PITTURA: I MAESTRI: Guido Reni: Il disdegno di Guido29 Novembre 2018 di Cesare Garboli Non erano trascorsi cinque o sei anni da quando il Caravaggio s’era messo a “ringagliardire gli scuri”, passando dal soggetto feriale alle “historie” d’argo Âmento sacro, che il giovane e quasi coetaneo Guido Reni giunse a Roma. E quale appuntamento più in Âquietante il caso poteva fissargli? Il Reni partiva da Bologna forse nella primavera del 1600… Quale istan Âte più decisivo in tutta la storia della pittura moder Âna? Nel settembre dello stesso anno, già consegnate e visibili le storie della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi, il Caravaggio firmava il contratto per le due tele di Santa Maria del Popolo. Pare di vederli, nelle botteghe sotto Montecavallo, i tardi pennelli manieristi levati a mezz’aria in quell’attimo di mera Âviglia stordita, di sosta quasi magica. Che trambusto era quello? Ottant’anni dopo, ancora ne piange la prosa irritata dello stesso biografo del Reni, il Malva Âsia: “tanto seppe in poco tempo eseguire l’ardito, che datosi a ritrar gli huomini ad un lume violento, e strabocchevole, il fracasso di questo gran chiaroscuro, e la facilità di un puro naturale, fermò tutti sulle pri Âme”. Arrivando da Bologna, non si può dire che il Reni venisse dalla provincia. Invaghitosi dei Carracci, ave Âva lavorato a fianco di Ludovico, rivaleggiato coi pensieri avventurosi di Annibale, rubato ai due mae Âstri, forse, in un’ora di conversazione famosa, il sogno di una nuova maniera di chiaro su chiaro, di lume aperto e disteso, da opporre a quella “cacciata e scu Âra” del Caravaggio. Condiscepolo tenuto in conto di maestro dall’Albani e dal Domenichino, sembrava adatto più degli stessi Carracci, per un dono nativo di nobiltà e per le sue simpatie raffaellesche, a realizzare i precetti di austera e soave controriforma figurativa del trattatista cardinale Gabriele Paleotti: “muovere più l’affetto et intenerire il cuore”. Virgineo e bellissi Âmo, timido, facile ai rossori, Guido temeva e schivava come poi sempre) le lodi, “ed in tal guisa divenendo più bello, facevasi doppiamente ammirare da Ludovico, che solca dire essergli di gran profitto tentare di modestia Guido, perché gli faceva un bellissimo mo Âdello d’un Angelo”. Eppure in quella contrita figuret Âta da efebo da santa comunione è facile spiare un’al Âterigia precoce, il gelo di una piccola maestà solitaria. il futuro maestro in piedi davanti alla tela servito a gara dagli allievi, il mantello raccolto “in graziosa e pittorica maniera” sul braccio sinistro, spregioso di ri Âcevere visite “fuori dalle stanze dove dipingeva, coll’addurre ch’elle erano fatte alla virtù donatagli da Dio, non a lui ch’era un verme della terra”. Nella prospettiva in cui siamo abituati a porre i fatti caravaggeschi tra il Cinque e il Seicento, da tempo i Carracci hanno smesso di recitare soltanto la parte dei comprimari. Meno chiassosa, ma non per questo meno insolita, e tutt’altro che eclettica e acca Âdemica, la ‘novità ’ carraccesca conseguiva piuttosto a parallele esigenze di vero più umile, di colloquio pii: reale, più attento, rispetto al gran gusto passato, ai fatti della vita e del giorno. Nell’udito di oggi, i passi del solitario lombardo possono anche confondersi, tra l’una e l’altra delle sue fulminee stazioni, allo scalpic Âcio di quella pittura bolognese di luce naturale e di provenienza, appunto, lombarda, popolare, come chi. scrutando dalla finestra di casa il tempo e l’ora de! borgo, venga scoprendo a poco a poco in un paesag Âgio familiare una piazza di Raffaello, un gigante corrucciato di Michelangelo. Il Reni era cresciuto tra quelle madonne e quei santi scesi al popolo, tra quelli affettuose, affabili ma severe conversazioni intorno al Âla grande pittura italiana. Se non l’aveva spedita qualche mese avanti, Gui Âdo calava a Roma portandosi sottobraccio il rotei’ della copia della Santa Cecilia di Raffaello, richiesta Âgli per San Luigi dei Francesi. Ritrovato il corpo del Âla santa nel 1599, si può intuire che il Reni, giovane pittore bigotto, un po’ ‘gesuita’, testimone della vita Âlità della tradizione, utilizzabile in funzione anticaravaggesca, fosse invitato a contribuire alfa rinascita del culto ceciliano organizzata dal cardinale Sfondrati. Alla chiesa di Trastevere il Reni fornì una