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LETTERATURA: I MAESTRI: Mario Pannunzio. Con pochi contro la confusione

21 Maggio 2012

di Alfredo Todisco
[da “La fiera letteraria”, numero 8, giovedì 22 febbraio 1968]

Caro Manlio (Cancogni ndr), io credo che tu e io apparteniamo ad un gruppo abbastan ­za numeroso di giornalisti e di scrit ­tori cbe devono qualche parola di par ­ticolare riconoscimento a Mario Pan ­nunzio. Quando un uomo di valore muore, si apre il carosello degli elogi funebri che spesso costituiscono il peggiore dei servizi che sì possa ren ­dere alla sua memoria. Non sappiamo quali riflessi condizionati portano i commemoratori anche meglio inten ­zionati ad abbandonarsi al manieri ­smo e alla rettorica. Nel caso di Ma ­rio Pannunzio, che era l’uomo tra i più antirettorici e spregiudicati che abbia conosciuto, un qualunque ac ­cento da epicedio in cui si possa ca ­dere rievocando l’uomo, sarebbe peg ­gio che inopportuno.

Io ti conosco da tanti anni, caro Manlio, e so che uno dei tuoi tratti più veritieri è l’insofferenza di ogni tipo di conformismo, ivi compreso quello della commozione. Tu hai sempre te ­muto la fissazione della realtà in un cliché; e so con quale gusto e furia di guastatore ti abbandoni, ogni volta che puoi, alla demolizione di un qual ­siasi quadro costituito.

Ebbene, credo che pur nella profon ­da diversità dei caratteri e anche delle concezioni, fra te e Pannunzio vi fos ­se in comune un’impazienza, molto to ­scana per altro, di ogni forma di fe ­ticcio. Pannunzio era crociano â— forse uno degli ultimi crociani coerenti â— e aveva imparato dal maestro a diffi ­dare delle classificazioni esteriori del reale e insieme a esercitarvi sempre il pensiero critico. Il nostro amico, come tu sai, non ha mai abbandonato questo atteggiamento profondamente antirettorico, l’ultima espressione del quale è stata la volontà di rinunciare alla cerimonia del funerale.

Non credo che potrò mai dimenti ­care il primo giorno che incontrai Ma ­rio Pannunzio alla vecchia redazione de Il Mondo in via Campo Marzio a Roma. Era l’estate del 1949. Io mi tro ­vavo alla capitale nello stato d’animo parecchio frastornato del letteratino provinciale che cerca di afferrare un qualche bandolo. Chi mi portò alla redazione de Il Mondo, il settimanale che a pochi mesi dalla sua fondazione s’era già acquistato un altissimo pre ­stigio, fu Luigi Barzini jr., che avevo conosciuto un anno prima a Venezia e a cui, quel tanto di fervore intellet ­tuale proprio dei giovani provinciali, non dovette dispiacere. Mi presentò a Pannunzio che, dietro a una scriva ­nia ingombra di carte e di giornali indossava un principe di Galles di mezza stagione, con queste parole: « Questo è Todisco. E’ nato per scrive ­re sul tuo giornale ».

Nei giorni successivi, quando gli feci leggere un pezzo su Trieste che volevo portare a Il Mondo, Luigi Bar ­zini ebbe modo di accorgersi fino a che punto si fosse sbagliato. L’articolo, che parlava della Trieste travagliata dall’occupazione titina, era irto di concetti, di ragionamenti pieni di « ismi », di accenti passionali, di ag ­gettivi altisonanti, di echi declamato ­ri. Tutto quello che la linea de Il Mon ­do propriamente avversava. Barzini mi fece riscrivere il pezzo un paio di volte prima di farmelo portare a Il Mondo, e sebbene dopo i suoi consigli esso fosse uscito risciacquato e sgras ­sato a dovere, Pannunzio, che ebbe la cortesia di leggerlo subito in mia pre ­senza, me lo restituì con un sorriso gentile e fermo dicendo: « Non va per noi ».

