LETTERATURA: I MAESTRI: Il priore di Barbiana7 Giugno 2018 di Geno Pampaloni Tra le cose essenziali che distinguono il laico dal cristiano c’è questa: per il laico, storicista, la carità, come tutto ciò che appartiene al mondo morale, è un’espressione della cultura; per il cristiano viceversa anche la cultura come tutto ciò che è « essere per gli altri », è strumento di cari tà. Di qui il pragmatismo, l’antintellettualismo, l’intolleranza per l’otium che spesso appa renta l’uomo religioso ai fana tismi più crudi, anche quando egli operi in una sfera di pu rissima e per ciò stesso aristo cratica intensità spirituale. La straordinaria dirittura di don Lorenzo Milani consisteva nell’aver fatto una simile scelta con piena e quasi provocato ria consapevolezza, [lui che proveniva da una famiglia di radicate e nobili tradizioni culturali (era pronipote di Domenico Comparetti, filologo principe, nipote di L. A. Milani, etruscologo illustre, figlio di un raffinato classicista)]. E sbaglierebbe perciò chi vedes se nel suo deliberato rifiuto del mondo borghese una scel ta di classe, invece di vederlo primariamente come un’opzio ne di carità. Si vantava di non avere mai letto un libro, dopo essere di venuto prete, se non ad alta voce insieme con i ragazzi della sua scuola. Insisteva su una teoria della lingua (i poveri hanno da dire più degli altri ma non sanno dirlo; la lingua come mezzo per esprimersi è l’unica cosa che si deve imparare dalla borghesia) che è demagogica se non la si consideri nella sua luce pastorale: difendere i poveri « da chi ha più parola ». Finì con lo sbattere la porta in faccia agli intellettuali, anche agli amici, libreschi e non chiari, cui non veniva mai in mente, dopo mangiato, a Barbiana, di lava re i piatti. Non si trattava di scatti di nervi, ma di una in transigenza così profondamente vissuta da divenire tiranni ca. A un prete amico che gli chiedeva consiglio sulle offer te dei fedeli per le Messe cele brate secondo l’intenzione dei singoli, rispose con una peren toria definizione di sé: « Io non vendo le mie singole pre stazioni, ma la mia vita inte ra a una comunità intera »; nel suo integralismo esisten ziale (che solo in via secon daria diventa dottrinario) sta il segreto e la luce della sua personalità. * Era entrato in seminario a vent’anni compiuti, nel ’43, e, inviato vice parroco a San Do nato di Calenzano, aveva su bito rivelato la sua vocazione di maestro dei poveri. La sua scuola serale, coraggiosamente realistica, antiumanistica, popolare anche nel senso di una rivendicazione di classe, inserita in una lucida diagnosi della crisi religiosa e istituzio nale della parrocchia, fece molto chiasso, specie dopo che il libro che ne riferiva le vi cende (Esperienze Pastorali, Firenze, 1958) fu definito « inopportuno » dal Sant’Uffi zio e ritirato dal commercio. Nel ’54 fu mandato priore a S. Andrea di Barbiana, un piccolissimo borgo montano di meno di cento anime sper duto tra i boschi del Mugel lo, senza strada e senza elettricità. Ma proprio in quel romitaggio seppe dare alla sua missione la dimensione « in tera » che gli era congeniale: la sua scuola post-elementare non fu più solo serale ma a tempo pieno, dalla mattina al la sera per i 365 giorni del l’anno. Una scuola ecceziona le, dove l’esercizio critico si fondava paradossalmente sul l’entusiasmo della cristianità, una scuola popolare che sol lecitava all’orgoglio di popolo. « Al posto dello spirito razio cinante (scrisse Giacomo Devoto), la volontà di sprofon dare in una disciplina, con una umiltà che non risulta da una sottrazione ma da una costru zione ». Barbiana fu un punto di ri ferimento per tutti i ribelli fe deli alla verità cristiana. Un penoso processo intentato al priore per una sua difesa pub blica degli obiettori di co scienza suscitò nuovi clamori ed equivoci. La stessa Chiesa diffidava di questo suo figlio eroicamente ostinato a crede re in lei. Dopo una prima as soluzione, la corte d’appello irrogò una condanna. Ma don Milani era morto da due an ni, nel ’66, logorato da una lunghissima malattia, che egli aveva affrontato (ancora il Devoto, non si potrebbe dire meglio) « da signore di razza, non per sangue ma per carat tere ». Un gruppo di Lettere è ora pubblicato, a cura di Miche le Gesualdi, dai « ragazzi di Barbiana » (Mondadori, pagg. 334, lire 1000). Il volume è filologicamente approssimati vo: del migliaio di lettere si nora raccolte, ne sono pub blicate 127, senza indicazione