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LETTERATURA: I MAESTRI: Profondo Sud

22 Marzo 2018

di Alberto Moravia
[dal “Corriere della Sera”, domenica 27 settembre 1970)

Estate meravigliosa! Esta ­te divina! Ero in uno dei miei periodi « buoni » e, co ­me si dice, non stavo nella pelle dalla smania di vive ­re. Sono bassina, col seno enorme, la faccia lunga e pal ­lida, i capelli lisci: insigni ­ficante. Ebbene, durante quel ­l’estate, la gioia di vivere mi aveva trasformata persino fi ­sicamente. I capelli mi erano diventati elettrici; gli occhi, spiritati; il volto, rosso e ac ­ceso. Mi pareva persino di essere alta. E quanto al se ­no, di solito la mia maggio ­re afflizione, beh, me lo sbal ­lottavo di qua e di là, quasi quasi ostentandolo. Estate indimenticabile! Dormivo a turno ora in casa di Marco, ora in casa di Bernardo; alle undici ci svegliavamo, faceva ­mo le nostre brave telefona ­te chiamando a raccolta il gruppo; e poi via al mare, in due o tre macchine, tutti ra ­gazzi e ragazze della stessa età. Al mare salivamo sul motoscafo e, in un batter d’occhio, eravamo al largo. Qui facevamo di tutto: nudi ­smo integrale, e tuffi, sci d’acqua, pesca subacquea. Nudi, ammucchiati gli uni su ­gli altri, prendevamo il sole fino all’intontimento completo. Mangiavamo qualche pa ­nino e poi tornavamo a Ro ­ma in tempo per ripulirci e andare a cena in qualche piz ­zeria, Subito dopo la pizza, correvamo al night, il momen ­to migliore della giornata. Che gioia! Che frenesia! Bal ­lavo, ballavo, ballavo. Al fra ­casso travolgente delle tante chitarre elettriche ingigantito dagli altoparlanti, finivo per perdere la testa. Mi toglievo le scarpe, la maglia e la gon ­na e ballavo da sola, in slip e reggiseno, in un cerchio di ammiratori che mi battevano le mani, finché la solita guar ­dia di servizio non ci caccia ­va in strada tutti quanti. Quell’estate avevamo la spe ­cialità delle fontane. Appena fuori del night, verso le quat ­tro del mattino, andavamo a gettarci in una delle tante fontane di Roma, nella Bar ­caccia di Piazza di Spagna, a Fontana di Trevi, nelle fon ­tane di Piazza Navona, nel ­la vasca di Piazza Barberini. Qualche volta finivamo in questura. Più spesso, fradici, coi vestiti incollati addosso andavamo a coricarci tutti in ­sieme ora in questa casa e ora in quell’altra. Ah, la bella estate!

Con la fine dell’estate è fi ­nito pure il mio periodo « buono »; è cominciato il periodo « cattivo ». Il grup ­po sì è disperso e io sono partita per casa mia, nel Sud, dove la mia famiglia, ricchis ­sima, nobilissima e degene ­ratissima possiede feudi gran ­di come province. Il Sud! Parliamo del Sud! Qualche volta nei giornali, a proposito del Sud degli Stati Uniti, leg ­go la frase: « Profondo Sud ». Storie! Il Sud veramente pro ­fondo, veramente sprofondato è il mio! Più profondo di co ­sì, è proprio il caso di dir ­lo, si muore. Per lo meno, io morirei! Eccola la profondi ­tà, in termini di cammino: prima l’autostrada piena di macchine, poi la provinciale asfaltata ma meno frequen ­tata; poi una strada secon ­daria, ancora asfaltata, ma quasi vuota; poi una strada di pietrisco, la nostra, attra ­verso i nostri possedimenti.

Colline pelate, valloni pelati, tutta terra coltivata a grano; e, per la strada, i contadini che ti salutano. Finalmente una pista terrosa e in fondo, su un poggio calvo, la villa.

Via via che avanzavo, sen ­tivo che ridiventavo bassina, col seno enorme, i capelli li ­sci e la faccina pallida: insi ­gnificante. Ricominciava il mio periodo « cattivo », non c’era da sbagliarsi.

Ecco la villa, simile ad un enorme granchio, con due avancorpi circolari simili alle due pinze del granchio e la facciata barocca, in fondo, simile al granchio. Granchio?