L’articolo era ancora molto lontano dallo stile e dal gusto di un giornale come Il Mondo, ma Pannunzio non si limitò a rifiutarlo. Col fare sicuro di un uomo che sa ciò che vuole mi spie ­gò in che chiave egli mi consigliava di riscriverlo. Ricevetti così una pri ­ma lezione del giornalismo propugna ­to da Il Mondo, che a distanza di vent’anni ancora considero tra i più ele ­vati della nostra tradizione pubblici ­stica, e grazie al quale tantissimi gio ­vani esordienti al pari di me, hanno trovato la via per inserirsi, anche me ­glio di quanto io non abbia potuto fare, nel mondo dei giornali ancora legati a vecchi schemi, e per rappre ­sentare un grande rinnovamento pro ­fessionale.

Sarebbe qui troppo lungo evocare particolareggiatamente i vari aspetti della ricetta de Il Mondo, e mi limiterò solo a qualche tratto essenziale. Prima di tutto la chiarezza classica dell’e ­spressione, la semplicità, l’esposizione piana dei fatti e delle cose. Posso dirlo ora, era l’ideale flaubertiano della sua prosa apparentemente impersonale che ha quasi l’aria di « scriversi da sé » e col minimo ingombro del giu ­dizio esplicito dell’autore. L’ideale del ­la prosa « senza aggettivi », dello « sti ­le codice civile »: che è poi l’ideale della grande prosa narrativa che non asserisce ma fa risultare dalla descri ­zione puntuale ed esatta il sentimento e il significato delle cose.

Contrariamente alla fama culturalistica de Il Mondo, Pannunzio rifuggiva dalle astrazioni, dai ragionamenti sog ­gettivi, dai manierismi letterari: e per questo raccomandava sempre ai suoi collaboratori di appoggiarsi alla « co ­sa vista » e invocava l’esempio, fra tanti altri, delle « Choses vues » di Victor Hugo. In un giornalismo an ­cora dominato dall’elzeviro â— o me ­glio dalla sua eredità più accademi ­ca â— e da quello che si diceva il « co ­lore », lo stile de Il Mondo rappresenta ­va una vera rivoluzione: e inaugurò, primissimo, il genere dell’inchiesta che univa al tono narrativo l’informazione accurata e la penetrazione delle strut ­ture sociali, economiche e politiche della realtà investita in chiave critica.

Ai tempi in cui cominciai a fre ­quentarla, la redazione di via Campo Marzio era come un cantiere in cui si sperimentavano i nuovi prototipi. Un cantiere ma anche un caffè di sapore un po’ ottocentesco in cui conveniva ­no pivelli della mia sorte, di quella di Carlo Laurenzi, Paolo Pavolini e del caro Giovanni Russo, e gli ingegni tra i più vivi che abbia espresso l’Italia nata dalla caduta del fascismo. Vi tro ­vavi Vitaliano Brancati, sempre scop ­piettante, il sevèro Carlo Antoni, il gioviale e raziocinante Mario Ferrara. Vi incontravi Alberto Moravia, Corra ­do Alvaro, G. G. Napolitano, Sandro De Feo, Nicola Chiaromonte, Arnaldo Bocelli, Giovanni Spadolini, Leone Cattani, Franco Libonati, Corrado Sofia. UgoLa Malfa, Mario Paggi, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Nicolò Carandini, Vittorio De Caprariis, Aldo Garosci, Francesco Compagna. La re ­dazione, limitata a poche persone, contava figure impeccabili come Nina Ruffini e tipi estrosi come Giulia Mas ­sari, come Alfredo Mezio, impareggia ­bile passatore di articoli, sempre pron ­to a lasciare a mezzo il lavoro per buttarsi a capofitto in qualsiasi con ­versazione si accendesse negli angoli a riversarvi i suoi paradossi estempo ­ranei; o come Ennio Flaiano che at ­tendeva alla impaginazione del giorna ­le munito di un lungo spago con cui misurava lo sviluppo degli articoli e di uno spirito di buona lega che span ­deva su quelli che gli giravano intorno. Agli amici che, stupiti dal nitore tipografico de Il Mondo, gli domandava ­no se fosse stampato in rotocalco (pa ­rola che allora cominciava ad acqui ­stare un significato detrattivo) egli canzonando rispondeva che no, che Il Mondo era inciso su tavole di gra ­nito. Non credo di aver mai respirato, in una redazione, un’atmosfera così euforica e creativa come quella che incontrai a Il Mondo ai miei esordi: e il solo paragone che mi viene in men ­te, per tensione e freschezza di scam ­bi, è lo stanzone di via Monte di Pietà a Milano in cui tu, Giancarlo Fusco e io, in mezzo a tanti valorosi e simpa ­tici colleghi, davamo una mano a fare e forse più spesso a disfare L’Euro ­peo di Arrigo Benedetti.

