ampezzo dieci mesi all’anno, e gli altri due in un paesi no sconosciuto della Calabria), di estimatori e di sconosciuti che dopo aver letto i suoi libri desideravano vederlo di persona. A dire la ve rità non ha deluso l’attesa, perché il suo arri vo ha assunto la cadenza di una folata di ven to, un po’ alla maniera di certi scrittori legati ai fasti di un passato recente, che hanno bat tuto durante tutta la loro esistenza il sentie ro dell’avventura mondana. Agile, svelto, asciutto, con qualche filo bianco nei capelli e una sicurezza che ama proclamare insidiata dalle ombre tuttora sospese del suo famoso « male oscuro », non appena si è insediato con finta riluttanza dietro il tavolo, tutti gli sguar di si sono polarizzati su di lui. Con una inten sità che indicava come si fosse trasformata in simpatia immediata la curiosità dei pochi che avevano trovato posto nelle due salette di piazza Margana, e dei molti che cercavano di af facciarsi incalzati da sempre nuovi arrivati. Ha preso la parola per primo il dottor An tonio Ciampi, il quale nel presentare l’oratore della serata, il critico Geno Pampaloni, ha sot tolineato come Berto sia un esempio di scritto re veramente moderno, sganciato dalla remo ra delle ideologie, come è naturale in una sta gione che sta registrando il passaggio dalla fase dogmatica a quella tecnologica. Su questo concetto ha insistito con una esattezza termi nologica addirittura sorprendente, riprenden do certe proposte che oppongono al periodo storico delle classi, quello nuovo della società affluente, caratterizzata dall’interclassismo. Insomma, pur nella brevità concessa dai pochi minuti a disposizione, Ciampi ha fatto in ter mini garbati e bonari, non senza qualche ve natura sottile di humour, una lezione in minia tura di sociologia. Il che se ha divertito il pub blico, ha contemporaneamente stuzzicato il fondo moralistico e fiorentino di Geno Pam paloni, il quale ha esordito sostenendo una te si diametralmente opposta a quella di Ciampi. In sostanza, ha dichiarato il critico, da quan do Berto ha scoperto la « novità » della psica nalisi, è stato praticamente irretito da una specie di ideologia psicanalitica. E per esem plificare la sua tesi, ha cominciato una analisi sottile e penetrante di tutta l’opera narrativa dello scrittore di Mogliano, dal primo lavoro Il cielo è rosso al nuovo romanzo La cosa buffa mettendone in evidenza qualità e limiti, pregi e difetti. Soprattutto difetti, anche se i moduli che hanno sempre suggestionato il suo itinera rio narrativo sono stati Italo Svevo da una parte e Carlo Emilio Gadda dall’altra e la sto ria di Antonio alle prese con il suo primo amo re è di una dolcezza poetica rara. Che un pre sentatore abbia finalmente il coraggio di dire la verità, e scelga la via del confronto anzi ché quella più facile dell’elogio è pregio da non sottovalutare. E Berto a parole non ha manca to di farlo: tuttavia subito dopo ha comincialo a svolgere fra il serio ed il faceto la sua ar ringa difensionale, imperniata sulla tesi che la chiave psicanalitica va bene per il Male oscuro soltanto. Nella nuova opera al contra rio si viaggia nella selva dei sentimenti, per cui parlare di psicanalisi significa dare troppa importanza alla scrittura, allo stile che segue ancora gli schemi del discorso associativo. Nella foga del discorso, sempre chiamando in causa il suo medico-salvatore professor Perrotti, che stava in una delle prime sedie di de stra ma cercava di nascondersi, ha tracciato un diagramma della sua opera di scrittore, sostenendo che tutti i suoi romanzi erano delle estrinsecazioni inconscie di situazioni psicana litiche, citando una frase del poeta Umberto Saba che ormai ripete in ogni occasione. Insomma ne è venuto fuori uno scontro piutto sto serrato, al termine del quale Berto non ha esitato a formulare un invito al sogno, unica forza capace di farci accettare il peso della vi