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LETTERATURA: I MAESTRI: Potosí­

20 Marzo 2018

di Alberto Moravia
[dal “Corriere della Sera”, martedì 10 febbraio 1970]

La Paz. febbraio.

L’aeroporto di La Paz a quattromila metri di altezza pare nient’altro che un mi ­nimo lembo, dello sterminato aeroporto che è l’altipiano boliviano. L’altipiano è deserto, spianato e vertiginosamente ventoso e luminoso come san ­no esserlo soltanto le piste degli aeroporti. Di un colore brullo uniforme, l’altipiano fugge d’ogni parte verso re ­moti orizzonti circolari dai quali si affaccia, bizzarramen ­te, tutta una fila di picchi ne ­vosi. E’ la cordigliera Real, la catena andina al di là della quale la Bolivia, paese dua ­listico, precipita senza transi ­zione nelle bassure tropicali. Non ci sono che due piccoli aeroplani da turismo, ad una sola elica, nell’aeroporto. Trappoco una di queste libellule bianche e azzurre ci porterà, sgattaiolando intorno i picchi, a Potosí­, la città morta del ­l’argento.

Saliamo, ci chiudiamo nel ­l’abitacolo non più grande di quello di una comune auto ­mobile. Il pilota, un capitano dell’aviazione militare boliviana, non dispone, per dirigersi, che di una piccola carta geografica sulla quale con una matita tira una linea retta da La Paz a Potosí­. Volerà tra rupi altissime, al di sopra di voragini spalancate, servendo ­si unicamente di questa carta.

Partiamo. L’aeroplano rom ­ba, ma neppure tanto, corre un poco sulla pista e quindi decolla e si dirige con esaspe ­rante lentezza (duecento chi ­lometri all’ora) verso le mon ­tagne all’orizzonte. Sorvolia ­mo La Paz, che per proteg ­gerla dai venti, gli spagnoli hanno costruito in fondo ad una specie di cratere dalle pa ­reti erose, di un giallo leoni ­no, che ricordano le crete di Siena; sorvoliamo ancora per un po’ l’altipiano; quindi en ­triamo tra le montagne.

*

La Bolivia è un paese di miniere. O meglio è un paese di contadini che per sua di ­sgrazia è ricchissimo di mi ­nerali. Gli Incas conoscevano le miniere; ma la loro civiltà comunitaria, isolata tra le An ­de e l’oceano, era per forza di cose disinteressata; e perciò si servivano dei metalli sol ­tanto per scopi domestici. Gli spagnoli invece erano dei co ­lonialisti, i primi, in ordine di tempo, del mondo moderno. E’ interessante notare co ­me all’origine del colonialismo spagnolo c’è una deviazione psicologica che forse riguarda più il moralista che lo scienziato di cose economiche. La idea dell’arricchimento facile, senza lavoro, per rapina o per fortuna o per tutte e due, ha corrotto in partenza la conquista dell’America. Il mito asia ­tico dell’oro, dell’argento, delle pietre preziose, delle essen ­ze rare, delle spezie si frappo ­neva come un miraggio tra gli occhi dei soldati spagnoli e la umile realtà primitiva del nuovo mondo. Purtroppo que ­sto mito trovò una conferma nella natura e fu allora la rovina della Bolivia. L’agricoltura, un tempo pianificata con complicati sistemi di irrigazio ­ne, fu lasciata decadere fino all’attuale livello di mera sus ­sistenza; gli indios furono av ­viati in massa alle miniere con metodi schiavistici.

