LETTERATURA: I MAESTRI: Mareggiata2 Ottobre 2018 di Roberto Ridolfi Nel cielo, coperto quasi tut to di nuvole e appannato in modo dalla foschia ch’è diffi cile distinguer questa da quel le, il sole sfolgora attraverso uno squarcio azzurro; al lar go, il mare ha un colore cupo, fra terreo e verdastro, senza schiume bianche né scintillìi: soltanto una gran lama di lu ce, davanti a me, con la punta volta verso l’orizzonte, splen de sopra le acque. Dove non è questo riflesso di sole, la sterminata distesa sembra un maggese lavorato, a perdita d’occhio; ma le on de, che alla lontana non ap paiono maggiori delle zolle smosse da un coltro, vengono sempre più ingrossandosi ver so la riva; sulle prime secche a un tratto s’impennano, la groppa dei cavalloni luccica un attimo sotto i raggi del so le prima di rovesciarsi e in frangersi nella risacca, tra un ribollire di schiume, e poi ri sorgere e nuovamente infran gersi contro gli scogli: grandi spruzzi bianchi volano in alto e stancamente ricadono. Non so quante volte ho con templato da questo stesso luo go uno spettacolo come que sto; eppure mi trovo qui da forse due ore e non mi sazio di contemplarlo. Sono sulla ro tonda d’Acquaviva, a Livorno, della quale scrissi in certe vec chie pagine come la vidi nella mia fanciullezza. Distrutta ver so la fine della guerra, non so perché, non so come, l’hanno ora rifatta: mi sembra un po co minore; o forse n’era sol tanto maggiore il fanciullesco ricordo. Nel mezzo, un palone di cemento ha rimpiazzato il gran tronco di abete, che pa reva l’albero maestro d’una nave, al quale erano legate bianche tende simili a vele. Sull’albero era inchiodata una lastra d’ottone con scritte su le parole che il Carducci ave va dette in quel luogo e che vanità o amore di lucro ave vano fatto giudicar memoran de: « Ma qui è un gran bello stare ». * E qui, ogni volta che io pos so, ritorno: sia la buona o la cattiva stagione, placido il mare o imbronciato, o come oggi infuriato. Ma questa, ve ramente, che per me è una ma reggiata bella e buona, per un nativo di questa costa, patria di leggendari risicatori, sarebbe forse soltanto un po’ di maretta. Una libecciata non è: se fosse, non potrei star qui dove sto, a prendermi tutt’al più qualche spruzzo. Né sa prei dire di che razza sia que sto vento gagliardo che soffia dal mare: quando me lo sen to di fronte e quando di fian co. Dev’essere uno di quei venti ballerini e burloni che soltanto il celebre Pallino, immortalato dal nostro Montanelli in un memorabile elzeviro, potrebbe capirci qualcosa. E meno male s’io non cono scessi il vento che tira; essen do, con tutto il mio amor per il mare, uomo terragnolo. Ma non so neppure qual vento, voglio dire quale forza occul ta, quale inconscio pensiero, mi riconduca qui ogni anno più volte: perché qui, intanto, anziché sulla spiaggia lunense dove ormai da tempo imme morabile ho trasferito le mie vacanze marine; perché qui, piuttosto che a Napoli, dove, arridendomi l’illusione di me ridionali tepori, uso andare nei mesi freddi a trovarci più freddo che altrove; perché qui, infine, e non in qualsiasi altro punto di questo nostro stivale italico tutto quanto affondato nel mare. Non lo so proprio. E forse anche per il desiderio di saperlo, per scoprire la ra gione segreta di questi ricor renti ritorni, apparentemente senza ragione, qui di tratto in tratto mi riconduco. O piuttosto e per ricercarvi qualche cosa ch’io vi abbia la sciato, per riprendere il filo di un discorso incominciato altra volta e rimasto interrotto, poi del tutto perduto e dimentica to. Nello stesso modo che (lo ha già osservato il Montai gne) per ritrovare un pensie ro uscitoci dalla memoria, si torna nel luogo dove eravamo quando ci si formò nella mente. A ricordare quel remoto di scorso basterebbe, come acca de, una frase, una sola paro la; e quella frase, quella pa rola io sono qui che le cerco tendendo gli orecchi, nella in cessante voce del mare. * Questa rotonda fu, in quel lontanissimo tempo, la mia de lizia e il mio tormento. Tor mento nelle belle giornate, quando ero condannato a fa re il ragazzino perbene, sedu to per ore e ore sopra una scomoda seggiola, in mezzo a un fittume di gente pigiata e fittamente senza posa parlan te; delizia, quando una mareg giata come questa mi vendi cava, spazzando e lavando ogni cosa, facendo piazza pu lita di quella umanità cicalan te. Allora, al riparo degli spruzzi in questo angolo morto, mi godevo la mia vendetta, ascoltando, come faccio ora, la gran voce del mare. Il ma re mi diceva le sue collere e io a lui i miei aneliti segreti, i miei primi confusi desideri, i mie fremiti di adolescente. Non so cosa darei per ritro var le parole di quel remoto discorso, e con esse il me stes so di allora. Ma finalmente, a difender mi dalla tenerezza dei ricordi, un pensiero ironico mi disin canta: mi accorgo di somiglia re a un cane che rincorra la propria coda: in fondo, il dia logo fra me e il mare non de v’esser molto mutato da quel lo di un tempo: anzi n’è la naturale continuazione. Allora il fragoroso frangersi dei ca valloni accompagnava i miei inappagati desideri, ora ac compagna le mie inappagabili nostalgie; ora, come allora, sul ribollire delle inquietudini insoddisfatte e indistinte, s’in curva, simile a questo cielo grigio, la stessa immutabile malinconia. Ecco, fra poco andrò a de sinare con l’amico Paolo Fernandez, col quale, sessant’anni or sono ci si avventurava tutti vestiti sulle alghe sdrucciole voli, per frugar nelle buche di questi scogli e di queste secche in cerca di pesciolini, granchi, gamberetti: una pe sca non proprio miracolosa. Come questa mia col mare, anche la nostra conversazione, mutati gli argomenti infantili con altri soltanto in apparen za maggiori, sarà in fondo non molto diversa da quella di al lora; anzi, a certi discorsi di allora ci si compiacerà di tor nare. Gabriele d’Annunzio chiuse in un tetrastico quella che, ma gnificamente, chiamò la sua « deserta conoscenza quadra ta ». Conoscenza comune an che a me, ma in parte soltan to; in me, che so e che sono tanto meno di lui, nonché quadrata, non è neppur trian golare: addirittura io me la trovo dimezzata, ridotta ai soli primi due versi della quarti na: Tutta la vita è senza mu tamento. / Ha un solo volto la malinconia. E contro questa conoscen za, tanto ahimè più deserta, battono e ribattono ora i miei pensieri, incessantemente, in cessantemente s’infrangono: come fanno i marosi contro gli scogli.
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