Decolla Âzione miserina e un tondo, l’Incoronazione, che docu Âmenta tutta la sua prima incertezza romana. È un quadro povero, messo insieme con tre figurine, desti Âtuito d’invenzione e di fantasia. Il bel pennello bolo Âgnese del giovane maestro dell’Assunta di Pieve di Cento sembra ammutolire paralizzato da un concerto di voci che si affollano: i bravi padri lasciati a Bolo Âgna, il Caravaggio, i manieristi, i lussi del Gentileschi. Questo piccolo tondo è un mesto ‘che fare’. Ma che cosa sta nascendo di diverso in quella dolcezza di tinte fredde e metalliche, in quel risvolto viola che alita al centro, in quel grigio su grigio profuso sul fondo alle spalle dell’angelo di velo e ali incorporee, quel grigio destinato a diventare col tempo il colore più reniano in tutte le sue gamme di grigio perlaceo, grigio sulfu Âreo, grigio-nebbia, grigio-argento, grigio-nube? Ma soprattutto le teste dei due giovani patrizi, Cecilia e Valeriane, rivolte all’insù secondo una futura regola costante, ci dicono che il Reni sta balbettando col suo pensiero gracile, modesto, la maestà di un endecasilla Âbo che troneggia trionfante in tutte le sue biografie come un vanto isolato nel tempo, come la sua ricerca suprema: “le belle teste delle statue antiche”, i mar Âmi, le medaglie, i cammei, il gusto della bellezza inde Âteriorabile, separata dalla sciocca e drammatica ca Âducità dei fatti terreni. “Troppo naturale”, diceva il Reni del Caravag Âgio. E il Caravaggio, di anticipo, lo aveva aggredito in quegli anni per le strade di Roma sibilandogli pres Âsappoco un “levati di tornò”, lui e la sua maniera “leccata e tutta fantastica”. Poche battute fanno due grandi critici, fulminei nel riconoscersi. Che cosa in Âfatti aveva da spartire’ col Reni la rivelazione ‘diret Âta’ del Caravaggio, intesa a redimere il transitorio fatto di cronaca investendolo di un fascio di luce con Âtingente, inattesa, simultanea alla momentaneità del Âl’avvenimento? Cancellato il diaframma prospettico, il Caravaggio inseguiva una ” forma delle tenebre “: la luce arriva di lato come un lapsus, a evidenziare ca Âsualmente oggetti, azione e figure senza gerarchia di valori. Nella loro disponibilità a essere egualmente ri Âprodotti dal vero, in attesa di una rivelazione che li rifletta come una tempesta nel calmo ovale di uno specchio (la natura morta!), gli oggetti e le cose umane potevano ritrarsi nel buio di quella comune cecità che è congeniale a ogni assoluto naturale. Pen Âsa il Caravaggio che le nostre passioni siano incarce Ârate da un opprimente e ottuso spessore di prigione carnale, così che le sue azioni le fotografa in una luce che è quella casuale del vero, ma anche quella onirica e divinatoria dei sogni. In questa vita che è malattia, caducità , cecità , ottusità , il teatro dei nostri gesti inte Âriori ha la stessa malvagia brutalità plebea, la stessa traumatica solitudine del fatto leggendario di storia sacra: la decollazione, la flagellazione. L’arte redime Âva la solitudine e la violenza di quei gesti caduchi, e per una strana e affascinante inversione di valori il naturalismo caravaggesco si situava alle origini del gran sogno ‘estetico’ di tutta l’arte moderna: l’arte e solo l’arte redime la vita doppiandola nella sua ulti Âma e volgare essenza peribile, restituendone l’istante irreversibile, fuggitivo, attraverso il magico fotogram Âma della mimesi reale. Non si sa se più avanti o più indietro nel tempo, se più o meno ‘esteta’ del Caravaggio, il Reni inseguiva un pensiero esattamente opposto, che lo isolerà a poco a poco da tutti appartandolo in una sdegnosa ostenta Âzione di ‘conservatore’. Niente interessa a Guido me Âno che sorprendere un evento visibile con un linguag Âgio diretto. Il vero non esiste. La realtà , per il Reni, è sempre un atteggiamento. Come perdere la propria visione di artista dietro le mobili apparenze di un’ora? Dietro i vacui fenomeni delle cose? Sprecandola die Âtro la tragica cronaca della vita? Dietro un lume ‘na Âturale’? Dietro le “historie” del Domenichino? Invi Âtato a cimentarsi in quel calco caravaggesco che è la Crocifissione di san Pietro, oggi alla Vaticana, l’oc Âchio di Guido si distrae con glaciale distacco proprio dal drammatico evento che gli sta sotto il naso. La scena cadaverica e atroce si distende nella composta lentezza dei movimenti, nel giro