LETTERATURA: I MAESTRI: Primavera matta27 Novembre 2018 di Mario Tobino «Primavera matta, acqua e vento; a strappi le apparite del sole. E’ questa balzana primavera a gettarmi folate di malinconia! Le foglioline so Âno appena nate e giĂ il libec Âcio le strapazza ». Il dottor Anselmo cammina per la campagna. In cielo le nubi si addossano, si amma Âtassano di bianco; si separa Âno, scoprendo il turchino. « E poi questi giovani! Qui al manicomio. Che hanno in testa? Sempre la societĂ , col Âpa di tutto è la societĂ . Cosa intendono con questa parola? La usano non solo nelle quistioni sociali, adesso perfino in psichiatria. Bravi medici, coscienziosi, appassionati, ma per nulla sono d’accordo con la loro retorica, con le vacue elucubrazioni, col taboga dei loro pensieri ». « Affermare che la follia non ci sarebbe se la societĂ fosse perfetta è piĂą che azzar Âdato, è una grande stupidag Âgine. Se ognuno fosse com Âpreso, fin dalla nascita nella bambagia, crescesse senza al Âcuna scossa, la vita un olio di vaselina ». « E se fosse vero? ». â— La follia non una ma Âlattia ma la risultanza dell’u Âmana cattiveria â— loro pro Ânunciano. Anselmo oltrepassa il filare dei pioppi. Pochi metri anco Âra ed è sulla via Sarzanese, percorsa da ogni sorta di motori. Saltando tra uno e l’altro, raggiunge dirimpetto la so Âspirata sponda. E’ davanti al pascolo del Bigongiari. Proprio confinante col traf Âfico della Sarzanese, c’è un grandissimo prato che con dolcezza monta verso la vil Âla. LaggiĂą si interrompe per il sipario di una pinetina e continua al di lĂ , alzandosi in una verde onda. Una di Âstesa di circa tre chilometri. Su questa erba â— indiffe Ârenti alle vicende umane â— pascolano un centinaio di vac Âche con i figliolini, alcune pecore, una scrofa con intorno una frotta di batuffoli rosa. Ogni volta Anselmo si in Âcanta allo spettacolo. Segue i movimenti del vitellino che testardo stiracchia e morde un capezzolo della paziente madre; fissa il toro, immobi Âle in mezzo al prato, l’occhio appannato, il petto e il collo gonfi di muscoli; sorride ai maialini che frugano sotto il filare dei lecci; e soprattutto invidia il Bigongiari, il pa Âdrone, che tranquillo, in un angolo, i capelli bianchi, una fronda in mano, indulge alle mosse dei suoi armenti. * Il dottor Anselmo è di nuo Âvo all’ospedale. Arriva alla sua stanza. Non ha voglia di leggere, non di studiare, non di riflettere. Dalla finestra contempla Ripafratta, nella lontana gola dei monti, confine tra Lucca e Pisa, la torre mozza. « E se fosse vero? la man Âcanza d’amore? ». Automaticamente si alza, si infila il camice, si dirige ai reparti: â— Potrei compilare qualche cartella. La caporeparto l’accoglie sorridente. – A che lettera siamo ar Ârivati? – Delle cartelle? Alla em Âme, mi pare alla emme. – Malate che conosciamo a memoria. Comunque lei parli; mi sorprende sempre con qualche nuovo partico Âlare. La caporeparto Ricci porge la cartella clinica. Il medico si accinge a ver Âgare qualche commento. Mor Âmora tra sĂ© e sĂ©: – Ah! La C. M. Vent’anni che stiamo insieme, forse di piĂą. Quando arrivò era bionda, alta, doveva essere d’agosto. Intanto la caporeparto scio Ârina le sue notizie: â— Passa un brutto periodo. Conta e suda. Stamani nel bagno l’in Âfermiera aveva cominciato a insaponarla, quando: â— Fer Âma, ferma! Prima di lasciar Âmi lavare debbo contare fino a duecento. â— Non c’è ver Âso. Si è messa a sillabare i numeri, in