LETTERATURA: I MAESTRI: Machiavelli è qui con noi
21 Febbraio 2009
di Alfredo Todisco
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 9 gennaio 1969]
In vista del cinquecentenario della nascita di Machiavel Âli l’editrice Sansoni ha sfornato, molto per tempo, un penetrante saggio di Ugo Spirito sul segretario fiorentino (Ma Âchiavelli Guicciardini, ed. Sansoni, pp. 196, L. 1200). Primi segni di un interesse che l’occasione celebrativa infittirà particolarmente intorno ad un per Âsonaggio con cui non si finisce mai di rifare i conti. Dopo cinque secoli di storia, Machiavelli esce fresco come una rosa. I suoi temi ancora oggi ci riguardano da vicino.
Ciò che lo rende cosi moder Âno e attuale è il modo rivoluzionario con cui ha impostato il problema morale: o meglio il problema del rapporto fra mo Ârale e politica, al quale gli avvenimenti della vita d’oggi non fanno che richiamare – dal Viet Nam ai fatti di Cecoslo Âvacchia – la nostra inquieta coscienza.
Non si capisce il nòcciolo di Machiavelli, se non si guarda il suo pensiero sullo sfondo culturale contro cui emerse, quel Âlo del Medio Evo, rigidamente fondato sul dualismo di « città celeste » e di « città terrestre », e sulla convinzione che il vero bene, esistente in un assoluto fuori della storia, non è e non si può neanche realizzare in questo mondo: che è il regno dell’errore, del contingente, del corruttibile.
Machiavelli, compenetrato del Âlo spirito rinascimentale che sposta l’attenzione dal cielo al Âla terra, parte dal rifiuto di questa fede che rinvia il rag Âgiungimento del bene nell’al di là : è persuaso che il bene gli uomini possono realizzarlo nel Âl’al di qua, nel mondo, in questa vita. Si tratta di un capo Âvolgimento che segna il passag Âgio all’età moderna (si potrebbe anche chiamarla l’età mon Âdana nella quale oggi siamo immersi fino al collo) e che porta necessariamente alla re Âvisione radicale del concetto di morale del Medio Evo, stretta Âmente legato alla trascendenza.
Se, infatti, si crede nella « città celeste », nel bene fuori della storia, ne consegue che i fatti di questo mondo, in sé relativi e contingenti, non possono in alcun modo fornire la misura dei veri valori. Secondo questa fede, morale è il com Âportamento che, in vista del cielo, osserva la parola di dio, indipendentemente dagli effetti positivi o negativi che seguono nella realtà pratica. In questo ordine di idee, ciò che conta non è il risultato ma l’inten Âsione. E ciò significa che uno può fallire nel mondo tempo Ârale, ma, se la sua azione ha rispettato la legge divina, il fallimento non lo tocca: egli è salvo e con lui il vero valore che vive fuori della storia.
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In Machiavelli tutto questo schema entra in crisi. Da uomo rinascimentale, il bene nell’al di là non lo interessa. Pervaso da spirito prometeico, crede che l’uomo abbia in sé la ca Âpacità di attuare il bene nel mondo, nella storia. Si resta fuori dal vero animus del se Âgretario fiorentino se non se ne coglie questa intensa ispira Âzione « operativa », la quale, at Âtraverso una serie di modificazioni, trionfa più che mai nel nostro tempo. Machiavelli è mondano, è concreto. Lascia da parte la preoccupazione della « città celeste » e mette al suo posto quella della « città terre Âna »: che significa lo stato. Il sommo bene per lo scrittore del Principe si identifica con la salute della repubblica: atteg Âgiamento con cui egli ritrova l’eredità classica.
La rivoluzione della morale in Machiavelli è strettamente legata a questa profonda riva Âlutazione del mondo. Se in ter Âra può attuarsi la realtà del bene sommo, indicato nella pro Âsperità della patria, l’uomo de Âve dedicare tutte le sue energie al buon successo di questo fine. Ma ciò significa spostare il metro di valutazione del com Âportamento etico dall’intenzio Âne al risultato. Dalla sua con Âcezione « immanente » dei va Âlori, Machiavelli è portato a non prestare alcun credito alle pie intenzioni, delle quali egli sa che è lastricata la via del Âl’inferno. Per lui, così proteso all’avvento del bene in terra, morale è il comportamento che concorre ad attuare questo fine supremo; mentre una morale che non si realizza nella storia e nel mondo è qualcosa di astratto che, a rigore, non è neanche morale.
