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LETTERATURA: I MAESTRI: L’orologio giapponese

1 Maggio 2018

di Mosca
[dal “Corriere della Sera”, marted’ 13 gennaio 1970]

C’è a Milano un orologiaio che a forza di viver nel tempo scandito dal ticchettìo simultaneo dei suoi mille orologi è come ne vivesse fuori, libero dal conto degli anni e dei secoli, orologi nuovi, vecchi ed antichi, quale lento, quale frettoloso, quale grave, quale arguto, quale aspro, quale dolce, come il sabato santo a Roma, quando si sciolgono le campane delle millecento chie ­se, ciascuna d’età e di suono diversi, ne risulta un ronzio come d’ali, un gigantesco in ­setto a cavallo del quale si può giungere nelle silenziose regio ­ni del tempo nel quale d’altro orologio l’uomo non dispone ­va se non della clessidra e della meridiana, le ore scorre ­vano come sabbia o s’allunga ­vano come ombre, e il monaco Rodolfo stupì tutti con la sua meridiana lunare che segnala le ore degli spettri e dei vam ­piri.

Che età abbia, quest’orolo ­giaio, è impossibile stabilire. Può essere giovane, può esse ­re vecchio, ha mani lunghissi ­me, superate solo da quelle di Robert, il suo lavorante sviz ­zero, sempre insanguinate. Una Vanità di bronzo si guar ­da allo specchio, e sotto il quadrante è inciso: « Fugit irreparabile tempus ». Sotto un altro, « Memento homo », sotto un altro « Ruit hora » e la falce del Tempo accompa ­gna i secondi. « Chi li compra, questi orologi? ». « Sono ri ­cercatissimi. No, non da vec ­chi, ma da giovani che quanto più pieni di vita tanto più amoreggiano con la morte ». Un Don Chisciotte contro un mulino a vento le cui pale, nello spazio di un’ora, com ­piono un giro intero. Il negro, il cinese, l’acquaiolo napoleta ­no che ritto sul quadrante, sembra, pur con la mano por ­tata alla bocca per il festoso richiamo, un monumento fu ­nebre. La biga, la Morte, il tempietto, la panoplia, Arlec ­chino, i Re Magi, questi ultimi evocanti i grandi orologi mec ­canici delle cattedrali con i Mesi, gli Apostoli, i Segni del ­lo Zodiaco.

*

Ora vorrei chiedere se dopo le imprese di Armstrong e Conrad vi sia ancora chi com ­peri, come fossero misteriosi, gli orologi con le fasi della Luna, ma l’orologiaio è assor ­to, rapito, remoto. Inutile chiamarlo. Con la mano in ­sanguinata l’aiutante svizzero mi fa segno di non disturbar ­lo. « Tornerà ». « Dov’è anda ­to? ». Non si sa. Sentiremo il racconto al ritorno. E’ seduto in una poltrona di velluto ver ­de, porta in capo un cappello da viaggiatore, porge l’orec ­chio a una pendola inglese del ‘600, di legno tarlato. Sorride dello stesso piacere del bevitore che abbia fatto saltare il tappo di un’antichissima bot ­tiglia.

Al ritorno, mi spiega. « Se anche il liquore si scolorisca fino a sembrare acqua appena tinta, la bottiglia conserva il fuoco e il sapore dell’attimo in cui venne sigillata. Nelle cantine del marchese Antinori ho bevuto cognac dell’anno in cui nacque Napoleone, co ­me un’acqua nella quale per un attimo fosse stato immerso un topazio, ma l’aroma e l’ar ­dore gli stessi, intatti, sembra ­va di respirare l’aria, di toc ­care la terra, di scaldarsi al sole di quel giorno. Un viaggio nel tempo che solo i buongu ­stai e gli orologiai si possono permettere. Questa pendola si fermò intorno al 1685, quando Newton stava scrivendo i ‘Philosophiae naturalis prin ­cipia mathematica’ e non venne più caricata. Giacque fino a due anni or sono, quan ­do la comprai da una vecchia ignorante, in un solaio di Grantham, nella contea di Lincoln.

« Io alterno lo stappare an ­tiche bottiglie col ricaricare orologi fermi da tempo imme ­morabile, i quali, rimettendosi a battere, segnano non già le ore presenti, ma le trascorse che avrebbero dovuto segnare e non segnarono, risuscitando così tempi che credevamo per ­duti e sono invece ancora tutti da vivere, conservati nell’in ­terno d’una pendola di legno. Vuole venire con me? ». Mi fece posto al suo fianco, nel ­l’ampia poltrona. « Ascolti il battito ». Ci trovammo in un campo della contea di Lincoln, quasi tutto coltivato a prato, un’erba tenera e chiara, come d’aprile, si era invece nel cuore dell’autunno. Il prato, immenso, era sparso delle macchie scure di gruppi d’alberi, fra i quali un boschetto di meli. Si udiva il tonfo delle mele che cadevano. Ad uno seguì un grido. Corremmo. Isacco Newton si stava fregando il ­capo. Tre o quattro contadini lo attorniavano ridendo. «  S’è fatto male? ».

