LETTERATURA: I MAESTRI: Perché vanno via?20 Aprile 2010 di Cesare Angelini In questo Manzoni è sempre possibile un supplemento di indagine. Per esempio, perché nell’epilogo del romanzo Renzo e Lucia partono dal paese nativo dopo che la provvidenza â— la regista dell’opera â— ha lavorato in cielo e in terra ad accomodare ogni cosa per farveli ritor nare a godere quella da un pezzo sospirata pace che si direbbe interamente goduta solo lì, al paese; dove, ha detto uno di loro, « nessuno avrebbe spinto al di là dei suoi monti neppure un desi derio fuggitivo, se una forza perversa non li avesse sbal zati lontano ». E ora che la forza perver sa si è placata con la morte di don Rodrigo, ed essi vi sono tornati sani e salvi e finalmente sposi, « gli voltano le spalle » e se ne vanno via con una decisione che arriva pressoché improvvisa. Veramente, nel corso dei dolorosi accidenti, non man cano accenni all’idea di la sciare il paese e andare a metter su casa altrove. Ma sapete che poco peso hanno quelle proposte e quei propo siti fatti nell’esasperazione di una persecuzione dalla quale non sanno come salvarsi. * Se già nel capitolo 3 °, a Renzo furibondo contro don Rodrigo (« Questa è l’ultima che fa quell’assassino ») Lu cia dice tutta spaventata: « Renzo, voi avete un me stiere e io so lavorare; an diamo tanto lontano che colui non senta più parlare di noi », è per offrire un altro e diver so spazio ai pensieri di Ren zo e distoglierlo dal fare uno sproposito. Nel capitolo 6 ° gli sposi rimasti promessi cer cano insieme con Agnese un modo di indurre don Abbon dio a maritarli, magari chiappandolo all’improvviso; per ché, dice Renzo, « maritati che fossimo… tutto il mondo è paese, e, a due passi da qui, sul bergamasco, chi lavo ra la seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante vol te mio cugino Bortolo m’ha fatto sollecitare di andar là a star con lui, che farei fortu na, come l’ha fatta lui ». Come dire: non potendo più vi vere tranquilli qui, andiamo a stare dove ci è offerto un la voro e un asilo sicuro. Il vagheggiamento di anda re sul bergamasco, per Renzo si fa subito urgente necessità dopo i fatti di Milano quan do è costretto a scappare in quella direzione per mettersi in salvo dalle manette e dai birri. E, giunto sull’altra riva dell’Adda, in terra di San Mar co, già immagina le accoglien ze del cugino e il guadagno che farà lavorando con lui. Insomma, fa i suoi piani: « Si fa scrivere alle due donne che vengano qui… Vengono quel le due donne, e si mette su casa. Curati, ce n’è per tutto ». Ma la soluzione che Renzo vagheggia, è proprio quella di chi ha perso ogni speranza di tornare al paese (« Sta lì, ma ledetto paese! »), tanto più ora che la forza perversa lo perseguita anche col mandato di cattura che l’ha colpito. Più tardi, nel capitolo 33 °, al cugino da cui si congeda solo per fare una scappata al paese e avere notizie di Lucia dopo la peste, promette di tornare da lui a lavorare, quando « verrà, accompagna to, a stabilirsi nel paese adottivo ». Sono sempre le proposte d’un pover’uomo, rassegnato a una sorte che non muta. Non diversamente va inteso il partito dell’impietosa vendita « di quel poco che hanno al sole » accennato nel capitolo 37 °. « Renzo aveva già preso il partito di disfarsi d’ogni cosa, a qualunque prez zo, e di impiegare nella nuo va patria quel tanto che ne potrebbe ricavare ». Accenni alla nuova patria, al paese adottivo, ce n’è più di uno; ma nessuno ci per suade che quella sia proprio la sua volontà, e non piut tosto l’inclemente volontà del le cose: le lacrimae rerum. Perciò, ci arrivan di sor presa, nel capitolo 38 °, le pa role di Renzo alle donne dopo un suo deludente incontro col sempre incerto don Abbondio: « Vedo che vuol essere una lungagnata. E’ meglio fare ad dirittura come dice lui: andar a maritarci dove