LETTERATURA: I MAESTRI: Maremma amara22 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi La Maremma è morta da un pezzo, la mia vecchia Maremma; ora muore anche quel poco che ne sopravvisse e muore perfino il suo mito fra i giovani d’oggi: molti ne par lano che non sanno neppure che fosse. Quando ho preso a scombiccherar questi fogli, mi rigiravano nella mente cer te vecchie assonanze cantate a veglia dagli stornellatori: Tutti dicon Maremma, Ma remma; / ma a me mi pare una Maremma amara: / l’uc cello che ci va perde la pen na, / il giovan che ci va per de la dama. Amara fu, ai bei dì, certa mente: amara e forte come gli aromi dei suoi tomboli salma stri, dei suoi forteti, dove gli effluvi dei ginepri, dei pini e delle mortelle si mescolavano all’odore acre del mare. L’ama ro a me è sempre piaciuto: per me, è l’aperitivo e il to nico della vita; se, da vec chio toscano, non mi dispia cessero l’enfasi e la rettorica, questo della Maremma direi di averlo nel sangue fino dal giorno ch’io nacqui, venutoci per il maremmano feudo degli avi. Di fatto, non metafo ricamente, c’entrò poco dopo con certe febbri malariche che mi buscai a sette od otto an ni, in quel di Vada, nella fat toria dei nonni: della quale, lavorando molto d’immagina zione, avrei potuto perfino fi gurarmi che un lembo mi ap partenesse come mia parte del la dote materna; intanto co desto lembo ideale realissima mente me lo godevo. Di quelle febbri, che preco cemente mi consacrarono ma remmano, io fui fiero come di una iniziazione: le ostentai come un marchio, una cicatrice onorevole. N’ero orgo glioso fin quando mi faceva no ingozzare cucchiaiate su cucchiaiate di « Esanofele »: siano state quelle o altro, alla lunga le febbri se ne anda rono; ma se guarii di quel male, il mal di Maremma restò. * Passarono forse dieci anni senza che più ci tornassi. Ma se mi capitava di sentirne parlare e anche di udirne o di vederne scritto il nome sol tanto, sùbito tornava a pun germene la nostalgia. Quando il Corriere della Sera pubbli cò la Canzone della diana di Gabriele d’Annunzio, comin ciai a leggerla straccamente, non so perché: allora avevo dodici anni e non potevo mi ca accorgermi che quella diana pareva suonata, più che con una tromba, con un trom bone. Ma mi bastarono le terzine O terra di sepolcri e di forteti, / Maremma, canto la tua razza equina, per farmi galoppare la fantasia dietro i cavalli bradi, risentire a un tratto gli effluvi delle resine liquefatte sotto il solleone, i misti aromi dei ginepri e del mare. Né i versi che seguiva no (la ben crinita razza che disseti / nel sarcofago tolto alla ruina…) mi sapevano di rettorica, avendo visto anch’io dei cavalli abbeverarsi in un sarcofago etrusco. Salute, o terra degli Aldobrandeschi! Ci tornai finalmente sul fi nire dell’adolescenza e la ri trovai (o così mi parve) qua le mi aveva incantato nel co minciare dell’infanzia: amara, forte, selvaggia. E potei cono scerla meglio, come prima non avevo potuto e come non sa rei stato a tempo più tardi nel solo modo in cui era dato conoscerla, intenderla, pene trarla fin nel profondo: profondandola e vagheggiandola col fucile in spalla. Bisognava avvolgersi nei for teti per gli stradelli e i salitoi praticati dai cinghiali; contemplare dall’alto di uno scoglio quel selvaggio mare di piante, le « lame » acquee che tagliavano il folto, lucci canti al sole come lame d’ac ciaio dove i paglieti non le coprivano. L’elleraie e i gro vigli delle vitalbe grondavano dagli ontani e dagli olmi se colari. Bisognava arrabattarsi nei marrucheti, arrischiare certi tiri impossibili a bec cacce sbaluginanti per un at timo nel fitto dei lecci: Quand l’oiseau monte en flèche / ti re haut et toi depíªche. Qual che volta, dopo il frullo della beccaccia, capitava di vedere, o piuttosto di sentire, lo stolzo del cinghiale « alla lestra ». Nella macchia mi aggiravo le intere giornate; ne uscivo sol tanto per asciugarmi al fuoco odoroso dei ginepri e delle sabine, dopo essere andato a