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LETTERATURA: I MAESTRI: Nero su nero

30 Ottobre 2018

di Leonardo Sciascia
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 10 ottobre 1969]

La campagna è quest’an ­no popolata di mostri. Un pecoraio, un contadino, una donna hanno visto avvicinar ­si a loro e poi fuggire una specie di scimpanzé irsuto, nerissimo e gigantesco. Molti contadini hanno visto la biddina, un serpente d’acqua, che però si trova benissimo anche in terra arsa, grosso quanto un braccio, lungo più di due metri, la testa dura ­mente crestata. Se ne favoleg ­giava negli anni della mia in ­fanzia; ma nessuno diceva al ­lora di averlo visto. Ora lo vedono in molti. E ci sono anche le guizzine, che per dia ­bolica metamorfosi nascono nell’acqua dai peli dei cavalli: della criniera, della coda. So ­no saettanti vipere d’ acqua, velenosissime.

A qualche chilometro, tra i templi di Agrigento, c’è poi un fantasma. Pare stia di ca ­sa in quello di Demetra. Esce di sera, baluginando. Si è ri ­velato come Petrone; ma forse è stato male inteso, è proba ­bile si tratti di Petronio, irre ­sistibilmente evocato da ben due Satyricon cinematografici.

Pare si stia aprendo un’era di mostri e fantasmi. Il « so ­prannaturale triste » di Chesterton sta per popolare il mondo, per invaderlo. Dal pagus arriverà alla metropoli. Inevitabilmente. El sueí±o de la razon produce monstruos.

*

E’ ormai difficile incontra ­re un cretino che non sia in ­telligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intel ­ligenti c’è stata sempre pe ­nuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpian ­to, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genui ­ni, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini.

*

Forse ingiustamente, irrive ­rentemente di certo, non sono mai riuscito a leggere Teilhard de Chardin, o a sentirlo soltanto citare, senza ricorda ­re quel tale del mio paese che usava atrocemente picchiare il suo asino e a chi gliene fa ­ceva rimprovero sempre ri ­spondeva: «E iddu pirchì sceccu si fici? ». (E lui perché si è fatto asino?).

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Leggo su un quotidiano di un premio letterario, e della rosa di libri da cui la giuria estrarrà il vincitore. E ad un certo punto: Sette zero zero riformatore di Franco Ven ­turi, edizione Einaudi. Un at ­timo di vuoto, di smarrimen ­to, prima che nella mia men ­te il « sette zero zero » diven ­ti « 700 » e poi « settecento ». Che è in effetti, rovesciato, il breve processo che ha dato luogo all’errore. E però l’er ­rore non ci sarebbe stato se ad un certo punto la cifra che era stata sostituita alla parola non si fosse incagliata nella mente di un addetto alla te ­lescrivente o di un linotypista che non aveva il più vago sospetto del secolo XVIII riformatore ed era invece pron ­to a riconoscere nella cifra un collega o rivale di « 007 » da ­tosi a chi sa quali segrete e avventurose opere di riforma: e deliberatamente volle sciogliere le cifre in lettere, ad evitare che qualcuno leggesse « settecento » là dove inequivocabilmente si doveva legge ­re « sette zero zero ».

Ma per quanto sia facile trovare la genesi e modalità dell’errore, difficile è riderci sopra E sarà magari una esa ­gerazione: ma per me è il più terrificante errore in cui mi sia imbattuto sulla carta stam ­pata. Che le barricate di assi a Praga siano diventate nel ti ­tolo di un giornale « barrica ­te di sessi », può anche essere uno di quegli errori che Savinio attribuiva al subconscio o alla segreta intelligenza della macchina più che alla disat ­tenzione del tipografo; ma il « settecento riformatore » che diventa « sette zero zero ri ­formatore » è ben diverso fe ­nomeno: sorge come su una « tabula rasa », e assurge a simbolo di una violenza che sta per spazzare ogni traccia di civiltà.

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Nell’atrio di un albergo in cui sta svolgendosi un conve ­gno sulle condizioni della Si ­cilia, il deputato comunista C. mi racconta di un comizio che B., uomo di governo, ha te ­nuto in un paese vicino. « Gli emigranti â— ha detto B. â— gente inquieta, gente che ha voglia di avventura… »; e in quel paese, commenta C. con amarezza, mancano cinquemila persone: tutte scappate per gusto d’avventura.

Un signore che stava passando e si era fermato a sentire l’aneddoto, a questo punto interviene: dice: « Io B. non lo posso vedere » (cioè: mi è antipatico, lo detesto) « ma su questo punto ha ragione »; e tira via verso la salita del convegno. Domando a C. chi è quel signore. Con un sospiro di sconforto mi risponde che è un suo collega, eletto come indipendente nella lista del suo stesso partito.

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Grazie a coloro che detta ­no moda (di « mal protesi nervi » in prevalenza) l’eros e tutto un rameggio di varici.