dei criteri di scelta; in molte pagine sono segnalati tagli ope rati per ragioni non rivelate. Ciò non toglie che esso risulti eccezionale, uno dei libri più forti, in assoluto, della reli giosità contemporanea. Mi li miterò a un solo tema: se e in che misura don Milani, pre te rivoluzionario nei confronti della scuola, del «sistema » e della Chiesa, appartenga alla Contestazione. E anticiperò la mia risposta: come cadde in equivoco chi, nella Chiesa, volle ridurlo al silenzio, così sarebbe in giusto verso di lui chi inten desse strumentalizzarlo politi camente. Non c’è dubbio che, secondo la nostra terminolo gia, egli deve considerarsi « a sinistra » (i suoi migliori al lievi si avviarono al sindaca lismo); ma di fronte alla sua rocciosa volontà di bene è la nostra terminologia a rivelar si inadempiente. * Non in lui c’è traccia di eresia, di modernismo, di ten tazioni scismatiche, di dubbio dottrinario. Era un contesta tore pastorale, socratico, un contestatore positivo. Più vi cino alla famiglia dei don Ze no, dei Péguy (nettamente péguyano è il disagio per ogni egualitarismo e universalismo, e il legame carnale, inestirpa bile, con la comunità e la ter ra dove Dio lo ha destinato: « Amo i miei parrocchiani più che la Chiesa »), o addirittura alla famiglia dei Giuliotti, che a quella dei don Mazzi e de gli olandesi; più vicino cioè ai cattolici eroici, profetici che ai riformisti. Predicava ai suoi poveri che « l’obbedienza non è una vir tù », ma per sé riserbava una obbedienza totale, non cieca ma « muta », « da cane fede le ». Malcompreso e umiliato dalla Gerarchia, con una sor tita disperata e sublime ne at tribuiva la responsabilità a co loro che non avevano a suffi cienza « informato » il suo ve scovo; in ciò intuendo per em blema nella crisi della Chiesa, al di là della decrepitezza dell’aggiornamento culturale, una colpa di connivenza, di non libertà rispetto alla cultura cor rente. Nel campo morale era il con trario di un « facilista » d’og gidì; austero, severo, puritano; non sopportava nulla, né giuo chi né canzoni né sigarette. Aveva un senso religioso del tempo, e non ne ammetteva lo spreco; odiava la « ricreazio ne » come ogni lusinga non vi rile che incrinasse l’impegno, e non stette molto a buttare fuori dalla porta della parroc chia anche l’innocente ping-pong. Nessuna concessione nel campo sessuale; come un pa dre all’antica, non tollerava questo tipo di « conoscenza ». Ci sono espressioni di gen tilezza toccante per una ragaz zina andata a Londra a stu diare la lingua: « Se c’è gio vanotti che ti riaccompagna no a casa (dalla scuola) non ci andare »; la farà tornare in aereo « per non farla stare due giorni strasciconi nei treni da sola ». Dottrinalmente, come a un parroco qualunque, gli basta vano i dieci comandamenti e il catechismo diocesano da 75 lire. E ai ragazzi in viaggio non mancava di raccomanda re « messa confessione comu nione ». Anche sul piano politico, la sua indipendenza era integra. Il libro si apre con una stu penda lettera al comunista Pi petta: il voto del 18 aprile, gli dice, ha sconfitto insieme con i torti anche le ragioni dei co munisti (« tra te e i ricchi sarai sempre te povero ad aver ragione »); ma « quando non avrai più fame né sete, ricor datene Pipetta, quel giorno ti tradirò », perché compito ul timo del prete è dare l’« al tro » Pane. Nella lettera, ai giudici del tribunale individua sottilmente la posizione cristia na continuamente rinnovatrice « tra il passato e il futuro »: difesa della legalità in quanto la legge è « la forza del debo le », lotta per mutare la legge in quanto essa è « sopruso del forte ». Era infine del tutto estraneo alla teologia negativa, al cat tolicesimo « secolarizzato »: la sua fede rimase ferma ad ogni prova, il suo linguaggio era fondato su valori e simboli semplici e tradizionali, e Dio è ben vivo nella sua parola. « Se dicessi che credo in Dio direi troppo poco perché gli voglio bene ». Questo prete « sovversivo » credeva che i giovani da lui educati alla li bertà sarebbero tornati un giorno o l’altro alla Chiesa, « là dove (dirà con parola vetero-liturgica) si assolvono i peccati ». « E’ inutile che tu ti bachi il cervello alla ricer ca di Dio o non Dio. Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche diecine di creature, troverai Dio come premio ». Raramente la carità ha tratto dalla fede e dalla speranza parole più sofferte e più alte.
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