andiamo a stare ». Renzo sa, è certo, che don Rodrigo, « il grande in ciampo », è morto; tuttavia è fin troppo chiaro che ora è venuto a patti con l’idea di andarsene. Ne gode don Abbondio che, prima alla « buona vedova » poi al nuovo marchese suc cessore di don Rodrigo, è lieto di raccontare che « que sti giovani e qui la nostra Agnese hanno già intenzione di spatriarsi, e io non saprei cosa dire; la patria è dove si sta bene ». * Con buona pace di don Abbondio, Renzo e Lucia pos sono star bene anche nella loro patria, al loro paese, ora che la forza perversa è inte ramente placata con la scom parsa di don Rodrigo e con l’assolutoria del bando; ora che ogni cosa è accomodata in loro favore, e lui stesso, don Abbondio, tra poco non aven do più alcun dubbio (« Ah è morto dunque! è proprio an dato! ») si offrirà di sposarli (« ho la consolazione di ma ritarvi io »); e il marchese li ospiterà nel suo palazzo per il pranzo di nozze e li servirà a tavola; da parere, insom ma, che il paese sia diventato tutta roba loro. Anche lo sta to economico di Renzo, tutto sommato, è quello di un pic colo benestante: la casetta, la vigna di nove o dieci perti che; più la casa di Lucia, e il campicello. Aggiungete il suo mestiere di filatore di seta, che è un capitale spe cialmente ora che la peste ha fatto tanti vuoti in paese e i rimasti vivi si possono con tare. Per tutto questo, la deci sione di Renzo ci giunge di sorpresa. Non risulta nemme no che ci sia stato dibattito tra loro, né che si sia sentito il parere di Agnese, sempre pronta a darlo per ogni cir costanza importante. Benché, a dir vero, un accenno vien fuori pure all’improvviso quando l’autore dice che « già da qualche tempo erano av vezzi tutt’e tre a riguardar come loro il paese dove an davano. Renzo l’aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando le agevolezze che ci trovavano gli operai, e cen to cose della bella vita che si faceva là ». Un cedimento dunque alla tentazione del benessere? Ci rincrescerebbe pensarli così improvvisamente imborghesiti, cioè impoveriti di quella vita semplice per la quale li ab biamo amati fin qui. Così la loro partenza ci la scia sempre più perplessi; sia perché pare annullare tutta l’azione della Provvidenza in loro favore, sia perché va contro la logica interna del romanzo, secondo la quale il ritorno al paese è il vero pre mio per quanto hanno patito; mentre il partire è un altro castigo, un castigo nuovo, sa pendo anche che partono sen za nessuna garanzia di sicu rezza e, giunti al nuovo paese, per urti e disgusti più d’uno, devon presto lasciarlo per un altro. * Ma, dice l’autore, « non si pensò che a far fagotti e a mettersi in viaggio. Casa Tramaglino per la nuova pa tria! ». Troppa euforia in que sto momento di addio, e le parole suonano un poco im pietose. Né meno disinvolte sono l’altre che seguono: « Chi domandasse se ci fu dolore in distaccarsi dal paese nati vo, da quelle montagne, ci fu di sicuro. Bisogna dire che non fosse molto forte, perché avrebbero potuto risparmiar selo stando a casa loro ». Le amare vicende che han no via via alimentato nei let tori un sentimento di comu nione con quella terra, lo avrebbero viceversa affievoli to nei nostri personaggi concresciuti con quelle stesse zol le, ognuna delle quali ha, per loro, una voce. E la partenza par svuotare della sua umana commozione un altro Addio rimasto nel cuore di tutti; l’addio a quei monti, a quelle acque, a quel paese, a quella chiesa, a quella casa. Ci chiedevamo perché par tono… Non è facile trovare una risposta. Ed è proprio il non poterla trovare che mor tifica l’epilogo del romanzo: con quei segni di stanchezza che i lettori vi notano, con quel senso di liquidazione troppo frettolosa; quasi un rallentarsi dell’impegno senti mentale dell’autore per il suo racconto e per i personaggi.