Volando sulla cordigliera Real, tutto questo si può ve ­dere a occhio nudo. Giù, giù, in fondo alle vallate anguste, si aprono ogni tanto dei pic ­coli slarghi e sopra un ripia ­no si scorgono tanti rettangolini grigi disposti in sim ­metria. Al di sopra di questi rettangolini incombono altissi ­me montagne brulle e dirupa ­te che, ad uno sguardo atten ­to, si rivelano tutte sforac ­chiate di caverne oscure. Sono le miniere, le famose, funeste miniere d’oro, d’argento, di an ­timonio, di zinco, di piombo, di stagno, di rame della Bo ­livia. Guardando a quei miseri villaggi sprofondati nelle gole solitarie si capiscono tan ­te cose: l’isolamento assoluto dei minatori, causa di conti ­nui moti rivoluzionari che mi ­rano, a ben guardare, a inse ­rire quelle sperdute comunità nella vita sociale e politica del paese; le immense difficoltà dei trasporti del minerale che gli spagnoli avevano risolto con l’asservimento degli india ­ni ma che oggi, dopo la na ­zionalizzazione di due terzi delle miniere, rende passivi i bilanci delle amministrazioni statali.

*

Ecco finalmente Potosí­ La sorvoliamo planando obliqua ­mente. Potosí­ appare come una città testuggine, a causa dei tetti accostati come le pia ­stre, appunto, della corazza della tartaruga. L’aeroplano continua a planare tutt’intorno l’arida nuda valle, ed ecco ci viene incontro la celebre montagna triangolare che do ­mina Potosí­, il Cerro Rico. E’ una montagna brulla, color tabacco, sparsa delle solite caverne oscure. Da questa montagna, gli economisti mo ­derni calcolano che la corona di Spagna ha estratto in tre secoli per un valore di un mi ­liardo di dollari di argento. Nel Seicento, da Potosí­ veniva la metà dell’argento di tutta Europa. A Potosí­, più poeti ­camente, dicono che con l’ar ­gento ricavato dal Cerro Rico si potrebbe costruire un ponte tutto d’argento massiccio dalla città fino alla lontanissi ­ma Madrid.

Potosí­ è una città coloniale spagnola del tipo di quelle messicane per esempio Oaxaca. C’è la solita plaza, i soliti grandi alberi fronzuti, le solite panchine, la solita catte ­drale barocca. Soltanto, a dif ­ferenza delle città messicane, Potosí­ è morta, di una morte antica che non risale a ieri ma al Settecento, quando le miniere d’argento, esaurite, non pagarono più le spese dell’estrazione. Potosí­ è dunque la città simbolica del colonia ­lismo spagnolo: nata con l’ar ­gento, è morta con l’argento. La sua vita è stata anche d’argento, poiché, per cupidigia del prezioso metallo, ci sono state, a Potosí­, perfino delle guerre civili. Di questo parere, del resto, è anche l’anonimo poeta che ha scritto, verso il Settecento, il poema « Testa ­mento di Potosí­ », alla ma ­niera dei testamenti di Franí§ois Villon. Il poema è un elenco di lasciti ora descrittivi e ora burleschi fatti dalla ce ­lebre città in punto di morte. Tra le altre cose, Potosí­ lascia a Dio la propria anima; la quale, però come nota ironi ­camente il poeta, es la plata pura, è fatta di puro argento.

Naturalmente che il centro di una città così emblematica non sia, a ben guardare, la cattedrale bensì il famoso Palazzo della Moneta, uno dei più belli dell’America Latina. E’ la stagione delle piogge, piove a dirotto: così visitiamo il palazzo quasi al buio per ­ché, per economia, la luce elet ­trica c’è soltanto negli uffici della direzione. Percorriamo in fretta le sale del museo di pittura coloniale nelle quali, dalla penombra, ci guardano le solite ninfe spropositate, le solite Madonne dalle facce sciocche, i soliti gentiluomini e le solite dame pieni di gal ­loni e di sufficienza; quindi scendiamo a pianterreno, dove si trovava la zecca.