ta. A questo punto però dopo una breve e spi ritosa precisazione sul debito con Svevo (… Uno di questi giorni mi metterò a scrive re un’autobiografia di Svevo »…) si è lasciato scappare il nome Freud, e allora Pampaloni accendendosi di uno sguardo malizioso dietro le lenti, ha insinuato abilmente : « Ci risiamo, l’ideologia psicanalitica ». Colto di sorpresa Berto ha dovuto iniziare una lunga aggiunta, simile ai suoi periodi a cometa, per dirla con la felice immagine di Pampaloni, protestando: « Niente affatto. Se fosse vero i miei personaggi li farei guarire. Invece restano sempre malati, anche dopo la cura ». E quasi a cercare conferma in una au torità che non ammette smentite ha esclama to: « Vero, professore? ». Ma il professore Perrotti si è limitato a un sommesso mormorio, tipo monologo interiore, che nessuno del pub blico è riuscito ad afferrare. Nel frattempo le ore erano volate, e l’ombra scura della sera aveva assunto un colore cupo, per cui a malin cuore sono cominciati gli arrivederci. Festosis simi, tra uno sciamare di gente in mezzo alla quale spiccavano i volti di autorevoli rappre sentanti del mondo artistico culturale. Citarli sarebbe troppo lungo. Livio Rizza Temo proprio che gli orga nizzatori di questa sera ta abbiano avuto la ma no poco felice nella scelta del presentatore. E non soltanto per la sua insufficienza in sen so assoluto, ma perché proba bilmente il libro di Giuseppe Berto meritava un critico più congeniale, più vicino alle ra gioni della sua battaglia lette raria. Poiché la lettura critica, anche la più modesta come la mia di questa sera, è sempre confronto, pietra di paragone, occasione per affermare un certo tipo di credere nella vi ta, sarà bene che i miei pazien ti ascoltatori sappiano grosso modo qual è il tipo di tara che dev’essere fatta al mio giudi zio sul libro che stasera qui viene presentato. Io sono un letterato, come si dice, tradi zionale: e ho quindi ben po che possibilità di non essere catalogato tra quei critici i quali, secondo le parole dello scrittore che stasera è protago nista, passano gli anni ma « stanno sempre lì: ermetici puri, idealisti, cattolici, marxi sti, tutti ignoranti delle nuo ve semplici umane realtà ». Il « caso Berto », così come ap pare a me, è probabilmente assai dissimile da come Berto medesimo lo interpreta, e cre do anche, da parte sua, inac cettabile. Non sono, cioè, in alcuna misura un suo lettore autorizzato. Berto in persona, credo di averlo incontrato due o tre volte in tutto. La lunga crisi che egli ha attraversato, e che tanto rilievo ha nella sua vita di scrittore, non ho avuto modo di seguirla da vi cino. I libri che egli ha scrit to nella sua lunga e tribolata « età di mezzo » mi interessa vano perché lo scrittore Ber to è sempre generoso anche nell’errore o nell’esperimento meno felice, ma il suo marxi smo romantico teso verso un irraggiungibile realismo mi convinceva assai poco; e, devo confessarlo, con quel residuo di cinismo che è rimasto an che nei crociani minimi e ri tardatari quale sono io, mi di cevo che in fondo egli aveva scritto II cielo è rosso, e un posticino nella storia della let teratura del dopoguerra non glielo avrebbe levato nessuno. Su questo punto dovremo tor nare per un momento, più tar di, ma andiamo avanti. Quan do Berto ha incontrato la psi canalisi e se ne è fatta con entusiasmo una chiave per l’interpretazione della realtà, uno strumento di cultura oltre che di conoscenza (e, natural mente, per sua fortuna, di guarigione), io devo riconosce re che questo è stato un fatto decisivo nello sviluppo del suo lavoro di scrittore, ma, ai miei occhi, nella stessa misu ra in cui per un altro può ser vire un incontro mistico, o l’Ottocento americano, o il pensiero di Mao. Ancora una volta, crocianamente, non cre do nella ideologia privilegia ta, per uno scrittore. Berto era scrittore e poeta anche prima del suo incontro con la