Stando le cose come stan ­no, o come precipitano, il Vangelo secondo Tommaso dovrebbe essere diffuso e ci ­tato quanto il libretto rosso di Mao. Bisognerebbe farne un libretto verde: da intende ­re, si capisce, alla lettera; al di qua dell’ermetico splendo ­re, della complessità, della sot ­tigliezza. « E se voi fate del maschio e della femmina una cosa sola, affinché il maschio non sia più maschio e la fem ­mina non sia più femmina… »; « Quando vi spoglierete senza provar vergogna, quando vi toglierete gli abiti e li posere ­te ai vostri piedi come fanno i bimbi, quando li calpestere ­te! Allora diventerete i figli di Colui che è vivo, e non avrete più timore »; e così via. E in questo Vangelo, co ­me in quello che Clemente Alessandrino dice degli egizia ­ni, c’è tanta misoginia quan ­to nella Histoire d’O (ma per sua parte Clemente Alessan ­drino polemizza contro tanta misoginia, contro la condan ­na del matrimonio: e si può dire che in suo nome la bella teologa di Ginevra cede a Ca ­sanova).

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F. mi racconta: « A Montevago, a Santa Ninfa, qualche giorno dopo il terremoto, la gente quasi aveva dimenticato l’orrore di quella notte e or ­mai soltanto si lamentava del ­la disorganizzazione, delle storture e lungaggini burocra ­tiche, delle infami speculazio ­ni che già sorgevano. Raccon ­tava episodi, faceva nomi. Ad ogni nome di burocrate inca ­pace, di politico speculatore, un tale vestito di scuro, ma ­gro, d’accento settentrionale, rivolgendosi a chi dalla faccia e dai vestiti gli pareva non fosse del luogo, domandava ‘ Ma perché non lo lincia ­no? ‘ col tono meravigliato di chi scopre che una cosa del tutto ovvia in Lombardia o in Toscana in Sicilia non si pra ­ticava. Mi dava un po’ di fa ­stidio. Ho domandato chi fos ­se. Ebbene, era un prete ».

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La dominazione romana ha lasciato nel dialetto siciliano, o almeno in quello della Sicilia più interna, più remota, im ­pressioni che sono diventa ­te parola-idea, parola-giudizio (parole che vanno scomparen ­do, e perciò, dopo averle risentite questa estate, da un vecchio contadino, voglio non dimenticarle). Si dice latino, latina, di una persona alta e dritta; e andar latino vuol di ­re camminare dritto, difilato, senza soste. Latino latino è poi l’andare alla meta come ad un bersaglio. Altra parola che risponde alla stessa idea: il romano, che è il peso che scor ­rendo sull’asta-indice della sta ­dera la fa stare, nel giusto peso, ad angolo retto rispetto alla cosa pesata. Ma più im ­pressiona il verbo catuniari, catoneggiare. E’ un verbo che appartiene alla vita domestica e mai viene usato per fatti della vita pubblica. Catunìa il marito che tiene in tribolo la moglie per gelosia, per avari ­zia, per antipatia verso i pa ­renti di lei; il padre che giu ­dica e censura la moda di cui le figlie si vestono; il figlio che vuol fare qualcosa che i genitori non possono o non vogliono concedergli; e oggi catuniano sopratutto i vecchi, che non capiscono le forme di spreco che la vita va assumen ­do, e ne fanno un continuo lamento, predicendo rovina. Al contrario delle altre due parole, che appena sopravvi ­vono, quest’ultima è di vivis ­simo e continuo uso. Non c’è persona che non si dica vitti ­ma, nella famiglia del catu ­niari di un’altra o di tutte le altre. La famiglia è ormai tutto un penoso groviglio di catoneggiamenti. Nessuno va latino, il pesare è diventato frodare; e tutti infieriscono a catoneggiare su tutti. E sto catoneggiando anch’io, me ne rendo conto.

*

« La pena mia non è che si rubi; è che io non mi ci trovo in mezzo ». Questa frase, che ho sentito pronunciare qual ­che anno fa con tono di scher ­zo, a velarne la viscerale sin ­cerità, è ormai sulle segrete bandiere di molti.

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L’architetto A., che in pro ­vincia lavora molto e molto ha da fare con enti pubblici, mi racconta di un incontro che ha avuto, dopo tanti anni, con un suo compagno di scuola di ­ventato pezzo grosso. Dopo un quarto d’ora di reciproche in ­formazioni e di « dimanne a testa per aria », direbbe Belli, si ritrovarono a scherzare pe ­santemente, come quando era ­no studenti. E l’architetto, ri ­ferendosi a una voce che ve ­ramente correva, gli fa: « Mi hanno detto che ti sei fatto ladro ». Senza scomporsi l’al ­tro domanda: « E tu? ». « Di ­cono di no », risponde l’archi ­tetto. « Allora sei tu il vero ladro: rubi ai tuoi bambini », ribatte il pezzo grosso. « E perché? E come? ». « Perché i miei bambini qualche milione ce l’hanno, di franchi svizzeri e nelle banche svizzere. E i tuoi? ».

La religione della famiglia (della famiglia che è ormai tutto un catuniari) arriva a queste vette.

 

 


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart