LETTERATURA: I MAESTRI: La morte dei cipressi25 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Francesco Guicciardini, an dando ambasciatore in Spa gna, dopo aver cavalcato per cinque giornate in luoghi in culti e selvatici « da non ve dere che vi possino stare le capre », notò in un suo dia rio di essere arrivato sul ve spro a Le Buis e di avervi riveduto gli ulivi. La notazio ne potrebbe parere insignifi cante a un lettore non trop po sensibile, e forse lo è; ma fa un certo effetto a trovarla in un così chiuso scrittore e in una così scarna scrit tura. O almeno a me questo effetto lo fece, la prima volta che la lessi, quand’ebbi la for tuna di scoprire quel diario con altre maggiori opere guicciardiniane. Al grande fioren tino gli ulivi dovettero ricor dare, proprio nell’ora dante sca, « che volge il desio », i suoi poggi nativi. Forse ho sentito e sento il chiuso strug gimento di quelle parole per ché, con gli ulivi, a me è ca pitato tante volte lo stesso. Ma molto più m’è capitato e mi capita coi cipressi: una pianta che ancor meglio rac chiude in sé, e non solamente nel suo aspetto, l’essenza della terra toscana. Avete mai re spirato, d’estate, l’aria d’una cipressaia? Avete mai con frontato fra loro gli aromi de gli abeti e dei cipressi, quelli che emanano dal legno vivo? E quelli che esalano dal legno arso, allorché, simile ad un incenso, fumicando rende il suo spirito? Romantico l’aro ma degli abeti, che sa di fiabe boreali; classico l’aroma dei cipressi: un aroma amaro co me quello della mia terra, co me quello della vita umana e della morte. Mi ricordo di avere letto che questa pianta è originaria d’altre sponde mediterranee. Pare che anche gli Etruschi lo fossero. Ma certi alberi, co me certi popoli, trapiantati dalla terra di origine, hanno finalmente trovato la loro ve ra patria in una terra stranie ra: quella li ha generati, que sta rigenerati, e ne è stata ri generata a sua volta. Essi han no a sé conformato la loro terra fatale, ed essa a sé li ha fatti conformi. Così i cipressi. Se ho bene appreso (e per un poeta, del resto, la verità è quella che la sua fantasia gli presenta), allo stato selvaggio, nei loro paesi di origine, avevano i rami orizzontali come le no stre cipresse, come gli abeti: soltanto qui si sono fatti asciutti e sottili, non altrimenti che ogni altra cosa ge nerata da questa terra etrusca. Ragguagliar la Toscana alla Grecia, come Firenze ad Ate ne, è cosa tanto comune e usuale da esser passata quasi in proverbio: terre che hanno nutrito, fra i cipressi, due civiltà somiglianti, state ai loro giorni il sale del mondo: civiltà cipressine. Una Tosca na senza ulivi sarebbe una To scana spopolata; senza cipres si, non sarebbe più Toscana. Quante volte, spaesato in qualche paese settentrionale, m’è accaduto di riscuotermi e di rallegrarmi tutto ad un tratto, ingannato dalle appa renze di un pioppo cipressino; quante volte, tornandone, mi sono intenerito nel vedere sul le coste o sulle vette dei poggi, contro la chiarità del cielo, quelle pennellate scure, dritte, sottili, così bene d’accordo con la secca asciuttezza delle li nee, con la sobrietà dei colori. Era il primo incontro con la terra della quale Iddio m’ha impastato, l’antica terra dei miei: quei cipressi, balzando mi incontro, mi davano il suo primo saluto. E quante altre volte m’hanno dato il suo ad dio: soli o in processioni lun ghe sui crinali delle colline, neri e schietti contro l’azzur ro, o il pallido oro, o la san guigna porpora dell’orizzonte! Li vedevo fuggire attraverso i finestrini e rimaneva meco sol tanto un’amorosa malinconia. * Ora i cipressi muoiono. Un male misterioso, uno dopo l’al tro, li uccide. Muoiono come sono morti, per altre cause prodotte dalla inumanità de gli uomini, i pini della Versi lia. Scompaiono anch’essi, co me vanno scomparendo le far falle, le cicale, gli uccelli dell’aria e tante altre creature, nostre delizie dell’età felice. Mi sembra che al genere umano stia capitando quello che càpita ad ogni uomo nella vec chiezza, quando le persone care gli vengono meno ad una ad una, e anche le cose: tutto ciò che egli ha amato e che l’ha accompagnato nella vita lo abbandona, tutto intorno a lui si dissolve, a fare ogni giorno più smarrita e più sola la sua solitudine. Muoiono i cipressi. Prima ne secca qua e là qualche cioc ca bassa, che pare cosa da nulla, poi altre, su su, ed altre ancora, poi la punta. E allora incomincia la fine. E quando il morbo, si sarà pro pagato a tutte le piante, co me si va propagando, quando la morìa diverrà generale, sa rà anche la fine del paesaggio toscano. Al male non si conoscono rimedi che siano alla portata di tutti: pare che una medi cina sia stata trovata, non so quanto migliore di quelle per cui gli uomini, prendendole, muoiono peggio di prima. Ma poi chi potrà cospargere tutti, da cima a fondo, questi gi ganti? Chi, il mio caro cipres so di Marignolle, grande e grosso come un torrione? Sembra che sia, con quello di Somma, il maggiore d’Ita lia. Forse i viali monumentalissimi di qualche villa monu mentale potranno esser salva ti, spargendo il farmaco dall’alto, o irrorandolo dal basso con pompe potenti: sempre che i proprietari, su questi poggi dove il progresso indu striale fece deserto, abbiano tanti denari che bastino. E le cipressaie? E le piante sparse per le campagne, per grottoni e costoni impervi? I cipressi morranno. * Tutto questo poggio n’è pieno. Crescono perfino nel duro cuor del macigno: quali sot tili e aguzzi come spade, quali più grassocci e paffuti. Certi, sparsi nei campi, sembrano nati a caso o piantati a ca priccio, e segnano invece an tichi confini: altri ombreggia no viottole; altri rafforzano balze e ciglioni; altri fanno il giro tondo dove fu già un’uccellaia. Io ne ho due che mi stanno di sentinella davanti alla casa, uno di qua e uno di là. Quello di sinistra, più sot tile ed aguzzo è seccato da qualche anno: è stato, da que ste parti, quando non se ne aveva ancora notizia, la prima vittima della morìa. Non ho avuto il coraggio di farlo ta gliare, come avrei dovuto; n’è rimasto lo scheletro, che l’ede ra pietosa troppo lentamente ricopre. Quello di destra è la prima cosa che io vedo ogni mattina, appena apro gli oc chi, da una finestra della mia camera. Sembra ancor sano e forte; ma da un po’ di tempo, se ci batte il sole, vedo delle ciocche qua e là biondeggiare nella sua chioma bruna: e sempre par che ce ne sia qual cuna di più. Sono i segni del male, cer tissimi. Per quanto cerchi di farmi delle speranze, pensan do a guasti fatti da roditori o da insetti o a impallinate di cacciatori, il cipresso incomincia a morire. E io chiedo a Dio di farmi morire prima di lui: che io non veda ische letrire anche questo, il più caro, il più vicino, rimasto ve dovo, rimasto solo ad assistermi nei miei risvegli con un vedovo ippocastano. Morire: ma anche la morte, sen za l’ombra dei cipressi, che n’è pur essa confortatrice nel divino carme del Foscolo, mi sembra ora più dura. Letto 930 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||