fretta e precisa. « Ancora l’inflessibile con Âteggio â— scrive il medico. â— La dominante ossessione, lei attrice e insieme dolorosa spettatrice ». – E poi quando è arrivata a 190 â— continua la caporeparto â— ha perso un numero, l’ha saltato e ha dovuto ricominciare. â— Devo riprendere da principio, se no il conteggio non è valido. So Âno costretta! â— ha gridato. – Che malattia, poverina. E lo dice: â— Sono comandata da due persone, una mi ordina di contare prima di comincia Âre un qualsiasi lavoro e l’al Âtra non vorrebbe ubbidire. Vince sempre quella del co Âmando, anche se piango. Non mi riesce di scacciarla. Sono malata. Il dottor Anselmo ha uno strano sorriso: â— Ossessioni! Se le conosco. La caporeparto porge un’al Âtra cartella: â— E’ la V. M. Anche stamani si aggirava febbrile tra i letti… – Ha ragione, Ricci. Mi ricorda un rabdomante che vidi una volta, la bacchetta tesa in uno spasimo, a ricer Âcar la sorgente. La cartella però è aggiornata. – Allora un’altra? – Sì. – La Medori. – Questa. Con questa ci voglio parlare. – Gliela chiamo? – Sì. * Entrò con un piglio, un ghigno di trionfo, di perversa gioia. Provocante fissò Anselmo. Gli rise in faccia, non si sa Âpeva se a dileggiarlo o a invitarlo a un dialogo libero da ogni schema, volante ne Âgli alti cieli. – Di che sta gongolando? â— domandò Anselmo. – Ho molto da fare in questi giorni â—. E con gli avambracci e le mani alma Ânaccò nell’aria in un modo inusitato. Fu come se prima disegnasse una ellisse, che poi tramutò in cerchio. E di nuo Âvo le volute ritornarono ellit Âtiche. – Ho molto da fare in questi giorni â— ripetĂ© in un ghigno piĂą stridente. – A che? – Il diavolo, il mio diavo Âletto scalpita, bizza. E io lo metto in ginocchio. Vede questa mano; lui la conosce in ogni millimetro. Suonano i miei schiaffi. Se li merita. – E lui? – Lui se li aspetta. Prima gli carezzo le cornettina. â—  PerchĂ© â— gli domando â— non sei venuto all’ora preci Âsa? Dove sei stato? Lo sai che devi presentarti subito quando ti chiamo. – Gelosa? – Deve apparire quando io lo voglio â— sibilò, gli oc Âchi d’un colpo irati. – E’ bello? – Occhioni da bambino. E le cornina, due riccioli ai lati del capo. – E’ peloso? – La pelle come i petali della rosa bianca. – Innamorato di lei? – Naturale. – E come fu? La cor Âteggiò? – Cominciò ad apparire, faceva le moine, il vezzoso, mi parlava dolce, si incanta Âva a rimirarmi. – SicchĂ©, siete fidanzati? – No, sposi. E’ mio ma Ârito. – E allora, come mai non è vicino alla sua signora? – PerchĂ© appare solo quan Âdo io gli faccio cenno. Deve eseguire le mosse che io co Âmando. – Un diavolo così ubbi Âdiente non è di tutti i giorni! – Lo fustigo io, se non ub Âbidisce! Gli ordino di met Âtersi in ginocchio, gli carez Âzo le cornettina e poi, ciaffete! Tira su il musino, caro, che te ne somministro delle altre. E la Medori sollevò avam Âbracci e mani e disegnò nel Âl’aria â— imperio o magìa,â— quella sigla, una ellisse se Âguita da un perfetto cerchio, che poi ritornava ellisse. Stette qualche secondo im Âmobile, sospesa, quindi liberò una risata trionfante. Era l’immagine di una po Âtente personalitĂ , di una pro Âfonda capacitĂ fantastica, era l’espressione di quel mistero meraviglioso che è l’essere umano. Anselmo, contemplandola, si sovvenne di quei giovani che affermano la follia essere semplicemente una deriva Âzione della societĂ .
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