psica nalisi, anche se questa gli è servita a ringiovanire, per dir così a rinverginare il suo sen timento della realtà. Ma l’arco che esce limpido a chi, oggi, considera la sua opera, pog gia su II cielo è rosso e La cosa buffa, e si lascia indietro Il male oscuro come un’espe rienza necessaria ma artistica mente incompiuta. Questa è una delle mie tesi, e sono qua si certo che l’autore non è d’accordo. Sulla stessa geogra fia letteraria le nostre mappe non coincidono. Egli insiste molto sui nomi di Italo Svevo e Carlo Emilio Gadda, cui de ve, dice, la libertà di scrive re come gli pare; e in queste scelte, in questi amori, mi tro va assolutamente con lui. Ma io amo altrettanto un’altra fa miglia, meno laica forse, e tut tavia altrettanto radicata nel nostro travaglio linguistico, là dove la tradizione fa più resi stenza al sentimento fantasti co, la famiglia dei Palazzeschi e dei Landolfi. E infine, quan do leggo in un’intervista re cente che, secondo l’Autore, La cosa buffa è destinato non tanto ai giovani quanto a colo ro che devono assumersi re sponsabilità nella educazione dei giovani, genitori, educato ri, sacerdoti, professori; quan do mi accorgo cioè che Berto vuol forzare il delizioso mi nuetto di Antonio e Maria in una specie di manuale di de nuncia della cattiva educazio ne sessuale italiana, mi sem bra poco meno che Saturno nell’atto di divorare i suoi fi gli. Se La cosa buffa ha dono d’arte, e a mio giudizio ne ha, ciò a me sembra derivare pro prio dalle ragioni d’ordine op posto a quelle che egli lascia intendere in quell’infelice bat tuta. E cioè perché il roman zo coglie, e, sottoponendolo con affettuosa cautela al lava cro dell’ironia, salva per sem pre, quel sentimento irrime diabile di dedizione, di purez za, di confusione, di inappa gamento, di voglie e di dispe rata felicità che è proprio del la giovinezza e dell’amore. Io non so se, in una società di versa, migliore della nostra, popolata e plasmata da quegli educatori per i quali Berto di ce di avere scritto il suo ro manzo, ci sarà ancora posto per la tenerissima goffaggine di Antonio e Maria: e, sia chia ro, sono ben lungi dall’augurarmelo, ben lungi dall’assumerli come personaggi esem plari. Dico che sono veri così, dolenti, impacciati, infelici: rappresentati in una loro umanità profonda, di fronte alla quale sentiamo vibrare in noi una sorta di nostalgia, che va ben al di là di ciò che essi o la loro storia possano mai pretendere di insegnarci. Ecco dunque come i punti di frizione tra il fortunato autore de La cosa buffa e il suo recensore (pur compensa ti, da parte mia, da un costan te e profondo rispetto per lo scrittore e per l’uomo) siano parecchi. « Uno scrittore (egli scrisse in uno dei bei “Soprappensieri” che pubblica sul Resto del Carlino) uno scrittore, in un certo senso, è sempre con dannato a fare della propagan da a quelle che sono le sue convinzioni, le sue idee ». Sarà. Io non lo credo sempre. O almeno, credo che un criti co, per suo conto, sia condan nato a sceverare quanto di ve rità poetica è rimasto, nell’opera, delle convinzioni e delle idee di cui lo scrittore si è fat to propagandista. E del resto, visto dal mio angolo, il « caso Berto » si con figura come un continuo con trasto tra la sua passione ideo logica, la sua aggressiva ma niera interventista, e l’ispira zione poetica, la qualità d’ar te, che una parte della criti ca era disposta a riconoscer gli. Il « caso Berto » non è un caso di misconoscimento, ma se mai un caso di controcor rente tra critica e scrittore. Fin dal ’47, nella sua recensio ne a II cielo è rosso, Pietro Pancrazi aveva notato una di sparità, un contrasto tra mate ria e sentimento (noi direm mo: tra moventi dello scritto re e motivi della sua pagina) che rimarrà al fondo di tutto il lavoro del Berto. « Più la materia gli si intorbida », egli scriveva, « e più il sentimento dello scrittore si fa pietoso, tenero