guazzo in qualche « lama », o per galoppar nelle prata a gara coi butteri. La sera mi cibavo di quei cibi semplici e forti. Vecchia Maremma. * Fu simile a un sogno, breve come la felicità. Poi, anche per me, ci fu la guerra; poi un’altra guerra: la vita. E metto tra le poche fortune che m’hanno mai arriso quel la di aver potuto, prima di affrontar l’una e l’altra che mi fecero uomo anzitempo, fortificarmi d’una esperienza così virile. Proprio alla fine di un’era, alla fine di un mon do, feci ancora in tempo a godermi una natura e una vi ta che sopravvivono soltanto nel ricordo di pochi soprav vissuti. Le ritroviamo intatte in qualche tela del Cecconi e nelle Giornate di caccia di Eugenio Niccolini: ma non so quanti conoscano quella bella prosa toscana, dove Ga briele d’Annunzio trovò « fre schezza e verginità di lingua, misteriosa efficacia nel rap presentare il movimento e il colore, inimitabile semplicità ». E confessava candidamente di temerne il paragone, se si fos se trovato a metterle accanto la sua (che sapeva un po’ troppo di lucerna e di glos sario). Uno di quei racconti narra l’incendio dei boschi di Portovecchio e la disperazione dello scrittore, che s’affatica e s’abbruciacchia insieme a pochi braccaioli per tentare di spegnerlo; e la sua collera improvvisa quando uno, cre dendo di consolarlo, gli fa: « Con questa cenere, ci verrà il grano più alto di un uo mo ». Ebbene, lo stesso furo re prendeva anche me quan do udivo ragionar di bonifi che, d’incendiar macchie e prosciugar paduli per vincere la cosiddetta battaglia del grano. Perché gli uomini sono sem pre gli stessi, e la guerra de vono farla perfino in meta fora; fuor di metafora, se non la fanno tra loro, la fanno alla natura. Questa della Ma remma l’han vinta, dopo tan te altre, e altre ne vinceran no; ma soltanto ora comin ciano ad accorgersi che le vit torie sulla natura sono qual cosa peggio delle vittorie di Pirro. Nella Maremma hanno de bellato le febbri. Non canterò le lodi della malaria, come i poeti berneschi fecero della peste, del mal francese e di tante altre cose non proprio raccomandabili. Voglio soltan to dire che la natura, conti nuamente incalzata, sforzata, dall’uomo, ha di queste estreme difese: cadute le quali, al tre saprà suscitarne, prender si le sue brave rivincite. Oggi si parla molto di ecologia, di equilibrio biologico; in Ma remma la natura ha tenace mente difeso questo equili brio. Sull’uscio della sua casa di caccia, Eugenio Niccolini ave va scritto il carducciano: Febbre, io t’invoco, / nume presente. E una volta che dav vero se la buscò, a chi gli do mandava se era finalmente contento, dopo averla tanto chiamata, rispose: « Non mi lamento: finché dura la feb bre, durerà anche questo bel mondo ». Così è stato; finita la febbre, quel bel mondo finì. Ora si parla di salvare, fa cendone un « parco naziona le », il poco che ancora ne resta. Meno male, sarà sem pre meglio che nulla: ne ri marrà almeno un lembo dove il fitto dei forteti non sarà sconsacrato da un fittume di case. Meno male, dico, anche se neppure in quel lembo scampatone potrò più ritro vare la mia vecchia Marem ma. Lo vedremo impestato di gitanti festaioli, contaminato da una incivile civiltà, insu diciato da cartacce e da ba rattoli vuoti, di continuo in sidiato dagli incendi domeni cali. Nel fascino antico c’entra vano la sdegnosa scontrosità, la spopolata solitudine, l’etrusca malinconia: era appunto un fascino amaro. A chi leg ga un famoso sonetto marem mano del « maremmano » Car ducci, nei versi iniziali, Dolce paese, onde portai conforme / l’abito fiero e lo sdegno so canto, il primo aggettivo (chiosato dagli ultimi due), non può parere in contrasto con l’altro che ho scritto nel titolo e nel principio di que sta prosa, ripetuto qui nella fine. Dipende da come s’in tendono dolce ed amaro. Dol ce era al poeta, e anche a me, l’amara Maremma di un tempo. Proprio come m’è amara oggi questa Maremma dolciastra.
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