Letto 1863 volte. | ![]() | ||||||||||
Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: I MAESTRI: Perché vanno via? — 20 Aprile 2010 @ 11:45
[…] Approfondimento fonte: Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: I MAESTRI: Perché vanno via? […]
Commento by Carlo Capone — 20 Aprile 2010 @ 23:08
Siamo realisti, mica fanno una cosa sbagliata? ma avete visto come è ridotto il paese natio dopo la peste? casolari abbandonati, campi deserti, poca gente per strada, alcuni impazziti (il fratello di Tonio: “A chi la tocca la tocca”),. Verrebbe da dire che l’idillio si è interrotto, che il velo dell’innocenza sia stato squarciato dagli orribili fatti accaduti. A chi non verrebbe la tentazione di cambiare aria? e poi: il disegno della provvidenza è compiuto, i sinceri d’animo hanno vinto, i falsi, i malvagi, i codardi (salvo uno, ma i raccomandati esistono anche tra i personaggi…) tutti morti o sconfitti, qualcuno di essi addirittura convertito, insomma in questo persino eccessivo trionfo del bene il realismo manzoniano resta intatto. Il paradiso è perduto per sempre.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 20 Aprile 2010 @ 23:16
Conoscevi, Carlo, Cesare Angelini? Da giovane lo leggevo con avidità. Era un sacerdote, grande studioso del Manzoni.
Commento by Carlo Capone — 21 Aprile 2010 @ 11:02
Non lo conoscevo ma l’articolo mi ha colpito parecchio. L’addio al paese era un aspetto che non ricordavo più. L’osservazione di Angelini è indubbiamente acuta.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 21 Aprile 2010 @ 11:11
Troverai altre cose di lui. Avrai notato il suo stile, lucido, pulito, invidiabile.
Commento by Carlo Capone — 21 Aprile 2010 @ 14:24
Ottimo, Bart, sono un fervente manzoniano ( ma non da strapazzo, come affermava Carducci in Davanti San Guido :-)), lo sono diventato ben oltre gli anni del Liceo.
Stesse considerazioni per Carducci, da noi maturandi del 69 detestato: retorico, declamatorio (” il poeta è un grande artiere…) , cantore dell’Italia umbertina. Poi succede che la mente lavori, , esamini nuovi punti di vista, pur non avendo razionalizzato. Un giorno ti ritrovi fra le mani un’antologia, vai d’istinto alle pagine carducciane e lo scopri torbido precursore del 900. Ad esempio c’è la chiusa di Alla stazione una mattina di autunno, in cui, messi da parte gli oh e ah , mostra il fondo di un animo incerto e oscuro (Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,/meglio quest’ombra, questa caligine/ io voglio io voglio adagiarmi / in un tedio che duri infinito.).
Lo stesso smarrimento dinanzi alla morte che si riscontra in MORS NELL’EPIDEMIA DIFTERICA
Quando a le nostre case la diva severa discende,
da lungi il rombo de la volante s’ode,
e l’ombra de l’ala che gelida gelida avanza
diffonde intorno lugubre silenzio.
Sotto la veniente ripiegano gli uomini il capo,
ma i sen feminei rompono in aneliti.
Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
non corre un fremito per le virenti cime:
immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
e solo il rivo roco s’ode gemere.
Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
gli arbusti lieti di lor rame giovani;
miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
coglie le spose pie, le verginette vaghe
ed i fanciulli: rosei tra l’ala nera ei le braccia
al sole a i giuochi tendono e sorridono.
Ahi tristi case dove tu innanzi a’ ví³lti de’ padri,
pallida muta diva, spegni le vite nuove!
Ivi non più le stanze sonanti di risi e di festa
o di bisbigli, come nidi d’augelli a maggio:
ivi non più il rumore de gli anni lieti crescenti,
non de gli amor le cure, non d’imeneo le danze:
invecchian ivi ne l’ombra i superstiti, al rombo
del tuo ritorno teso l’orecchio, o dea.
[ 27 giugno 1875 – 19 giugno 1877 ].
Commento by Carlo Capone — 21 Aprile 2010 @ 14:27
Bart, scusami per il pasticcio nel post 6. Poiché devo scappare per un appuntamento urgente, se leggi prima che io rientri e soprattutto hai tempo, potresti ‘raddrizzarmi’ il post qui sopra? l’editor si era un po’ imbizzarrito
perdona ancora e saluti
Carlo
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 21 Aprile 2010 @ 14:58
Fatto.