e infine straziante. Per i toni dell’arte il romanzo, che alle prime scene s’imposta quasi come una infernale macchina di guerra, subito dopo si scarica e si effonde con delicata tenerezza di un carillon. Il cielo è rosso è concreto e talvolta anche crudo romanzo, con tutto il peso della vita, ma disegnato in un alone sempre poetico, a tratti quasi dentro un’aria di canzone ». E’ un giudizio, questo del Pancrazi, che ci verrà buono anche per riferirlo a La cosa buffa. E il fatto è, per dirla in breve, che mentre il Berto (quali che fossero le sue motivazioni psicologiche di allora) aveva creduto di scrivere un romanzo neo-realista, del romanzo neo-realista forse addirittura inconsapevolmente aveva adoperato lo schema, lo sfondo, le macerie della città distrutta, i ladruncoli, le prostitute bambine, il povero codice d’onore di una gioventù senza guida e senza speranza, ciò che il critico definiva « la materia »; ma l’ispirazione profonda era lirica, effusiva, struggente. La vicenda era torbida, piena di violenza, dettata dal rancore oltre che dalla pietà, per la sorte dell’Italia, per l’ingiustizia radicale, assoluta, di una condizione umana di vinti, dispersi, umiliati cui i giovani erano abbandonati: ma il timbro era sommesso, creava risonanze delicate, il libro viveva di silenzi e di pudori, entro un paesaggio dolcissimo quanto più era ferito. La verità poetica, la costante stilistica de Il cielo è rosso consiste in una sorte di luce limpida che filtra tra le macerie, e fa lieve la materia più grave. Questo, pur in un contesto molto diverso, è anche il modulo stilistico de La cosa buffa, come vedremo. Allora, i suoi protagonisti erano figli del dopoguerra: immersi in un mondo turpe; ma erano immaginati dall’autore come attraverso un filtro di memoria, con la nostalgia dell’adolescenza di sempre, trepida, infelice, bisognosa di affetto. Berto si senti va allora, ha scritto di recente uno scrittore, « collettivista », il suo romanzo preten deva di essere corale, ma era una storia di solitudini, la sua vena era l’intimità, il racco ntarsi sui propri sentimenti, con la pena di vederli disper si in un mondo sconvolto. Nato come romanzo-denuncia, (o, come oggi l’autore ci rivela, come romanzo-espiazione) la sua nota più schietta era l’elegia: nato nel clima dei romanzi-documento, vibrava nelle sue pagine la nostalgia e l’abbandono verso l’assoluto. Naturalmente, il libro rimane singolare e importante proprio per questa sua dialettica interna, anche se non del tutto consapevole, tra realismo voluto e canto sotteso, tra testimonianza storico-drammatica e forza malinconica della fan tasia: perché poneva uno schema neorealistico e intimamen te se ne liberava. Ma, mentre alcuni, tra i lettori preferivano far battere piuttosto l’accento sul momento lirico, sul la grazia, sulla facoltà dello scrittore di illimpidire la «ma teria » del dopoguerra, Berto al contrario insisteva nell’ideo logia, e si buttava a capofitto dentro l’impegno sociale. I ri sultati dei libri successivi furono contraddittori, intermit tenti, per non dire delusivi. E capisco che a lui non faces se piacere sentirsi, per così dire, rinfacciare a ogni mo mento un libro per tanti aspet ti irripetibile. E tuttavia, per farla breve, e non addentrarci in un discorso tecnico, quella tensione lirica, teneramente psicologica e metafisica, che faceva l’incanto delle pagine più belle de Il cielo è rosso, corre più o meno sotterranea mente in tutti i suoi libri: si ricordi la giovine Miliella de Il Brigante, così consanguinea a tutte le figure femminili di Berto. Si ricordi soprattutto il bellissimo racconto « Necessi tà di morire », pubblicato nel la raccolta Un po’ di successo: mi permetto di leggerne un breve brano, ricordando che si tratta di un partigiano nella sua ultima notte di vita, accanto a una donna inviatagli per farlo « cantare »: « Ora tut ti quei motivi per