morto dei gesti stu Âdiati. Guido sta meditando la posa statuaria, malinco Ânica, i marmi e il pennacchio del Davide del Louvre. Quel diaframma cancellato dal Caravaggio torna a essere un diaframma ‘ideale’, assunto come oggetto espressivo in se stesso, come condizione della visibilità delle cose. Di là da quel diaframma mentale, ‘plato Ânico’, di una tristezza che solo la scena della bellezza potrà redimere, il Reni non vede niente. È incapace di creare secondo il dettato cieco e immediato dei pensieri che si accavallano, ubbidienti al richiamo della naturalezza. Ha bisogno di distanza, di ordine, di ‘disegno’. Ha bisogno che la vita si sospenda, cioè si rassegni a morire, e che i capelli si sciolgano, lo sguardo si veli, il petto si abbandoni al veleno o al pu Âgnale, in quel fuggire dello spettacolo delle cose che è il supremo fra tutti gli istanti teatrali. Ma intanto, prima di giungere a pronunciare le sublimi battute di un melodramma in cui non ebbe rivali, si direbbe che Guido impari a dipingere appunto tutto ciò che non vede, scostando dal proprio pennello la vivacità e la momentaneità del visibile, come se quella contingen Âza, il chiasso delle immagini in moto, invece di eccita Âre il suo occhio, disturbassero la calma percezione di; una vita penitente e divina di là dalle immagini morte, ambigua e divina come l’ombra che accarezza il nudo corpo dell’adolescente dell’Amore sacro e profa Âno, chino a compiere con un sorriso consapevole la sua missione virtuosa. Dimenticandosi così presto del Caravaggio, il Re Âni pietista ma già appena sensuale (di quella sensua Âlità rimossa, che poi sfoga nella tarda ‘pietà ’ delle sue attrici, Lucrezie Maddalene e Cleopatre), si di Âstanziava nel frattempo anche dal moderato naturali Âsmo affettuoso dei suoi maestri. Vista dal cuore della bellezza e della morte, la vita rinasceva in colori tutti ‘di testa’, intenerita in gradazioni cromatiche intel Âlettuali e purissime, semplici e artificiali, aggiustate Chiaro su chiaro nel senso di una diffusa e olimpica dolcezza irreale. Si vide mai’ un santo salire scortato al martirio in una raccolta intimità da festa paesana, domenicale, come il sant’Andrea di San Gregorio al Celio? E a quale popolana potrà mai appartenere la pensierosa curiosità di quella spettatrice ‘assente’ in primo piano? È già un rilievo critico il grido di sor Âpresa di Paolo V alla vista del pacifico paradiso fem Âminile e operoso degli affreschi di Montecavallo, da Âvanti alla gloria così umile, alla pompa così manzo Âniana di quelle celesti occupazioni domestiche nel rit Âmo sereno di verdi, arancioni, grigi, bianchi, azzurri ‘intermedi’: “essere un picciolo modello in terra del Âla gloria che dovrassi godere in Cielo”. Esiste secondo il Reni una divina e inebriante maestà della vita, una gloria di forme ideali che non ha niente a che vedere con la scena storica e carnale di questo mondo, anche se poi quella maestà non è che un sospiro, la curva atteggiata di un manto, e quella bellezza un soffio che si nasconde invisibile e impercettibile tra le sembianze mortali come sarebbe un alito di vento che nella calma di un pomeriggio d’estate arrivi a scomporre la chioma di un Battista selvatico, o il fruscio di un lieve panneggio violetto, un velo che si sollevi ad arco intorno al magro bacino di un Cristo nudo, immobile nel crepuscolo di una città desolata. Sul finire del primo decennio del Sei Âcento, tra il ’10 e il ’14, Guido scopriva se stesso. Di Âpingere non era solo idealizzare il visibile, era ‘trasu Âmanarlo’, trasformare corpi e cose in enti “di seta fasciati”, immateriali, incorporei: supremo progetto di fare ‘grande’ tenendosi nei limiti di un raffaellismo tridentino (quella Vergine dell’affumicata Annuncia Âzione del Quirinale, rassegnata, si direbbe, alla più fe Ârale e inquietante delle notizie), o murale nel gusto del fregio neo-attico, o ritornando a partiture ancora più arcaiche. Mentre s’ingrossa la turba caravaggesca. un po’ prima che scatti il meccanismo delle giostre barocche il Reni se ne torna a Bologna per non muo Âversi più. Dicono i biografi che volesse cambiare me Âstiere, darsi al commercio di oggetti d’arte, le sue ‘te Âste’. Invece raccolse il bel mantello regale intorno al braccio sinistro, incamminandosi ad essere il pittore forse più ermetico e solitario di tutti i