LETTERATURA: I MAESTRI: Pasquale4 Ottobre 2018 di Roberto Ridolfi Tra le facezie che andavano attorno per le caserme quando ebbi anch’io a bazzi carle, m’è rimasta in mente la riposta di un candidato all’esame di caporale. Richiesto di dar l’esempio di una cosa invisibile, «’A giraffa », fa quello. « Come? Con un collo lungo così, che si vede lontano un miglio? ». E l’esaminato: « Ma io non l’aggio mai vista ». Ebbene, per me, quand’ero bambino e perfino grandicello, la nostra fat toria di Pontassieve, benché tutt’altro che piccola, era invisibile come per colui la gi raffa. Ne morivo dalla voglia, ma gli anni passavano e non c’era verso che qualcuno mi ci portasse: mi appariva lontana, irraggiungibile, quanto allora la Luna. Aveva un nome vetusto e grandioso, il Palagio, evocatore di antichi fasti; e anche questo non faceva che infiammare la mia fantasia fanciullesca. Il palagio, a di re il vero, non c’era e non credo ci fosse mai stato: c’era un vecchio fabbricato in riva alla Sieve, con due o tre stan ze padronali, altre per il per sonale di fattoria, granai, can tine, frantoio. Certo, qualche stanza aveva una sua nobiltà, né vi mancavano segni di tempi migliori: un gran ca mino e altro pietrame cinquecentesco intagliato, con gli stemmi della famiglia, che mio padre smurò e portò seco co me Dei Penati quando anche quella terra s’involò dagli avanzi del patrimonio avito: vien fatto di pensare ai feudi di casa Salina, rassomigliati nel Gattopardo a rondini set tembrine. Coi treni di allora, anche con quelli che il linguaggio ferroviario chiamava aulica mente « omnibus », e il volgo « treni lumaca », per arrivare a Pontassieve ci si metteva una mezz’oretta, non più; e, una volta scesi dal treno, s’era già in fattoria. Ma per me rimaneva una terra remota e favolosa, un paese di Bengo di, dal quale tutti i venerdì arrivava ogni ben di Dio: burro che pareva panna mon tata, giganteschi tacchini, cac ciagione, frutta di una gros sezza sbalorditiva: prodotti, insomma, per quantità e qua lità non paragonabili a quelli del poggio arido e magro dove vivevo: a me facevano l’ef fetto che dovettero fare agli Ebrei nel deserto di Pharan al ritorno degli esploratori, i frutti della Terra promessa. * Dopo quelle nature morte, la prima cosa che vidi di Pontassieve fu Pasquale, il fattore, e subito mi parve de gno della fattoria dei miei sogni. Era un omaccione alto e grosso, con una gran barba bianca intorno a una gran bocca rossa, ridente, le gote rubiconde, un viso da cuor contento. Aveva una pancet ta importante, sulla quale trionfava, andando da un ta schino all’altro del gilè, che portava d’estate e d’inverno, una catena d’argento grossa come quella di un pozzo. Veniva a Firenze tutti i ve nerdì, per il famoso mercato. In quelle occasioni ostentava un enorme portafoglio di pel le gialla, a organino, che gli gonfiava la cacciatora di vel luto. Per ogni fattore che si rispettasse, il portafoglio rap presentava un blasone ed un simbolo: dalla sua grossezza e gonfiezza si misuravano l’importanza e l’opulenza del la fattoria. Quello di Pasqua le non era un portafoglio, era un monumento al Portafoglio: per farlo così gonfio doveva metterci più carta di giornali che carta moneta. Credo che il brav’uomo fos se nato in casa, cioè in qual che altra fattoria della fami glia. La devozione ai padro ni era allora una qualità piut tosto comune e ordinaria, ma la sua era anche per quel tempo straordinarissima: tra boccava nel fanatismo. Un al tro fanatismo egli aveva: quel lo della caccia alla lepre. Quando (beato lui) andava a Pontassieve il mio fratello maggiore, Pasquale si sareb be sentito disonorato se non gliene avesse fatta ammazza re almeno una. Una, a ogni buon conto, gliela faceva tro vare bella e morta perché al ritorno trionfale del padron cino non mancasse quel ne cessario trofeo. E una la fece ammazzare anche a me, la prima volta che mi riuscì, come Dio vol le, di metter finalmente pie de nella mia Terra promes sa: avrò avuto forse tredici anni. Mi sembra una storia da raccontare. Non racconte rò, per non divagar troppo, l’arrivo al Palagio, le mara viglie della vigilia, l’inconsue to cerimoniale della fattoressa che mi svegliò avanti gior no a lume di candela. Quella mattina, Pasquale aveva mes so un tallo sul vecchio; pa reva perfino un po’ brillo, sebbene brillo non fosse mai, almeno prima della levata del sole. Non doveva neppure es sere andato a letto, perché, quando