i quali era necessario morire a vent’anni erano dentro di lui, condensa ti in una limpidità simile a quella del cielo del mattino, non pensiero e neppure senti mento, ma una specie di luce fissa nell’anima, una cosa così alta che assolveva da colpa anche coloro che stavano per ucciderlo ». Se proprio non m’inganno, in questo strenuo fantasticare, in questa « limpi dità », in questa « luce fissa nell’anima » c’è lo stesso sen timento straziato e puro di An tonio, il protagonista de La co sa buffa, di fronte alla vita. Con in meno, naturalmente, il risvolto dell’ironia, la maturi tà della saggezza. Il lavoro di Berto segue dunque, nonostan te tutti gli scossoni che via via ha subito, una sua sotter ranea continuità, una sua uni tà antica. Vogliamo con questo sotto valutare l’importanza de II male oscuro? Per nulla affatto, e sarebbe d’altro canto impossibile. Ma si tratta di un’im portanza più strumentale, tec nica, che poetica. Berto inven tava, sulla scia, forse, della confessione psicanalitica, il suo discorso associativo, a lar ghissime lasse sintattiche; af frontava la realtà con una nuo va consapevolezza, e, soprat tutto, imparava l’uso dell’iro nia come riequilibratore del giudizio: un’ironia non acre, poche volte pungente, ma con tinua, come un pedale in una suonata, felpata, nutrita più di tolleranza che di grottesco; e liberava i suoi umori di in dipendente, di estroverso in tellettuale, di affettuoso istin tivo, in una forma letteraria finalmente sciolta di cappi ideologici troppo oppressivi. Il male oscuro è un libro che io amo così e così. Ci sono due gruppi di pagine molto belle: quelle iniziali della morte del padre, e quelle dell’incontro con la ragazza-moglie, che an ticipano molto da vicino il ri tratto di Maria de La cosa buffa (è, anzi, sostanzialmente lo stesso personaggio). Ma, at torno a questi e ad altri nuclei autentici, che rimangono pe raltro isolati, il libro si costrui sce, si aggiusta, alimenta e am ministra una sorta di « propa ganda » di se stesso, adopera tutti gli ingredienti necessari per un’assoluta sincerità e al tempo stesso per garantirsi il successo; a metà tende a ricat tarci con i suoi mali, a metà tende a nous épater con la sua liberazione, e finisce con l’in golfarsi nella sua stessa ideo logia. Libera, per dirlo in una formula, la maniera di uno scrittore, non libera un perso naggio. E’ un libro, qua e là felicemente qua e là dolorosa mente, sperimentale. Stravin ce, e al tempo stesso rimane al palo. Il suo spirito anarchi co illanguidisce nel lieto fine, con il certificato di garanzia della scienza. E tuttavia era un libro necessario, senza del quale, probabilmente, Berto non avrebbe fatto più un pas so avanti. La cosa buffa è il passo avanti. E lo è, a mio giudizio, non soltanto perché mette a frutto tutte le acquisizioni, lin guistiche e psicologiche, con quistate nel lungo lavacro au tobiografico che è II male oscuro, è un passo avanti an che perché riprende, riconqui sta i temi lirici e lievi, l’aria di canzone, la delicata tenerez za di un carillon, che il Pancrazi aveva individuati così bene ne Il cielo è rosso. Devo supporre che qui tutti conoscano la gracile trama del romanzo: l’incontro di Anto nio, povero maestrucolo di campagna animato da qualche velleità letteraria, con Maria, studentessa, figlia ingenua e schietta di una odiosa famiglia di veneziani nuovi ricchi: il loro amore, che passa lenta mente e sistematicamente at traverso tutte le fasi tradizio nali, dai baci alle carezze ai palpeggiamenti più vari sono alle soglie del reciproco possesso senza perdere peraltro una sua tenerissima e casta lu ce d’innocenza; amore che è prima mal tollerato, poi av versato poi proibito e distrut to dalla famiglia di lei; la ri nuncia di Antonio che è insie me un prendere atto dei rap porti di forza nella società, un gesto autopunitivo e un istin to d’autoliberazione per un ri torno