LETTERATURA: I MAESTRI: Machiavelli mezzo millennio29 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Cinque secoli or sono (e per le vie di Firenze c’erano ancora dei fiori che le ave vano giuncate a calendimag gio) Niccolò Machiavelli aprì quei suoi puntuti occhi sul mondo. Cominciò presto: guardò le cose umane, lesse negli animi, lesse nei libri. Nessuno ha fatto caso a una singolarità della sua vita: es sa ci appare divisa con ma tematica precisione. La prima metà esatta (ventinove anni) fu occupata dalla « continua lezione » delle cose antiche; anche se in effetto cominciò fin da allora, sia pure in minoribus, quella « lunga esperienzia » delle moderne che occupò i primi due quarti della seconda (quattordici anni e mezzo spaccati) nella Cancelleria della Repubblica fiorentina. Nel terzo quarto (sette anni e tre mesi) com pose tutte le sue maggiori ope re politiche e letterarie; nell’ultimo quarto, oltre a scrivere un po’ stancamente le Istorie, « starassi a ridere de gli errori degli uomini, poiché non li può correggere »: feli cissima espressione usata per lui dal Guicciardini e venuta in luce da poco. Al termine, dunque, della « continua lezione » e della « lunga esperienzia », da ciò che aveva letto e veduto, tirò le conseguenze col rigore di un sillogismo. Gli uomini erano quelli che erano, e che purtroppo sono rimasti; l’Italia a pezzi, sbriciolata in staterelli l’un contro l’altro ar mati, molti dei quali oltre passavano di poco le mura di una città o di un castello; e tutti erano governati da po poli discordi o da certi prin cipi, dei quali egli ci lasciò nell’Arte della guerra un ri tratto stupendo, simile al vi vo, anche se sembrerebbe piuttosto una feroce carica tura. Il Machiavelli non era un moralista: era un politico, e i suoi teoremi politici scisse da ogni considerazione mo rale. Lo fece non senza un « contrariato patimento »; tra i crudi dettami gli sfugge a volte qualche sospiro. A un certo punto osserva: « Se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe duopo ». Invece erano « tri sti » e fu lui per primo a ri cercare le leggi di una trista scienza: leggi, non altrimenti che allora, buone pur oggi in tempi men feroci e più leg giadri. Ma egli era anche un poe ta, facile ai sogni, e amò la patria sua « più dell’anima »: una patria i cui incerti con fini sembrano talvolta slar gargli nel pensiero al di là di quelli che chiudevano il do minio fiorentino: come quan do rompe, in una lettera al Guicciardini, nel grido fati dico: Liberate diuturna cura Italiam! E del resto per lui, ch’ebbe il culto dello stato e aveva già fitto gli occhi sulle nazioni d’oltralpe, i confini di uno stato mal potevano es sere le mura di una città. Così, sognò nel suo cuore e formò sulle carte quel « principe nuovo », nel quale l’Italia ve desse, dopo tanto tempo, « uno suo redentore ». Non era colpa sua se a con seguire questo, che fu per lui il summum bonum, se a me dicare quelle « membra tutte corrotte » non potevano ba stare i precetti della Politica di Aristotile. Nei Discorsi e nel Principe, non meno del rigore scientifico, non meno dell’acuta diagnosi e della spietata terapia, è da ammi rare il coraggio. Il Machiavel li sapeva. Sapeva di mettersi, anche in quello, « fuor della regola », come avrebbe detto il suo amico Guicciardini; sa peva di andare contro l’opi nione comune, contro la co mune ipocrisia; sapeva di prendere una via « non anco ra da alcuna pesta »: antive deva lucidamente, nello stu pendo proemio ai Discorsi, cosa fosse per lui l’avventu rarsi in quel pelago: era « non altrimenti periculoso (…) che si fusse cercare acque o terre incognite ». * Difatti gli andò come gli andò. I suoi contemporanei non gli perdonarono di essere « extravagante di opinione dalla comune e inventore di cose nuove »: neppure chi aveva un ingegno come il Guicciardini, che scrisse quel le parole e che lo ammirò, ma non senza un po’ d’impa zienza né senza qualche iro nia. Fu « posto a segnale di colpe, perché maestro e per ché infelice ». Per secoli e se coli il suo nome, al quale fu detto nessun elogio esser pari, divenne quasi un marchio di infamia: ne furono coniati sostantivi e aggettivi, avverbi e verbi. Da lui presero nome le arti peggiori; a lui furono imputati perfino le lacrime e il sangue onde grondano gli allori di certi grandi della terra assidui a leggere le sue opere, da Caterina de’ Medici a Napoleone, ch’era anche lui un « principe nuovo ». E anch’oggi, dopo che stu diosi, filosofi, biografi ebbero finalmente fatto giustizia di tanta ingiustizia, il segno