Caro Manlio, tu hai scorso i necro ­logi che sono stati pubblicati dai quo ­tidiani in morte di Mario Pannunzio. Orbene, senza voler offendere la buo ­na volontà di coloro che vi hanno po ­sto mano, ho tratto l’impressione che, per motivi che ignoro o che forse so ­spetto, questi necrologi, salvo forse l’eccezione di uno, non hanno reso a Mario Pannunzio tutto ciò che era doveroso rendergli in questa occasione.

Ciò che Mario Pannunzio ha rap ­presentato per molti di noi è stato un rinnovamento del giornalismo italia ­no e un talent scout. Se Il Mondo rac ­coglieva l’approvazione e gli scritti di uomini come Benedetto Croce, Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini, era apertissimo ai « cavalli oscuri ». Una volta ricordo che Luigi Einaudi, allo ­ra presidente della Repubblica, man ­dò dal Quirinale a Pannunzio un attestato di quanto egli fosse buon let ­tore de Il Mondo: il voluminoso plico conteneva una completa rassegna con giudizi, apprezzamenti e critiche di tutti gli articoli pubblicati in un de ­terminato numero del giornale, dai più impegnativi alle rubriche minori. Einaudi si soffermava a parlare mi ­nuziosamente anche dei moltissimi scritti firmati da gente sconosciuta. Pannunzio non aveva la superstizione della firma. Anzi credo che provasse un particolare piacere a proporre sul ­le sue colonne nomi nuovi, mai collau ­dati prima dei quali sapeva fiutare le capacità. Nessun giornale italiano del dopoguerra può vantare al pari de Il Mondo un simile lavoro di scoperta. Salvo rari casi, i giornalisti della ge ­nerazione di mezzo che oggi hanno un posto di rilievo nella nostra stampa, sono stati pescati da Pannunzio. Uno dei casi più rappresentativi è stato quello di Giancarlo Fusco, che, capel ­lone e beat avanti lettera fra i kur ­saal e i caffè di Viareggio, tu stesso segnalasti a Il Mondo. Il risultato fu che Giancarlo Fusco vi pubblicò una serie di articoli davvero memorabili sullo sfondo della guerra di Grecia e che restano tra le cose più diverten ­ti e narrativamente valide uscite in Italia negli ultimi decenni.

Ma il maestro di giornalismo, oltre l’aspetto propriamente tecnico, si estendeva all’intero orizzonte della vi ­ta spirituale e morale. Il primo mobile dell’insegnamento di Mario Pannun ­zio partiva da quella « religione della libertà » che egli ripeteva in primo luogo da Benedetto Croce, e di cui aveva imparato a vivere la passione durante gli anni del fascismo. Nell’Ita ­lia uscita dalla guerra, in cui al ripri ­stino dello stato di diritto si accom ­pagnava il predominio dei partiti di massa, cattolici e marxisti, la libertà vagheggiata da Pannunzio, che si ri ­collegava al laicismo risorgimentale, era una libertà difficile, anche se la sola autentica, che occorreva sostene ­re in mezzo a ogni sorta di avversari. Questa libertà era come un triangolo ai cui vertici si potevano trovare tre motivi fondamentali, l’antifascismo, il laicismo, l’anticomunismo: tre moti ­vi che, come si intuisce, si trovavano di fronte alla grande maggioranza del ­lo schieramento politico italiano. Pan ­nunzio era un antifascista addirittura emotivo, anche se perfettamente luci ­do e credo che, per averlo sofferto di persona, odiasse il regime mussoliniano collegato al nazismo più di qual ­siasi altro al mondo. E la premessa antifascista era quella che gli permet ­teva di condurre coerentemente la sua opposizione, altrettanto ferma, al comunismo. Ciò che Pannunzio ha cercato di tenere in piedi in Italia è stata la tradizione del grande e illu ­minato liberalismo borghese: e si è sempre battuto con una risolutezza e con una coerenza, che hanno finito col diventare un esempio per gli spi ­riti più avvertiti, per differenziare la sua opposizione al comunismo da quella dei privilegi, degli interessi del ­la destra reazionaria.

