LETTERATURA: I MAESTRI: Nero su nero30 Ottobre 2018 di Leonardo Sciascia La campagna è quest’an no popolata di mostri. Un pecoraio, un contadino, una donna hanno visto avvicinar si a loro e poi fuggire una specie di scimpanzé irsuto, nerissimo e gigantesco. Molti contadini hanno visto la biddina, un serpente d’acqua, che però si trova benissimo anche in terra arsa, grosso quanto un braccio, lungo più di due metri, la testa dura mente crestata. Se ne favoleg giava negli anni della mia in fanzia; ma nessuno diceva al lora di averlo visto. Ora lo vedono in molti. E ci sono anche le guizzine, che per dia bolica metamorfosi nascono nell’acqua dai peli dei cavalli: della criniera, della coda. So no saettanti vipere d’ acqua, velenosissime. A qualche chilometro, tra i templi di Agrigento, c’è poi un fantasma. Pare stia di ca sa in quello di Demetra. Esce di sera, baluginando. Si è ri velato come Petrone; ma forse è stato male inteso, è proba bile si tratti di Petronio, irre sistibilmente evocato da ben due Satyricon cinematografici. Pare si stia aprendo un’era di mostri e fantasmi. Il « so prannaturale triste » di Chesterton sta per popolare il mondo, per invaderlo. Dal pagus arriverà alla metropoli. Inevitabilmente. El sueí±o de la razon produce monstruos. * E’ ormai difficile incontra re un cretino che non sia in telligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intel ligenti c’è stata sempre pe nuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpian to, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genui ni, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini. * Forse ingiustamente, irrive rentemente di certo, non sono mai riuscito a leggere Teilhard de Chardin, o a sentirlo soltanto citare, senza ricorda re quel tale del mio paese che usava atrocemente picchiare il suo asino e a chi gliene fa ceva rimprovero sempre ri spondeva: «E iddu pirchì sceccu si fici? ». (E lui perché si è fatto asino?). * Leggo su un quotidiano di un premio letterario, e della rosa di libri da cui la giuria estrarrà il vincitore. E ad un certo punto: Sette zero zero riformatore di Franco Ven turi, edizione Einaudi. Un at timo di vuoto, di smarrimen to, prima che nella mia men te il « sette zero zero » diven ti « 700 » e poi « settecento ». Che è in effetti, rovesciato, il breve processo che ha dato luogo all’errore. E però l’er rore non ci sarebbe stato se ad un certo punto la cifra che era stata sostituita alla parola non si fosse incagliata nella mente di un addetto alla te lescrivente o di un linotypista che non aveva il più vago sospetto del secolo XVIII riformatore ed era invece pron to a riconoscere nella cifra un collega o rivale di « 007 » da tosi a chi sa quali segrete e avventurose opere di riforma: e deliberatamente volle sciogliere le cifre in lettere, ad evitare che qualcuno leggesse « settecento » là dove inequivocabilmente si doveva legge re « sette zero zero ». Ma per quanto sia facile trovare la genesi e modalità dell’errore, difficile è riderci sopra E sarà magari una esa gerazione: ma per me è il più terrificante errore in cui mi sia imbattuto sulla carta stam pata. Che le barricate di assi a Praga siano diventate nel ti tolo di un giornale « barrica te di sessi », può anche essere uno di quegli errori che Savinio attribuiva al subconscio o alla segreta intelligenza della macchina più che alla disat tenzione del tipografo; ma il « settecento riformatore » che diventa « sette zero zero ri formatore » è ben diverso fe nomeno: sorge come su una « tabula rasa », e assurge a simbolo di una violenza che sta per spazzare ogni traccia di civiltà. * Nell’atrio di un albergo in cui sta svolgendosi un conve gno sulle condizioni della Si cilia, il deputato comunista C. mi racconta di un comizio che B., uomo di governo, ha te nuto in un paese vicino. « Gli emigranti â— ha detto B. â— gente inquieta, gente che ha voglia di avventura… »; e in quel paese, commenta C. con amarezza, mancano cinquemila persone: tutte scappate per gusto d’avventura. Un signore che stava passando e si era fermato a sentire l’aneddoto, a questo punto interviene: dice: « Io B. non lo posso vedere » (cioè: mi è antipatico, lo detesto) « ma su questo punto ha ragione »; e tira via verso la salita del convegno. Domando a C. chi è quel signore. Con un sospiro di sconforto mi risponde che è un suo collega, eletto come indipendente nella lista del suo stesso partito. * Grazie a coloro che detta no moda (di « mal protesi nervi » in prevalenza) l’eros e tutto un rameggio di varici. Stando le cose come stan no, o come