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LETTERATURA: I MAESTRI: Mareggiata

2 Ottobre 2018

di Roberto Ridolfi
[dal “Corriere della Sera”, sabato 11 ottobre 1969]

Nel cielo, coperto quasi tut ­to di nuvole e appannato in modo dalla foschia ch’è diffi ­cile distinguer questa da quel ­le, il sole sfolgora attraverso uno squarcio azzurro; al lar ­go, il mare ha un colore cupo, fra terreo e verdastro, senza schiume bianche né scintillìi: soltanto una gran lama di lu ­ce, davanti a me, con la punta volta verso l’orizzonte, splen ­de sopra le acque.

Dove non è questo riflesso di sole, la sterminata distesa sembra un maggese lavorato, a perdita d’occhio; ma le on ­de, che alla lontana non ap ­paiono maggiori delle zolle smosse da un coltro, vengono sempre più ingrossandosi ver ­so la riva; sulle prime secche a un tratto s’impennano, la groppa dei cavalloni luccica un attimo sotto i raggi del so ­le prima di rovesciarsi e in ­frangersi nella risacca, tra un ribollire di schiume, e poi ri ­sorgere e nuovamente infran ­gersi contro gli scogli: grandi spruzzi bianchi volano in alto e stancamente ricadono.

Non so quante volte ho con ­templato da questo stesso luo ­go uno spettacolo come que ­sto; eppure mi trovo qui da forse due ore e non mi sazio di contemplarlo. Sono sulla ro ­tonda d’Acquaviva, a Livorno, della quale scrissi in certe vec ­chie pagine come la vidi nella mia fanciullezza. Distrutta ver ­so la fine della guerra, non so perché, non so come, l’hanno ora rifatta: mi sembra un po ­co minore; o forse n’era sol ­tanto maggiore il fanciullesco ricordo. Nel mezzo, un palone di cemento ha rimpiazzato il gran tronco di abete, che pa ­reva l’albero maestro d’una nave, al quale erano legate bianche tende simili a vele. Sull’albero era inchiodata una lastra d’ottone con scritte su le parole che il Carducci ave ­va dette in quel luogo e che vanità o amore di lucro ave ­vano fatto giudicar memoran ­de: « Ma qui è un gran bello stare ».

*

E qui, ogni volta che io pos ­so, ritorno: sia la buona o la cattiva stagione, placido il mare o imbronciato, o come oggi infuriato. Ma questa, ve ­ramente, che per me è una ma ­reggiata bella e buona, per un nativo di questa costa, patria di leggendari risicatori, sarebbe forse soltanto un po’ di maretta. Una libecciata non è: se fosse, non potrei star qui dove sto, a prendermi tutt’al più qualche spruzzo. Né sa ­prei dire di che razza sia que ­sto vento gagliardo che soffia dal mare: quando me lo sen ­to di fronte e quando di fian ­co. Dev’essere uno di quei venti ballerini e burloni che soltanto il celebre Pallino, immortalato dal nostro Montanelli in un memorabile elzeviro, potrebbe capirci qualcosa.

E meno male s’io non cono ­scessi il vento che tira; essen ­do, con tutto il mio amor per il mare, uomo terragnolo. Ma non so neppure qual vento, voglio dire quale forza occul ­ta, quale inconscio pensiero, mi riconduca qui ogni anno più volte: perché qui, intanto, anziché sulla spiaggia lunense dove ormai da tempo imme ­morabile ho trasferito le mie vacanze marine; perché qui, piuttosto che a Napoli, dove, arridendomi l’illusione di me ­ridionali tepori, uso andare nei mesi freddi a trovarci più freddo che altrove; perché qui, infine, e non in qualsiasi altro punto di questo nostro stivale italico tutto quanto affondato nel mare. Non lo so proprio. E forse anche per il desiderio di saperlo, per scoprire la ra ­gione segreta di questi ricor ­renti ritorni, apparentemente senza ragione, qui di tratto in tratto mi riconduco.

O piuttosto e per ricercarvi qualche cosa ch’io vi abbia la ­sciato, per riprendere il filo di un discorso incominciato altra volta e rimasto interrotto, poi del tutto perduto e dimentica ­to. Nello stesso modo che (lo ha già osservato il Montai ­gne) per ritrovare un pensie ­ro uscitoci dalla memoria, si torna nel luogo dove eravamo quando ci si formò nella mente. A ricordare quel remoto di ­scorso basterebbe, come acca ­de, una frase, una sola paro ­la; e quella frase, quella pa ­rola io sono qui che le cerco tendendo gli orecchi, nella in ­cessante voce del mare.

*

Questa rotonda fu, in quel lontanissimo tempo, la mia de ­lizia e il mio tormento. Tor ­mento nelle belle giornate, quando ero condannato a fa ­re il ragazzino perbene, sedu ­to per ore e ore sopra una scomoda seggiola, in mezzo a un fittume di gente pigiata e fittamente senza posa parlan ­te; delizia, quando una mareg ­giata come questa mi vendi ­cava, spazzando e lavando ogni cosa, facendo piazza pu ­lita di quella umanità cicalan ­te. Allora, al riparo degli spruzzi in questo angolo morto, mi godevo la mia vendetta, ascoltando, come faccio ora, la gran voce del mare. Il ma ­re mi diceva le sue collere e io a lui i miei aneliti segreti, i miei primi confusi desideri, i mie fremiti di adolescente. Non so cosa darei per ritro ­var le parole di quel remoto discorso, e con esse il me stes ­so di allora.

Ma finalmente, a difender ­mi dalla tenerezza dei ricordi, un pensiero ironico mi disin ­canta: mi accorgo di somiglia ­re a un cane che rincorra la propria coda: in fondo, il dia ­logo fra me e il mare non de ­v’esser molto mutato da quel ­lo di un tempo: anzi n’è la naturale continuazione. Allora il fragoroso frangersi dei ca ­valloni accompagnava i miei inappagati desideri, ora ac ­compagna le mie inappagabili nostalgie; ora, come allora, sul ribollire delle inquietudini insoddisfatte e indistinte, s’in ­curva, simile a questo cielo grigio, la stessa immutabile malinconia.

Ecco, fra poco andrò a de ­sinare con l’amico Paolo Fernandez, col quale, sessant’anni or sono ci si avventurava tutti vestiti sulle alghe sdrucciole ­voli, per frugar nelle buche di questi scogli e di queste secche in cerca di pesciolini, granchi, gamberetti: una pe ­sca non proprio miracolosa. Come questa mia col mare, anche la nostra conversazione, mutati gli argomenti infantili con altri soltanto in apparen ­za maggiori, sarà in fondo non molto diversa da quella di al ­lora; anzi, a certi discorsi di allora ci si compiacerà di tor ­nare.

Gabriele d’Annunzio chiuse in un tetrastico quella che, ma ­gnificamente, chiamò la sua « deserta conoscenza quadra ­ta ». Conoscenza comune an ­che a me, ma in parte soltan ­to; in me, che so e che sono tanto meno di lui, nonché quadrata, non è neppur trian ­golare: addirittura io me la trovo dimezzata, ridotta ai soli primi due versi della quarti ­na: Tutta la vita è senza mu ­tamento. / Ha un solo volto la malinconia.

E contro questa conoscen ­za, tanto ahimè più deserta, battono e ribattono ora i miei pensieri, incessantemente, in ­cessantemente s’infrangono: come fanno i marosi contro gli scogli.

 


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Bart