Se a questa linea si aggiunge anche il laicismo, si può capire quanto fosse ampio l’arco degli avversari contro cui Il Mondo faceva il viso dell’arme. Era dunque una battaglia di mino ­ranza, a cui partecipavano uomini che erano diventati amici per motivi idea ­li e che per il loro intransigente rigo ­re, spesso anche di tipo altero, solle ­vavano irritazione e antipatia. Si par ­lava di loro, stizzosamente, come del « club del Mondo ». Un club di altez ­zosi rompiscatole, di protestanti, di guastafeste, di snob. Apostrofi pesanti a cui quelli de Il Mondo si divertivano ad opporre un orecchio impassibile, quando non gli pigliava l’estro di pren ­dersi per il bavero da se stessi. Una volta Flaiano disse che i radicali de Il Mondo erano una « minoranza schiac ­ciante » e un’altra che costituivano « un pugno di uomini indecisi a tut ­to ».

Pannunzio aveva la vocazione del ­l’intellettuale impegnato, che, alla chiarezza dell’impostazione ideologica e politica, accompagnava una grande dirittura morale. In questo, egli era affine agli « uomini del Risorgimen ­to », evocava il temperamento dei De Sanctis, degli Spaventa, dei Croce, dei Salvemini. Una delle sue bestie nere era l’inclinazione, così frequente nei nostri uomini politici e nei nostri in ­tellettuali, al trasformismo, all’acco ­modamento, al « pateracchio », a voltar gabbana. La sua denuncia dei molti casi di trahison des clercs era parti ­colarmente appassionata. In questi ul ­timi anni, che furono anche gli ultimi della sua vita, ciò che temeva di più erano i sintomi di flirt tra forze cat ­toliche e comunisti, il così detto dia ­logo, gli spettri della « repubblica con ­ciliare ».

Eppure, con tutto il suo rigore, e con una ostinazione per cui gli amici lo rimproveravano scherzando d’esse ­re un « dittatore liberale » Mario Pan ­nunzio non aveva nulla né del morali ­sta, né del pedante. Era anzi esatta ­mente il contrario. Era soprattutto un anticonformista, un avversario di ogni forma di bigottismo. Contegnoso, i mo ­di impeccabili d’un signore d’altri tem ­pi, gli piaceva l’elegante irriverenza, l’erosione .dei luoghi comuni, la dissa ­crazione dei miti, l’ironia pungente e paradossale. In lui faceva capolino un po’ dello spirito dei libertini.

Una delle sue forme di indipenden ­za in cui pareva affiorare persino un puntiglio snobistico era quel suo non lasciarsi mai coinvolgere e tanto me ­no travolgere dalle mode. Sapeva che i veri valori non tramontano, che i princìpi profondi sono lenti ad evolve ­re sotto il frastornante e multiforme clamore dell’industria culturale e del ­le avanguardie. Da grande lettore, da uomo provvisto di un’ampia e solida cultura, non si lasciava afferrare dal complesso dell’ultimo grido, dalla pau ­ra di apparire superato: anzi mai il suo umore polemico si faceva acuto e brillante come quando pigliava per il bavero i facili superatori di tutto.

Non ho mai conosciuto un uomo più orgoglioso e insieme modesto, addirit ­tura schivo. Era duro e dolce, risoluto e timido. La sua onestà e il suo disin ­teresse erano di tipo plutarchiano. Per diciotto anni alla guida de Il Mondo, egli è stato un assiduo promotore di cultura: il suo giornale ha profuso intorno capitali di idee, di campagne, di orientamenti e di lezioni di stile che hanno lasciato una traccia pro ­fonda nella vita spirituale italiana. Non ha mai profittato dell’alto presti ­gio di cui era circondato per interessi personali o di carriera. La sua vita era modesta: fumava e leggeva.

Caro Manlio credo di poter dire sen ­za ombra di rettorica che ha dato più di quanto ha ricevuto. Non c’è in que ­sta Italia di notabili premiati un uomo più valoroso e più spoglio di pubblici onori. Ma fra i tanti titoli di nobiltà che gli si dovranno riconoscere, que ­sto non è uno dei meno significativi.

Cordialmente tuo
Alfredo Todisco


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