LETTERATURA: I MAESTRI: Prezzolini – Cecchi #8/29
23 Ottobre 2008
[da: Il tempo della Voce”, Longanesi & C. – Vallecchi, 1960]
Roma, 19 giugno 1914
Caro Prezzolini,
lessi ieri il tuo scritto sugli « estetizzanti »[1] ch’è sacrosanto, dalla prima parola all’ultima. Tu hai tro Âvato un tono giustissimo, perché sei stato corretto an Âche quando potevi essere insolente con giustizia. Non ci rompano i c…! Non chiediamo nulla: non cattedre, non soldi, non citazioni, nulla: ma non rompano i c…! Stamani in biblioteca dov’ero a corregger bozze del mio libro ho visto De Lollis ch’era soddisfattissimo delle tue pagine. Hai fatto bene anche a tenerti in quel tono con Borgese, per quanto metta voglia di menare. Non alludo tanto all’articolo di Rimbaud, che è una scioccheria presuntuosa e deplorevole, quanto all’articolo di « metodo storico ». Non ti pare che, se fosse sincero, egli dovrebbe dire che vuoi ritornare a fare la storia con questi criteri: « La letteratura italiana da Dante a Vittorio Emanuele II », oppure: « L’idea guelfa nella letteratura italiana » ecc.? Mi pare che dell’idealismo non abbia capito, direbbe il… Thouar, « buccicata ». Croce è un uomo di due secoli più moderno di lui. Per esser diverso, Borgese accon Âsente anche ad esser minchione. È troppo.
Io ti ringrazio, insomma, delle buone cose che dici di me: tu sai come vivo malamente: la fede di quelle rare, tre o quattro non più, persone oneste, serie, com Âpetenti che sono in Italia, compensa di tutto il resto! Speriamo che il libro degli « inglesi » corrisponda a questa fede.
Ti ho mandato, ore fa, una cartolina da Mentana, dove sono stato oggi a fare una gita col barroccino del nostro lattaio,[2] circa quaranta chilometri di cales Âsino. Non volevo tardare oltre, a darti un cenno di simpatia. Gli è che a giorni mi sento molto giù, ve Âtrino di salute: vorrei ragionare con qualcuno che ha avuto anemia cerebrale, per sentir se certi sintomi corrispondono. Il più bello è che sono certo di aver capito, ultimamente, cose parecchio utili, e averci mes Âso le mani sopra; e sono spossato, pieno di pesantezza, di cattivo sonno, eppure. Fosse una cosa passeggera, o potessi superarla, come ho fatto altre volte, metten Âdomi a lavorare più forte; ma non pare; e non vedo modo di mutare un poco il ritmo di questa mia vita e rinsanguarmi! Certi momenti, l’unica cosa in cui vorrei poter sperare sarebbe d’aver sei, sette anni an Âcora di vita; ma vita forte, fattiva, grandemente, una fiammata; arrivare a un confine estremo di sensibilità , e poi partirmene: sarei contento! Ma non si può de Âsiderare nemmeno ciò, per altre ragioni.
Ho scritto da una dozzina di giorni, un articolo che uscirà ora subito; da molto è in bozze, su Sbarbaro e Pea, che mi sono assai assai piaciuti; e come realiz Âzazione e come tendenze. Soltanto il mio non stare bene, non possedermi, mi ha impedito di mandarti un lavoro per la Voce e mi duole, e non passano po Âche ore senza che mi ricordi, pensando che tu mi chiamerai, in cuor tuo, « tepido », o addirittura « mancatore di promesse ». Non pensare questo. Boccioni mi ha scritto; lo sento molto, molto, e come artista e come uomo.
Nell’ultimo Aprutium lessi le tue pagine: anche tu dunque senti quello sfasciarsi, quella solitudine che io dicevo: ed io credo, in realtà , che da essi più che da certe un po’ collettive primavere entusiastiche gio Âvanili, possa venire qualcosa di fattivo: non si crea finché non s’è divenuti in certo modo scettici e solitari.
Vorrei trattenermi più a lungo con te: ma questa lettera ha già ritardato più giorni. Speriamo che pre Âstissimo possa mandarti quelle pagine: Boccioni-Longhi, e poi altre cose; e meglio. Con De Robertis ci teniamo un po’ in contatto epistolare…
[1] La risposta degli estetizzanti nel n. de La Voce del 13 giugno 1914 (pp. 14-19) diretta da me contro il prof. E. G. Parodi.
[2] Si chiamava Vincenzo Casorri, di Poggibonsi; era arguto, avveduto, e d’una conversazione attraentissima. Vendeva il lat Âte più puro che si potesse trovare a Roma e, quando Mussolini fu ammalato d’ulcera e volle quel suo latte, il Casorri acconsentì a patto che gli stesse accanto una guardia quando lo mungeva. A me disse: «Se l’avvelenano, non voglio prender la colpa ».
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