all’evasione nel sogno e alla nobiltà della sofferenza. E poi l’incontro di Antonio con Marica, con la quale le complicazioni nascono, al con trario, da un’eccessiva facilità sessuale, da una incapacità del la ragazza a sublimare i sen timenti amorosi. Sino a che Antonio non se ne torna alla sua scuoletta di campagna, po vero e bastonato dalla vita, ma in qualche modo meglio disposto a considerare la real tà per quello che è. Un protagonista inetto E’ stata da molti lettori sot tolineata l’affinità tra questo libro e il primo romanzo di Svevo, Una vita. In effetti il nostro Antonio è, come il pro tagonista sveviano, un « inet to »: sostituisce il sogno alla concretezza del vivere, e, poi ché gli è impossibile tenersi in equilibrio nel pericoloso vuoto del fantasticare, finisce non solo con l’essere un esclu so, un vinto, e quasi sempre ridicolmente, ma finisce anche con l’irretirsi in una gabbia sempre più fitta e inestricabi le di ambiguità. La sua natu ra inesauribilmente velleita ria fiorisce in una continua doppiezza emotiva. E non solo è infelice, ma perde di presti gio ai suoi stessi occhi, e come in un continuo processo di de calcomania, i contorni del l’eroe sfumano in quelli del miserabile. Per ritornare final mente libero nel suo mondo di sogno l’eroe sveviano deve uccidersi: « nella sua vita di sognatore, il sogno non lo ave va mai posseduto così intera mente », commenta lo Svevo la decisione del suo « inetto » al suicidio. Per sostenere plausibilmen te un personaggio di questo ti po, lo scrittore deve verificare di continuo, nelle occasioni più minute, le reazioni della sua personalità, che è sostenu ta, tenuta insieme, dalle sue stesse contraddizioni. I fatti si rifrangono continuamente ne gli umori, negli scatti, nelle intuizioni, nel timore della realtà, negli impulsi sublima tori, nei contraccolpi della me moria. Berto è molto bravo nel ricreare sulla pagina, vital mente, la vivacità di un simi le andirivieni della coscienza. Io non sarei d’accordo con quei critici che lo accusano di essersi costruita una maniera prima che uno stile. Il suo pe riodo io vorrei chiamarlo « a cometa », poiché fondamental mente è formato da un nucleo espositivo essenziale, con una coda più o meno folta di su bordinate, che, in apparenza scaruffate e talvolta contraddit torie, seguono tuttavia fedél mente la stessa direzione di marcia del primo dato, della proposizione che fa da « testa » della cometa. E’ un periodare di grande sapienza, soprattut to perché consente di convo gliare nelle sue spire i mate riali più sottili di analisi, e, insieme, di insinuarvi la co scienza ironica, il senno, del narratore. Esso dunque appa re come uno strumento ben funzionale all’ideale di roman zo psicologico che è proprio di Berto, e di cui lo stesso Ber to si dice debitore allo Svevo. Proprio a proposito di Una vi ta, Elio Vittorini trent’anni fa aveva così sottolineato la novi tà di quel romanzo rispetto agli schemi naturalistici: « I momenti psicologici si avve rano nel personaggio in forza di una spontanea causalità, e si succedono l’uno proceden dosi dall’altro senza mai esse re determinati da un divenire esterno o superiore… La (loro) personalità… la vediamo volta a volta trasformarsi, conden sarsi e stabilirsi momento per momento… ». Sono osservazioni che noi potremmo oggi adoperare pa ri pari per Berto (e spero che questo possa fargli piacere). Ma ne La cosa buffa non c’è, di rilevante, soltanto l’elemen to psicologico. C’è un elemen to musicale, e c’è un elemen to metapsicologico o addirit tura metafisico a cui il libro deve pure gran parte del suo fascino. Grazia settecentesca Lo psicologismo sveviano, la ricerca potremmo dire mo tivazionale, che è sempre un tessuto logico, conseguenziario, è mediato nel Berto, o al meno nei suoi momenti mi gliori, da una grazia settecen tesca e quasi goldoniana. Il paesaggio, una bellissima Ve nezia né