uscivo di camera con gli occhi pieni di sonno, lo vidi tornare allora dalla campagna, il suo cappellaccio in capo, l’eterno trombone in spalla e un sacco vuoto tra le mani. Mi portò in un bosco, che c’è ancora, dirimpetto alla ca sa, da cui lo divide soltanto la Sieve: un ciglione che vien giù a precipizio sul fiume. Al beggiava. Il traghetto, lo sciacquio lieve della corrente, i colori del cielo riflessi nell’acqua m’incantarono. Non stavo più nella pelle; anche Pasquale non si capiva che avesse, frettoloso e impazien te com’era. Messi che avemmo i piedi sull’altra riva, caricò il fucile, me lo dette con mille raccomandazioni, m’insegnò un viottolino erto, a mezza costa, che saliva obliquamen te nel folto; lui ne prese uno quasi pianeggiante, fra il fiu me e la proda boscosa. Si camminava da pochi minuti, badando di procedere del pari: semmai, ero io che dinanzavo Pasquale di qualche passo. A un tratto, mi vocia: â— Signorino, la lepre, la lepre! â— Sentii un leggero sfrascare giù in basso; aguz zai gli occhi e vidi balugi nare un che di fulvo e di bianco in un cespuglio di rovi, a un buon tiro di schioppo sotto di me e quasi altrettan to davanti a Pasquale, che s’era fermato. Avventarci una schioppettata, veder l’animale rovesciarsi sulla botta, avven tarmi anch’io a precipizio, col fucile e tutto, giù per quella costa scoscesa, rimbalzando di masso in masso, aggrappandomi ad ogni querciolo, rovi nando tra un rovinio di pie tre e di rami spezzati, fu tutt’una. Pasquale correva anche lui, con quel corpaccione, urlan do a perdifiato: â— Che fa, signorino? Signorino, che fa? Signorino, si fermi, si fermi costì! No, non venga più avanti, si fermi, permio! â— Avrà avuto paura che mi rompessi l’osso del collo, ma quel gridar disperato non lo capivo; meno ancora capivo quella corsa affannosa per arrivare prima di me. Lo ca pii quando, abbrancato all’ul timo querciolo che mi fece da freno, piombai sulla po vera lepre ancora scalciante nell’agonia: era legata con uno spago. Il pover’uomo giungeva in quel momento, trafelato, an simante. Aveva scelto il luo go, studiato il terreno, cal colati i tempi e le mosse come neppure Napoleone avrebbe saputo; aveva tutto pensato”, tutto previsto, ma non aveva potuto prevedere che io fossi così matto da buttarmi giù per quel rompicollo, col ri schio di sfracellarmi, arrivando prima che lui facesse a tempo a raccoglier la vittima e fare sparire lo spago. Stette lì, senza dir nulla. Ero tutto graffiato, spellato, stracciato, e non mi domandò neppure se m’ero rotto qual cosa, oltre il fondo dei cal zoncini. Ecco, sarebbe basta to riderci sopra; ma nessuno dei due ne aveva voglia: io ero troppo indispettito; lui, troppo avvilito. Gli cascavano le braccia, gli cascava il lab bro di sotto, carnoso, gli ca scavano le gocce di sudore: dalla fronte, giù per le gote, gli gocciolavano lungo la bar ba bianca. Mi parvero troppe per quel poco di corsa; lo guardai meglio: i suoi occhi chiari, fedeli, erano pieni di lacrime. * Sull’onestà dei fattori, da una famosa parabola del Van gelo in giù, se ne sono dette di cotte e di crude; ma su quella di Pasquale chiunque avrebbe messo le mani nel fuoco: anche chi, per cose del genere, non le metterebbe nemmeno nell’acqua appena a bollore. Mio padre, uomo rigido e massaio, pur mantenendosi il lusso di un maestro di casa, voleva riveder da sé le bucce ai fattori. Una volta che Pa squale era a rendergli i conti, si vide metter dinanzi, ester refatto, un centesimino taglia to a metà: il buon uomo, avendo a spartire con qual che mezzadro una certa som ma che importava anche tan ti centesimi in numero dispa ri, aveva pensato bene di ri correre a quella salomonica divisione. Quando morì, lasciò erede mio padre. Era scapolo, ma aveva certi nipoti: chissà co sa si aspettavano dallo zio fattore, con quel po’ po’ di portafoglio a organino. Inve ce, fu trovata una busta gial la, contenente una lettera sua e un libretto postale; nella lettera diceva che si sentiva in dovere di restituire al pa drone il poco che gli era ri masto dei guadagni fatti con lui, scusandosi di non aver saputo risparmiare di più; nel libretto c’erano cinquecento lire. Lasciò anche, in un borsel lino, poche monete d’argento e di rame. Fra le quali (e fu l’unica cosa che mio padre accettasse, dopo averglielo ri fiutato quel giorno, non senza qualche corbellatura), il fa moso mezzo centesimo.
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