di Camillo Pellizzi
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 2 febbraio 1970]
Come una buriana preannunciante una primavera pre coce e avventurosa, ha inva so la mia solitudine Lucrezio, Della natura, nella nuova edizione sansoniana, tradotto e curato da Enzio Cetrangolo. Pareva che le carte volassero dallo scrittoio, e i libri di va ria sociologia compostamente allineati sugli scaffali si stem perassero nella tormenta. «Proprio a me doveva capi tare – brontolavo mental mente senza staccar l’occhio da quelle nitide pagine – di parlare di questo libro per tanti lettori?… Non sono di famiglia, non sono addetto a questi lavori!… ».
Ma intanto ero imprigiona to nella lettura e arrivai fino in fondo, come succede coi romanzi gialli (ad altri, non a me, che comincio dalle ul time pagine e poi non leggo il resto). Dopo, non la fini vo più di ritornare qui e là e là, per queste varie mi gliaia di versi, ammirando la forza e l’audacia del tradut tore nel fare italiana questa poesia, che è probabilmente la più difficile poesia latina, e, nei tratti migliori, la più alta.
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Nella prefazione all’opera, B. Farrington, dell’Università di Swansea, ricapitola il pen siero di Lucrezio, e di Demo crito e massimamente Epicu ro suoi maestri. Le sole cose eterne sono gli atomi e il vuoto: gli atomi hanno tre soli at tributi: forma, ordine e posi zione; il vuoto è universale e assoluto, dove non siano ato mi. « Tutti gli oggetti del mon do percettibile sono combina zioni di atomi… Ogni cosa composta, inclusi noi stessi, le nostre anime e il mondo in cui viviamo, ha avuto origine dalla composizione di atomi e un giorno tornerà a dissolver si negli atomi di cui è com posta… ».
Epicuro, in modo particola re, si preoccupò di salvare le libere scelte di quel fenomeno « che si pone dei fini », os sia l’uomo, e immaginò che certi atomi, certe volte, potessero deflettere un tantino dal loro flusso fatale nel tut to. Lo scientismo ottocentesco europeo inorridiva alla sola idea di questo libertinaggio atomico, ma esso era servito a Epicuro per fondare « scien tificamente » ciò che a lui e a Lucrezio, premeva di più, cioè la teoria per cui l’uomo è libero di non perseguire beni ed onori oltre il piccolo ne cessario; di non farsi travolgere dalle passioni del sen so e dell’animo (addirittura si suggerisce per evitare il peggio il ricorso ad amori venali): di non temere la morte (perché il non-esistere non può essere un male); di non credere agli dei falsi e bugiardi, fabbricazione dei sa cerdoti al servizio delle oli garchie; e soprattutto di non accedere alle loro crudeli in giunzioni (il sacrificio di Ifia-nassa rimane alle origini eterne del grido: tantum religio potuit suadere malorum). E’ consentito agli epicurei il pen siero, e il culto, di divinità impassibili, immateriali, eterne e, perciò, non amiche o nemiche. Ma è raccomandato soprattutto di coltivare i due massimi beni che escludono la passione, ossia la serenità e l’amicizia.
L’atomismo appassionato e polemico di questi precursori di ciò che oggi (con le ci glia inarcate) chiamiamo « la scienza » mi porta sempre a fiore della memoria una delle più delicate reminiscenze di vita inglese. Un collega da poco assunto nell’Università di Cambridge e la sua giovane moglie erano invitati ad una cena accademica, dove un professore anziano si incari cava di illustrare alla graziosa ospite la personalità dei per sonaggi più illustri, via via che prendevano posto alla ta vola. A un certo punto il ci cerone bisbigliò: « Il signore che entra ora è Lord Rutherford, l’uomo che ha spezzato l’atomo ». Dall’altra parte del tavolo il mio collega rabbrividì trasentendo la sua candi da sposa che chiedeva di ri mando: « E questa, era una cosa giusta da fare? ».
L’episodio è di molti anni fa; la signora era stata edu cata in una tradizionale e si gnorile casa di campagna, e l’intensa divulgazione scien tifica odierna era di là da ve nire. Inoltre, il verbo to split, (spezzare, dividere), nell’in glese garbato aveva per solito una connotazione peggiorati va: guai a chi osasse di split the infinitive, ossia inserire qualunque parola fra un ver bo all’infinito e la sua parti cella to! E lord Rutherford aveva osato to split the atom!…
Il Farrington crede che la teoria atomistica (con riferi mento a Lucrezio) sia stata ripresa « in epoca moderna da uomini come Newton e Dalton ». Vorrei lasciare la questione ai fisici. Molte vol te la scienza riprende una pa rola, ma non del tutto l’idea; oppure si abbandona la pa rola quando appare superfluo il concetto. Così si abbandonò la parola « flogisto », che avrebbe dovuto essere la so-stanza del fuoco, quando i chimici dimostrarono che non serviva a niente, e descrissero il fuoco in termini di « even to », ossia un determinato processo di trasformazione della materia. E la materia stessa, già tre secoli addietro, il Locke la vedeva come una parola che non riempie nessun vuoto di significato nel di scorso scientifico: dunque, se ne può fare a meno. Se il no stro secolo ha spezzato l’ato mo, ossia ciò che veniva posto come indivisibile per defini zione, può anche essere che sia cominciata l’apocalisse: per mano dell’uomo.
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Non sembra casuale che il poema di Lucrezio si conclu da con la descrizione della peste, ripresa da Tucidide. E’ difficile qui non ricordare il Decamerone, che con la peste comincia e quasi ne trae oc casione storica e giustificazio ne etica; e i Promessi sposi, che attraverso un’altra pesti lenza raggiungono l’acme del dramma e la catarsi. E’ stato detto che il De rerum natura è il primo capolavoro, in or dine di tempo, della poesia la tina (di Ennio si può dir po co, perché poco si è salvato). Non solo dunque dal dolore « comincia e nasce » la no stra poesia, come lamentava il poeta, ma si direbbe che questo corale strazio delle epi demie fornisca occasione e sostanza alle nostre grandi riprese.
Certo, le tappe della vita spirituale italiana sembrano segnate da quella « divina ma linconia » che ritroviamo, co sì variamente atteggiata, in Lucrezio e in Boccaccio, in Leopardi e in Manzoni, per dire solo di questi. Se si con ceda il paradosso, certi passi di Lucrezio sono irresistibil mente « leopardiani » (« Po trei non sapere del mondo le origini, / ma dai segni del cie lo e da molte cose create / io sono certo che il mondo non è fatto per noi: / tanto è forte il male… » II, 176 – 180). E « leopardiana » è la musa di questo coraggioso traduttore, nel rendere vivo e mordente per noi questo difficile testo. Si leggono pagine e pagine di una « scienza » che il pensie ro ha lasciato in così larga mi sura dietro di sé; ma la pas sione intellettuale di Lucrezio risuona subito in noi come nostra, e ci accompagna fino alla fine. Il vasto poema ci ap pare epico anche nel senso che oggi diamo a questa pa rola. (I sociologi, nella mia libreria, rabbrividiscono a questo vento ancora furioso, che per due millenni ha infu riato… Forse dovremo anche tornare alla poesia).
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