oleografica né socio logica, i personaggi di fondo, le voci, entrano nel racconto come in una partitura musica le. E valga un solo esempio. Maria è salita nella cameretta d’affitto di Antonio disposta a dargli la prova definitiva del suo amore: sul tavolo sono i pacchetti dei suoi regali di ra gazza ricca. I due giovani. si sono mostrati le loro nudità con impaccio, innocenza e vo glia. La ragazza è sul letto che aspetta, il ragazzo si china su di lei. Ci siamo. La natura sta per averla vinta sulla cattiva educazione sessuale. Ma bussa no alla porta. La voce della padrona di casa, poi quella più volgare e perentoria della ma dre di Maria. Colpo di fulmi ne, sgomento, incertezza, rin filarsi dei pantaloni, qualche vano tentativo di parlamenta re, la porta si apre, Maria è an cora sul letto seminuda co me pietrificata. Urla, insulti, e castigo. Pensate agli elemen ti di volgarità, o anche di ri dicolo che compongono questa scena: pensate che cosa ne avrebbe tirato fuori uno scrit tore espressionista, giocando anche sui diversi livelli socia li. Ne La cosa buffa tutto que sto accade con la grazia lieve e canora di un balletto, dove le entrate sono regolate da un ritmo di allegro cantabile. Nel la loro misura, queste pagine sfiorano la perfezione. Ma, dopo aver percorso un po’ di strada insieme, separia moci ancora una volta dall’Autore. La parte felice del libro, quella più ricca di poesia, è costituita dai primi 15 capitoli, dalla storia di Antonio e Ma ria. In seguito il libro cala di tono: più si delinea la « filosofia » di Antonio, e meno ci interessa. Scivola verso la macchietta. Per riprendere una osserva zione fatta all’inizio, il mo vente prevale, nell’autore, sul motivo autentico della sua poesia. Che cos’è, allora, che ci dà il fascino della storia di Antonio e Maria, un fascino che, da soli, non riescono a spiegarlo né il modulo stilistico-psicologico né la grazia musicale del raccontare? Berto vuol dirci, nel suo ro manzo, che non esistono sen timenti semplici, univoci, che la psicologia ci ha insegnato a cercare in ogni moto dell’ani mo un risvolto, un impulso contraddittorio, un fatto com plesso. E sta bene. Ma, nello scrivere, si è incontrato con un grumo irriducibile, con una realtà poetica in qualche mo do resistente, con un nucleo addirittura metafisico, che può essere colto soltanto con un sentimento indistinto, lirico: ed è la giovinezza. Più egli analizza, smonta, ironizza, de mistifica gli atti dei suoi due protagonisti, i loro ritegni, i loro impacci, i piccoli inganni, le reticenze, le ipocrisie, gli egoismi e le smodate, un po’ ridicole generosità di adole scenti; e più, sotto questa materia storicizzata e lavorata a frammenti rigermina un sen timento unitario, un’illusione inafferrabile, « una luce fissa nell’anima », che è appunto la dedizione alla vita, la possibi lità di sbagliare senza mac chiarsi, il diritto sempre fru strato e sempre rinascente al la felicità. Questo sentimento struggen te e incorrotto, questa pervi cacia nel credere nella vita al di là delle sue lezioni, che era il tema de Il cielo è rosso, risuona anche nella sinuosa sintassi della sapienza che La cosa buffa intende esprimere. Al di là dei condizionamenti e del relativo, traduce in que ste pagine, contraddittorio e supremo, un valore: il valore, appunto, della giovinezza, di cui Berto è poeta, in parte in virtù della sua sapienza d’in dagine, in parte contro. Ecco tutto. Io non so se que sta lettura in chiave lirica del suo romanzo non deluderà ancora una volta l’autore. Ma oggi, tra noi, dire bene di un libro significa in genere così poco: si dice bene di tutti, e il giorno dopo ce ne siamo scor dati, e piangiamo sulla morte della letteratura. Berto è scrit tore troppo civile e simpatico per non capire che si è tenta to, qui, di parlare del suo li bro in modo tendenzioso, e leale.
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