Forse più scorpione che gran ­chio! Al maggiordomo in giac ­ca da fatica e barba lunga di tre giorni che si inchinava a baciarmi la mano dandomi dell’eccellenza, ho chiesto con voce languente dov’era la non ­na e poi mi sono avviata ver ­so l’ingresso perché la non ­na ne era uscita e mi veniva incontro gesticolando. Vecchia arpia ciabattona, con un na ­so da pirata e baffi idem, prin ­cipessa e duchessa di non so quante cose, mi ha abbrac ­ciato urlando: « Arrivi in tempo per metterti a tavola. C’è la pasta al forno! ». Mia nonna urla sempre, per abitu ­dine, anche se, mettiamo, de ­ve dire: « Non gridare, parla piano ». Non le ho dato ret ­ta; zitta zitta sono salita difilato alla mia camera, uno stanzone immenso, con quat ­tro finestre sulla facciata e un letto a baldacchino, mi sono subito spogliata e mi sono messa a letto. Ho pen ­sato: « Vorrei morire. Sì: morire, morire, morire, non vivere più! ». Così è comin ­ciato il mio periodo « catti ­vo ». Ora distesa sopra le co ­perte ed ora sotto, ho pas ­sato due mesi a letto, inerte, le braccia penzolanti, gli occhi alle finestre attraverso le qua ­li vedevo il cielo che era sem ­pre ogni giorno, « a pecorel ­le »: il cielo dei miei periodi « cattivi ». Piangevo in continuazione e pensavo che non volevo più vivere, che desideravo morire. Uno di questi giorni mia nonna, ur ­lando come il solito, mi spin ­ge nella camera un giova ­notto di rara bellezza e quin ­di se ne va. Era un mio lon ­tano parente; aveva detto alla nonna: « Eleonora non sta bene? Ci penso io »; e adesso eccolo qui, di fronte a me. Bello, bellissimo, bion ­do, con gli occhi cerulei dall’espressione intensa, quasi delirante, il volto pieno, nu ­trito, bianco e rosa, baffetti biondi, bocca rossa. Si chiamava Corrado, era vivo, vi ­vissimo, esaltato, sovraecci ­tato. Ha gridato: « Giù dal letto. La vita ci aspetta! » e mi ha costretto ad alzarmi e a seguirlo. Siamo andati in gita. Pur guidando, parlava in continuazione; aveva una cultura enorme, specializzata in rovine, monumenti, e mu ­sei, e io, nonostante mi sen ­tissi uno straccio, non potevo fare a meno di ascoltarlo, af ­fascinata. Sono ignorante co ­me una capra; la cultura mi impressiona, specie se pre ­sentata con tanto fuoco, tan ­ta vivacità, come faceva, appunto, Corrado. Quel giorno abbiamo visitato un paio di castelli e un museo.

Corrado sapeva tutto; ave ­va scritto una quantità di opuscoli sui monumenti, che poi pubblicava a sue spese. Si esaltava con i re, le regi ­ne, i personaggi storici; con i Cristiani e i Turchi; con le pietre, le pitture, le statue. Nel museo, il custode ci ha lasciato soli e allora, da una carezza ad un bacio, da un bacio a una carezza, che è che non è, quello che doveva succedere, data la sua stra ­ripante vitalità e la mia iner ­zia mortale, è successo. Ma indovinate un po’ dove? Su un letto storico, in una delle sale del museo, un letto rico ­perto di velluto color gra ­nata sbiadito, chiuso e pro ­tetto da quattro cordoni di seta, il letto di non so qua ­le Re o Regina delle nostre parti. Il custode, certo pa ­gato da Corrado, non si è fatto vedere; alla fine io ero sfinita, inerte, un cadavere, e gli ho detto: « Senti, lascia ­mi qui, su questo letto sto ­rico. Vattene. Domani mat ­tina mi troveranno morta e tanto vale che muoia in un museo o in casa mia: fa lo stesso ». Sì, figurarsi. Ha da ­to in una grande risata con quella sua bocca bellissima dai denti perfetti e mi ha co ­stretta a scendere dal letto, e così è cominciato il nostro amore. Amore tra uno strac ­cio umano che ero io e un mostro di vitalità che era lui. Amore sempre in giro per ca ­stelli, musei, torri, palazzi, rovine. Gli andavo dietro ri ­petendo che volevo morire e lui mi rispondeva con quelle sue risate che gli facevano ballare le guance, piene di salute, che io invece dovevo vivere, se non per me, alme ­no per lui.

Alla fine abbiamo deciso di trasferirci insieme a Ro ­ma. Siamo partiti in macchi ­na, ero io a guidare. Via via che mi sfilavo dal profondo Sud, dalla pista di terra alla strada di pietrisco, da questa alla provinciale, dalla provin ­ciale all’autostrada, sentivo che il mio periodo « cattivo » svaniva; e subentrava il mio periodo « buono ». Il cielo non era più a pecorelle; era pieno di tante meravigliose nuvole bianche e dorate. Mi andavo sempre più esaltando e così ho dimenticato persi ­no Corrado. Poi il silenzio di lui, di solito così chiacchie ­rone, mi ha insospettito. Pur guidando, gli ho lanciato uno sguardo di sbieco. Quasi quasi non l’ho riconosciuto: sprofondato nel sedile, sgon ­fiato, molle, l’occhio semi ­chiuso, un’espressione, a me ben nota, di atroce angoscia nel volto e in tutto l’atteg ­giamento della persona. Gli ho chiesto cosa avesse. Ha risposto con un filo di voce:

« Non ti preoccupare. E’ il mio periodo cattivo. Sta ve ­nendo, lo sento. Non è nulla. Dura un poco e poi mi pas ­sa ». « Quanto dura? ». « Beh, l’ultima volta sono stato a letto due mesi ».