Sempre al buio, ecco le enor ­mi macchine tutte di legno, senza un solo chiodo di ferro, con le quali si batteva mone ­ta; ecco, dentro le teche, gli stampi delle monete con le armi di Castiglia da una parte e l’effigie del sovrano dall’al ­tra. Siamo dunque nel cuore stesso, morto e secco, del co ­lonialismo spagnolo. Queste grandi ruote dentate di legno durissimo delle foreste boliviane non gireranno mai più; gli stampi non imprimeranno mai più nell’argento antichi stemmi e profili accigliati di re. E tuttavia non si può ne ­gare che proprio in questa pe ­nombra, tra questa roba de ­funta, si avverta più che al ­trove il senso riposto della sto ­ria del subcontinente. La sola riflessione che venga fatto di formulare è che queste sale sono più eloquenti di qualsiasi chiesa. Certo, l’arte, i riti, le cerimonie della religione han ­no varcato l’oceano e si sono radicate in America; ma, co ­me avviene ancor oggi, con tutti i colonialismi di tutti i generi e di tutti i paesi, il messaggio che era legato a quelle forme è come se fosse rimasto in Europa, tanto poco ha informato di sé il rapporto fra conquistatori e indigeni. Così che qualche anno fa ha potuto addirittura essere ri ­presentato come un messaggio rivoluzionario dal prete guer ­rigliero Camilo Torres e dai suoi seguaci.

*

Giriamo per Potosí­ tutto il giorno, sotto la pioggia. La serata ci vedrà seduti nel gran ­de atrio gelido dell’albergo, in un cerchio di notabili venuti a visitarci: l’alcalde o sinda ­co, il comandante della guar ­nigione, qualche altro perso ­naggio ufficiale. Si mangiano olive e mandorle salate, si sor ­seggia una bevanda che rasso ­miglia alla tequila messicana. La conversazione langue; si parla del tempo che fa, come in un salotto inglese dell’era vittoriana. Poi, non senza in ­tenzione, buttiamo là una qual ­siasi allusione politica e allora, come d’incanto, i discorsi di ­ventano vivacissimi. Gli è che i boliviani hanno la passione della politica; forse perché i problemi di questo paese sono così antichi e così intrattabili da diventare, per forza di cose e quasi per la consapevolezza della loro intrattabilità, prima di tutto politici. Naturalmente, ad un certo punto, si parla del ‘Che’ Guevara e della sua tragica avventura. Se ne parla tuttora e dappertutto in Boli ­via; e anche da parte degli avversari con una strana, qua ­si inconscia riconoscenza: è una tragedia che ha ricordato al mondo, a livello storico, la Bolivia, paese isolato e fru ­strato; e al tempo stesso ne ha innalzato, per così dire, il tasso di vitalità. Ma la discus ­sione suscita strane interpre ­tazioni che bisogna pur chia ­mare « provinciali ». Non odo forse qualcuno attribuire la spedizione cubana alla mas ­soneria?

Partiremo la mattina dopo; ma il pilota, dopo aver cap ­tato alla radio le notizie sul tempo e consultato la sua car ­ta, decide di dirigersi verso Oruro. Come se, in Italia, chi volesse andare da Milano a Roma puntasse sopra Trieste. Voliamo sotto un cielo basso e scuro, tra i picchi, seguendo i canaloni, in direzione di un chiarore sulfureo che sta a in ­dicare una spera di sole sul ­l’altipiano. Ecco di nuovo, in fondo alle vallate nude e ari ­de, i villaggi delle miniere; si vedono le piste serpeggiare lontano, bianche e sottili tra i monti: a dorso di mulo o a piedi ci vogliono anche venti giorni per percorrere la di ­stanza che il nostro monopla ­no varca in poco più di un’ora. Sbuchiamo finalmente sull’al ­tipiano, c’è il sole e piove at ­traverso il sole. Ecco l’aeroporto, un prato come un altro. Prendiamo un tassì, ci preci ­pitiamo alla stazione per sen ­tirci dire che il treno parte tra mezz’ora ma che non c’è posto perché tutto è stato già prenotato da quindici giorni. Poiché il cattivo tempo peg ­giora nel pomeriggio, come av ­viene di regola nella stagione delle piogge, con lo stesso tas ­sì, correndo a perdifiato per la pista allagata, attraverso l’altipiano, in quattro ore ar ­riviamo a La Paz. Durante il viaggio non ci fermiamo che una sola volta: per ammirare un lama, il primo che abbia ­mo visto sinora, fermo sotto la pioggia, nel mezzo di una steppa sterminata, simile ad un cammello con le gambe corte.

 


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Bart