precipitano, il Vangelo secondo Tommaso dovrebbe essere diffuso e ci tato quanto il libretto rosso di Mao. Bisognerebbe farne un libretto verde: da intende re, si capisce, alla lettera; al di qua dell’ermetico splendo re, della complessità, della sot tigliezza. « E se voi fate del maschio e della femmina una cosa sola, affinché il maschio non sia più maschio e la fem mina non sia più femmina… »; « Quando vi spoglierete senza provar vergogna, quando vi toglierete gli abiti e li posere te ai vostri piedi come fanno i bimbi, quando li calpestere te! Allora diventerete i figli di Colui che è vivo, e non avrete più timore »; e così via. E in questo Vangelo, co me in quello che Clemente Alessandrino dice degli egizia ni, c’è tanta misoginia quan to nella Histoire d’O (ma per sua parte Clemente Alessan drino polemizza contro tanta misoginia, contro la condan na del matrimonio: e si può dire che in suo nome la bella teologa di Ginevra cede a Ca sanova). * F. mi racconta: « A Montevago, a Santa Ninfa, qualche giorno dopo il terremoto, la gente quasi aveva dimenticato l’orrore di quella notte e or mai soltanto si lamentava del la disorganizzazione, delle storture e lungaggini burocra tiche, delle infami speculazio ni che già sorgevano. Raccon tava episodi, faceva nomi. Ad ogni nome di burocrate inca pace, di politico speculatore, un tale vestito di scuro, ma gro, d’accento settentrionale, rivolgendosi a chi dalla faccia e dai vestiti gli pareva non fosse del luogo, domandava ‘ Ma perché non lo lincia no? ‘ col tono meravigliato di chi scopre che una cosa del tutto ovvia in Lombardia o in Toscana in Sicilia non si pra ticava. Mi dava un po’ di fa stidio. Ho domandato chi fos se. Ebbene, era un prete ». * La dominazione romana ha lasciato nel dialetto siciliano, o almeno in quello della Sicilia più interna, più remota, im pressioni che sono diventa te parola-idea, parola-giudizio (parole che vanno scomparen do, e perciò, dopo averle risentite questa estate, da un vecchio contadino, voglio non dimenticarle). Si dice latino, latina, di una persona alta e dritta; e andar latino vuol di re camminare dritto, difilato, senza soste. Latino latino è poi l’andare alla meta come ad un bersaglio. Altra parola che risponde alla stessa idea: il romano, che è il peso che scor rendo sull’asta-indice della sta dera la fa stare, nel giusto peso, ad angolo retto rispetto alla cosa pesata. Ma più im pressiona il verbo catuniari, catoneggiare. E’ un verbo che appartiene alla vita domestica e mai viene usato per fatti della vita pubblica. Catunìa il marito che tiene in tribolo la moglie per gelosia, per avari zia, per antipatia verso i pa renti di lei; il padre che giu dica e censura la moda di cui le figlie si vestono; il figlio che vuol fare qualcosa che i genitori non possono o non vogliono concedergli; e oggi catuniano sopratutto i vecchi, che non capiscono le forme di spreco che la vita va assumen do, e ne fanno un continuo lamento, predicendo rovina. Al contrario delle altre due parole, che appena sopravvi vono, quest’ultima è di vivis simo e continuo uso. Non c’è persona che non si dica vitti ma, nella famiglia del catu niari di un’altra o di tutte le altre. La famiglia è ormai tutto un penoso groviglio di catoneggiamenti. Nessuno va latino, il pesare è diventato frodare; e tutti infieriscono a catoneggiare su tutti. E sto catoneggiando anch’io, me ne rendo conto. * « La pena mia non è che si rubi; è che io non mi ci trovo in mezzo ». Questa frase, che ho sentito pronunciare qual che anno fa con tono di scher zo, a velarne la viscerale sin cerità, è ormai sulle segrete bandiere di molti. * L’architetto A., che in pro vincia lavora molto e molto ha da fare con enti pubblici, mi racconta di un incontro che ha avuto, dopo tanti anni, con un suo compagno di scuola di ventato pezzo grosso. Dopo un quarto d’ora di reciproche in formazioni e di « dimanne a testa per aria », direbbe Belli, si ritrovarono a scherzare pe santemente, come quando era no studenti. E l’architetto, ri ferendosi a una voce che ve ramente correva, gli fa: « Mi hanno detto che ti sei fatto ladro ». Senza scomporsi l’al tro domanda: « E tu? ». « Di cono di no », risponde l’archi tetto. « Allora sei tu il vero ladro: rubi ai tuoi bambini », ribatte il pezzo grosso. « E perché? E come? ». « Perché i miei bambini qualche milione ce l’hanno, di franchi svizzeri e nelle banche svizzere. E i tuoi? ». La religione della famiglia (della famiglia che è ormai tutto un catuniari) arriva a queste vette.
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