A Roma siamo andati al ­l’albergo. Io, appena entra ­ta in camera, mi sono messa al telefono per radunare il gruppo. Corrado, invece, si è gettato tutto vestito sul letto Quella stessa sera sono an ­data a cena e poi al night col gruppo; ma Corrado non ha voluto venire ed è rimasto sul letto. Lì, tale e quale, l’ho trovato alle cinque del mat ­tino, quando sono rincasata. Ho dovuto spogliarlo, da so ­lo non ce la faceva; e poi infilargli il pigiama; e final ­mente, addirittura, mettergli a posto gambe, braccia, testa, per il sonno, come ad un bu ­rattino dalle molle rotte.

Così è cominciata la nostra vita romana: io, sempre fuo ­ri di casa, sempre esaltata, sempre in forma; e Corrado sempre disteso sul letto, sot ­to o sopra le coperte, inerte, gli occhi al soffitto, le brac ­cia abbandonate. Cercavo di rianimarlo ma senza molto impegno perché riconoscevo in lui il mio stesso male e sa ­pevo per esperienza che non c’era niente da fare. Era ciclico, come me; passava dall’esaltazione alla depressione, come me. Purtroppo, però, i suoi periodi di depressione coincidevano coi miei periodi di esaltazione e viceversa; e così non avevamo neppure la consolazione di soffrire in ­sieme, dopo avere gioito in ­sieme. Ma gli volevo bene, era stato il mio primo amore, così gli sono rimasta fedele, anche se le serate e le notti le passavo con altri uomini. Gli volevo tanto bene, senti ­vo la sua angoscia con una partecipazione così immede ­simata che, alla fine, in un momento di suprema esalta ­zione, una volta che lui fio ­camente mi ripeteva: « Ah non ho più voglia di vivere, vorrei morire, morire, morire; ah Dio fammi morire al più pre ­sto »; gli ho gridato: « Mo ­riamo insieme. Tu morirai perché odi la vita; io mori ­rò perché smanio di vivere. Così il tuo orrore della vita e la mia gioia di vivere si fonderanno nella stessa mor ­te ». Era notte alta, ero ap ­pena tornata dal night dove avevo ballato per cinque ore di seguito; Corrado ha scosso il capo, la sua depressione non gli permetteva di prendere una decisione. Così ci siamo coricati, ciascuno nel suo letto. Il comodino, con la bottiglia dell’acqua e le boc ­cette dei sonniferi, stava tra i due letti.

Mi sono addormentata su ­bito, felice e piena di vita. Tutto ad un tratto un trame ­stio sul comodino mi ha sve ­gliata. Ho teso al buio una mano e ho incontrato la ma ­no di Corrado che stava ver ­sando un intero tubetto di barbiturici nel bicchiere. Gli ho detto, pur sempre esalta ­ta: « Bravo, dammi il bic ­chiere, ne bevo la metà e l’altra metà la bevi tu ». Non ha detto niente, mi ha dato il bicchiere e io ho bevuto metà dell’acqua e poi gli ho ridato il bicchiere. Subito, sono piombata in un sonno mortale.

Mi sono svegliata due gior ­ni dopo, in una stanza di cli ­nica. La nonna stava al mio capezzale e ha urlato: « Fi ­nalmente ti sei svegliata. Dio sia lodato! ». Non capivo niente; mia nonna ha urlato ancora: « Voler morire perché un Corrado qualsiasi ti lascia e torna a casa sua, dai suoi! Ma che ti ha preso? Lui scap ­pa in macchina e tu, subito, giù un bicchierone di barbi ­turici. Ah come si vede che sei giovane! Ma di Corradi è pieno il mondo. Uno di per ­duto, cento di ritrovati ». Avete capito? Corrado ci ave ­va ripensato, non aveva be ­vuto, era partito invece in macchina per il suo Sud, il suo profondo Sud, dove lo aspettavano i castelli, i musei, le rovine e gli opuscoletti. A quest’ora senza dubbio scop ­piava già di vitalità; non sta ­va nella pelle dall’euforia. Co ­me ho già detto, nonostante il suicidio, del resto effettua ­to per amore ed esuberanza di vita, mi trovavo in un mio periodo « buono ». Così, d’im ­provviso ho preso a ridere, a ridere, a ridere. Poi ho detto alla nonna che mi guardava stupefatta: « Corrado ha fat ­to bene ».

 


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Bart