Non si capisce nulla di Ma Âchiavelli se non si sente scor Ârere in lui la passione del bene concreto, al cui successo tutto deve subordinarsi. E’ l’urgenza di veder realizzato l’ideale nel mondo che porta il segretario a valutare l’azione dell’uomo in funzione del risultato. Su Âperato il dualismo di « città celeste » e di « città terrestre », Machiavelli pone l’unità di in Âtenzione e risultato. Il dovere è realizzare il sommo bene nel mondo, non fuori del mondo: con tutti i mezzi, anche con quelli « cattivi ».
Sì, perché nella misura in cui servono a promuovere il sommo bene in terra, i mezzi cattivi vengono trasvalutati. Questo atteggiamento, sintetiz Âzato nella celebre formula del « fine che giustifica i mezzi », scende per direttissima dalla dissoluzione della concezione dualistica del mondo che pone il bene in cielo e il male in terra. Se la città celeste deve incarnarsi nella città terrena (se l’ordine di dio deve diven Âtare l’ordine dello stato) allo Âra bene e male non possono più stare nettamente divisi: devono scontrarsi in una lotta frontale.
Che l’obbiettivo di realizzare il fine buono nel mondo porti a ricorrere anche ai mezzi cat Âtivi, deriva dal fatto che gli uomini non sono «tutti buo Âni ». I malvagi non si possono sgominare con un giglio: se si vuole veramente toglierli di mezzo e realizzare il bene in terra, occorre combatterli usan Âdo le loro stesse armi, senza esclusione di colpi. « O si ac Âcetta questa logica – scrive Spirito – o si resta impotenti di fronte alla spregiudicatezza dei furfanti e si è responsabili del loro trionfo. Chi ha paura di sporcarsi le mani, lascia sporcare il mondo ».
Il merito di Machiavelli, che è stato scambiato per cinismo, è quello di aver posto il dilem Âma in termini così crudi ed espliciti. Un dilemma che dopo quattro secoli di meditazioni risorge sempre drammatica Âmente dalla rinnovata espe Ârienza politica. O saper operare contro la carità e imbrancarsi coi malvagi per giungere al be Âne, o lasciare che i malvagi vin Âcano e istaurino il regno del male. Questo aut aut non può essere avvertito così radical Âmente se non quando la vita dell’uomo cessa di trascorrere in funzione dell’al di là , e si volge a considerare questo mon Âdo come l’unico mondo reale; se non quando dal dualismo si passa al monismo, dalla visione trascendente a quella imma Ânente della realtà .
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Nella misura in cui Machia Âvelli sviluppa fino alle estreme conseguenze il significato di ta Âle svolta, che segna il trapasso all’Evo in cui siamo ancora immersi fino al collo, il suo pensiero continua a vivere nel Âla sua possente modernità . Dal Cinquecento in qua, la logica del fine buono che giustifica i mezzi per attuarlo, domina il mondo: e al giorno d’oggi trion Âfa più che mai. I bombarda Âmenti sul Viet Nam del nord da una parte, l’invasione della Cecoslovacchia dall’altra, che tanto hanno agitato la coscienza contemporanea, riproducono, sia pure in modo diverso, lo schema machiavellico. La scena contemporanea è dominata dall’atteggiamento di due super potenze rivali, ciascuna delle quali, convinta di rappresen Âtare il « sommo bene », non esita a difenderlo – quando sia in gioco la sua sicurezza – con qualsiasi mezzo o compromesso.
Senza implicare alcuna equiparazione tra i loro rispettivi sistemi, Russia e America si fronteggiano con la convinzione che l’altra parte rappresenti il male: e che dal male ci si deve proteggere a tutti i costi. Per entrambe vale la logica machia Âvelliana secondo cui non si può disarmare davanti al male « per paura di sporcarsi le mani », perché il male vincerebbe la partita finale e il sommo bene sarebbe perduto per sempre. Scrive Machiavelli nel capito Âlo XV del Principe: « Perché un uomo (o uno stato) che vo Âglia fare in tutte le parti pro Âfessione di buono, conviene ro Âvini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità ».
A quasi cinque secoli dalla sua formulazione, la morale di Machiavelli continua a sotten Âdere la situazione reale in cui si muove il mondo d’oggi. Ma non viene riconosciuta. Ogni volta che un « principe » usa un mezzo « non buono » per la sua causa, gli avversari lo accusano davanti al tribunale di una giustizia «trascenden Âte ». Ciò è diventato uno strumento della lotta politica: vedi le manifestazioni di protesta contro la guerra in Viet Nam o contro l’occupazione della Ce Âcoslovacchia. Nelle quali ipo Âcrisia, calcolo e buona fede si mescolano in dosi difficili da misurare.
Il saggio di Spirito, scritto all’indomani del crollo del fa Âscismo e ora pubblicato con alcune aggiunte, insieme alla chiarezza ha il merito di toc Âcare in modo stimolante i problemi chiave del machiavelli Âsmo che ancora oggi inquietano le nostre coscienze.
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