« No, grazie. Fortunatamente non m’ero tolto la parrucca. Solo un leggero stordimento. Ma in compenso… » e subito tacque, come temendo di ri ­velare cosa che doveva restar segreta. « Sappiamo, sappia ­mo ». Ci guardò stupito. Fug ­gimmo come ragazzi, senza curarci dei ruscelli che attraversavano il prato.

Tornammo in bottega ba ­gnati fradici, pieni ancora gli occhi di tutto quel verde, e sentimmo il canto del gallo, vicinissimo, così da farci con ­fondere la bottega col prato e il gallo agitava le ali e cer ­cava di liberarsi dalla stretta delle mani ferme di Robert, l’aiutante svizzero. Di là dal bancone era, in attesa, un vec ­chio dall’aspetto di contadino. « Vengono dalla campagna, pur in questa ch’è la più bella e più importante via di Mila ­no, a far riparare i galli gua ­sti » mi sussurrò all’orecchio l’orologiaio. « Perciò quelle mani insanguinate? ». « Appunto ».

*

Il contadino aspettava tran ­quillo, sicuro d’aver affidato il gallo in buone mani. Non v’è mai occorso, stando in cam ­pagna, di sentire un gallo can ­tare, anziché all’alba precisa, verso le due del mattino, verso le dieci? Nel primo caso anticipa, nel secondo ritarda. I contadini, ingannati, s’alza ­no o troppo presto o troppo tardi, e recandosi al lavoro ad ore sbagliate compromettono il raccolto. Non c’è che pren ­dere il gallo e farlo riparare dall’aiutante svizzero, l’unico al mondo capace di queste operazioni. I galli sono come orologi. Hanno nell’interno meccanismi delicatissimi, rotelline di metallo pregiato e pietre dure.

La lente incastrata nell’oc ­chio, Robert frugò nella feri ­ta con un paio di sottilissime pinze, si udì un clic, « Ecco fatto, domani mattina an ­drà bene. S’era inceppata la molla ». La bottega ha una porta che, aprendosi, fa suo ­nare un carillon. « Ruit hora ». Entrò un bambino con una rondine. Le rondini, com’è no ­to, allorché il tempo si mette al brutto s’abbassano fino qua ­si a radere il suolo, e qualche volta lo radono davvero fe ­rendosi il petto. Questa che il bambino recava nelle mani messe a nido, o perché si fos ­se ferito il petto, o per altro motivo, s’era guastata, e vola ­va basso allorché il tempo si metteva al bello.

Il meccanismo delle rondi ­ni è molto più delicato che non quello dei galli, e la fe ­rita, se non si è bravissimi, può riuscire mortale. Robert operò con un bisturi quasi invisibile, buono solo per ron ­dini. L’uccello stava immobi ­le, fiducioso. Il bambino guar ­dava la Vanità che si mira allo specchio, il Vecchio che agita la falce e un orologio giapponese nel quale il giorno e la notte sono divisi ciascuno in sei parti che continuamen ­te, per il variare delle stagio ­ni, bisogna qui restringere, là dilatare. Le pinze di Robert estrassero il bilanciere, che nelle rondini è d’oro. Rotto. Da cambiare. Il bambino, che aveva già indovinato il segre ­to, girava il perno dell’orolo ­gio giapponese per allungarne il giorno, come bisogna fare ogni mattina a partire dal ventidue di dicembre. Nel passi ­vo dell’orologiaio figurano tre milioni l’anno per bilancieri di rondini. Robert introdusse quello nuovo, la rondine che pareva spenta si rianimò, me l’accostò all’orecchio, sentii il tictac. « Tieni, s’abbassa di nuovo al momento giusto, quando sull’asfalto stanno per cadere le prime grosse gocce ».

Il bambino, pur felice, fati ­cava a staccarsi dall’orologio giapponese, del quale, girando e rigirando il perno, aveva an ­ticipato la primavera, e si go ­deva, così, di pieno inverno, un suo meraviglioso sole di marzo, del quale noi non sen ­tivamo il calore, ma lo splen ­dore aveva invaso la bottega, Don Chisciotte, muovendo all’assalto del mulino a vento, pareva d’oro.

 


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Bart