è rimasto: si possono debellare i giudizi dei don Ferranti, non i pregiudizi passati in proverbi, né i vocaboli entrati nei vocabolari e nel linguaggio di tutti. Basta che un Valentino odiernissimo, in Russia o in Arabia o nell’Africa nera, fac cia all’ingrosso quello che il Borgia faceva al minuto, per ché quei sostantivi e quegli aggettivi si riaffaccino nei no stri discorsi; quando non ba stino a farli ricomparire i me diocri inganni, le slealtà, i tradimenti di cui è piena, nel la politica, nei commerci, in ogni privato o pubblico af fare, la quotidiana vita degli uomini. E si fa ingiuria così non soltanto a un rigoroso fi losofo della storia ma a un uomo, oltre che generoso e appassionato, buono e leale; a chi poté dire di sé, in una sua famosa lettera, verissima mente: « Della fede mia non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla (…); e della fede mia n’è testimonio la povertà mia ». Alla quale testimonianza è da aggiungere quella di Francesco Vettori, che più di altri lo praticò e lo conobbe: « È povero e buono; e dica chi vuole altrimenti, che in fatto è così ». In verità, io non saprei dire chi mai fosse meno machiavellico di Niccolò Machiavelli. * Mezzo millennio, e pare co sì moderno. In questi cinque secoli la sua fama è venuta sempre crescendo: e crescerà tuttavia, finché valga il rigor del pensiero. Ma non è solo questa la ragione della sua grandezza, né il suo genio, né il suo coraggio di novatore. Gino Capponi, che di lui ci lasciò un ritratto stupendo an che se maculato dai soliti pre giudizi moralistici, scrisse: « Alla fierezza, alla potenza ineguagliabile del suo stile, al to e popolare nel tempo me desimo, che ha del solenne e dello sprezzato, a quegli ef fetti, i quali vengono dallo scrittore, si deve, io credo, certa sovrana autorità che ai suoi dettami venne conces sa ». E lo credo pur io. Se que gli stessi pensieri, mirabili per acutezza e novità, rigore e vi gore, li avesse paludati, se condo il gusto del tempo, in un volgare ampolloso e stuc chevole o costretti addirittu ra in un male imbalsamato la tino, forse solamente le storie letterarie oggi un poco ne par lerebbero. La fama del Machiavelli politico e filosofo della storia dipende per molta parte, dunque, dalla grandezza dello scrittore. La sua prosa, a paragone di ogni altra della stessa età e della stessa patria, rende un suono molto diverso: basta un periodo, una frase, a farlo riconosce re tra mille. Bisognava esser sordi per creder del Machia velli la famigerata Descrizio ne della peste, soltanto perché ce n’era una sua copia autografa: quasi che, a ricono scere il Machiavelli, lo stile non contasse più dell’auto grafia. Fu quell’inganno a far fa voleggiare il De Sanctis di un Segretario fiorentino che « si mette la giornea e boccacceggia ». Un giudizio temerario: che però il critico si fa per donare, prendendosela subito dopo con certi che « gonfiano le gote in aria di pedago ghi quando in quella divina prosa trovano slegature, scor rezioni e simili negligenze ». Aveva detto poche righe più su, acutamente: « difetti delle sue qualità ». O bravo. « Di vina prosa »: prima di allora s’era parlato soltanto, e sol tanto per i sommi poeti, d’una « divina poesia ». * Come quelle « negligenze » non mancano nel Machiavel li scrittore, così non manca no gli errori nello storico e nel politico; ma chi s’indu gia a rilevarli m’ha tutta l’aria del pedagogo sbeffato dal De Sanctis, e verrebbe la voglia di ribattergli non altrimenti che a quello: « difetti delle sue qualità ». Senza contare poi che a far le sue qualità sono anche i difetti. Comin ciò fino da allora il Guicciar dini nelle Considerazioni ai « Discorsi ». Osserva Guido Mazzoni: « Con irriverenza, si direbbe che lo segue come Sancho Panza va dietro a Don Quixote ». Si vorrebbe poter replicare a messer Francesco che, sì, ha ragione lui, col suo senno, col suo buon senso, con la sua pratica delle cose; ma non ha capito che, come io scrissi, quegli errori non sono altro che i ciottoli del le nuove strade aperte dal Machiavelli. Nel quale non bisogna cercare le piccole verità, ma le grandi divinazioni. Se si volesse ridurre la sua grandezza in poche parole, in una pillola come oggi piace, bisognerebbe metterci prima di tutto quelle divinazioni, il suo spirito poetico e profetico, la sua passione, la sua « divina prosa », la coraggiosa affermazione dell’autonomia della politica: la quale basterebbe anche da sola a porlo, come fu detto, « fra i grandi creatori del mondo moderno ».
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