tempi, riducen Âdosi negli ultimi anni alla semplicità e al magistrale non-finito di due, una, mezza figura, padrone a ocelli chiusi di pennellate sempre più sciolte, leggere, disfat Âte, e mai ‘naturali’. Varietà infinitamente modulata di temi sacri e profani, mitologici e pietistici, e un so Âlo accento emotivo: la bellezza, il sublime. Mai un istante di gioia, mai di dolore. Quello che successe in Âtorno a lui, nello spazio di un trentennio, nella vita ci Âme nell’arte, umile o titanico, il Reni volle pensarlo come un deserto. Alto e sproporzionato sopra una spiaggia dissemi Ânata di cadaveri, il Sansone vittorioso â— nel sopraca Âmino per una sala patrizia – si flette ad arco e beve dalla mascella d’asino a strage appena conclusa. Ad litteram, i cadaveri dei filistei giacciono ai suoi piedi in uno spiazzo coperto d’ombre, ravvicinato ma lonta-nissimo, mentre un gruppo di guerrieri caduti, già ce Ârei, sembra messo in primo piano a sostenere insieme tutto il quadro e la posa elegante del semidio. Stupi Âsce che in questa immagine (se mi è concesso questo linguaggio) di suprema ‘frosceria’, il Reni sapesse leggere fin da allora secondo una versione così sfac Âciatamente superomistica, perfino caricandola con un profumo un po’ volgare di fredda indifferenza alcibiadea, il mito di una grecità che egli stava appena sco Âprendo, in termini foscoliani, preromantici, prima e quanto prima) di chiunque altro. Ma si provi a to Âgliere a un tratto la figura dell’eroe, per sortilegio: ec Âco il mondo assiderato di Guido, i lillà e i grigi d’ac Âciaio, il vasto spazio senza rumore, il pallido e frigido sole che cresce inutile nell’ora deserta. Se poi si voglia assistere all’eccidio, basta spostarsi due passi più in là . sempre nella Pinacoteca di Bologna, davanti alla Strage degli innocenti. È il momento di maggiore at Âtenzione, l’interrogativo più coraggioso, l’acuto del Reni. Folle e inatteso, un sadico meccanismo di crudeltà scoppia nella placida composizione raffaellesca senza romperne i ritmi, le misure, la simmetria. Cin Âque donne e due sicari: due bocche parallele, spalan Âcate nel grido marmorizzato, due movimenti efferati di logica trascendente e glaciale, tre donne, al centro, graduate secondo un descensus di rassegnazione, e due grigi cadaverini che già godono issati sugli sbuffi di due nuvolette la pace del Ciclo, l’indifferenza, l’oblio della vita. La vita non esiste, la tragedia che abbiamo sotto gli occhi è solo una ‘scena’, così dice il calcolo di una regìa che sparge il terrore ma ‘sospende’ i ge Âsti, sincronizzandoli esattamente nel punto in cui nien Âte ‘avviene’. Si provi ora a leggere il quadro secondo un’ottica che salti continuamente dal livello del movi Âmento a quello della fissità : si arriva al punto di una vertigine intollerabile, a un vano orrore congelato per sempre. Per un sincero e inquietante equivoco, fu lo stesso bisogno di trasumanazione cattolica a dirottare il Re Âni verso le favole classiche, la bellezza apollinea e le desolate spiagge del mito. Inafferrabili, perduti fanta Âsmi prendevano corpo nel vento vuoto… “Addì 15 no Âvembre 1613 in Bologna io Guido Reni”, scriveva su un disegno preparatorio per la Pala dei Mendicanti, e se non fosse una formula, suonerebbe come uno stile Âma dannunziano. Spesso, sotto le pieghe dei panneggi “piazzosi”, sotto mantelli aggiustati, vergini e santi del Reni ci sembreranno soffocare, in quelle lane d’a Âvorio, o nello squarcio di un paradiso croceo, come l’Assunta della stupenda ‘conversazione di Genova, più infagottata e sudata che in estasi. O se ne dovrà sentire il respiro, il palpito del corpo nudo, sotto, ac Âcaldato? Roberto Longhi insegnava a spiare in Guido “il desiderio, in lui acutissimo, di una bellezza antica, ma che racchiuda un’anima cristiana, un anelito a estasiarsi, dove il corpo non è che un ricordo mormo Ârato”; e secondo Cesare Gnudi, “tra il suo ideale di bellezza e il suo sentimento religioso il Reni non sentì forse mai un vero contrasto”. Ma in quella rimozione, in quel ‘forse’ sta tutta l’ambiguità di Guido… In ogni caso, è difficile sottrarsi all’idea che un duplice progetto trasumanante sia alle origini del cimento ar Âduo, difficile, contraddittorio del Reni, tanto i suoi quadri ci sembrano, a volte, grandi frammenti perfet Âti, sperimentali (“il quadro più bello è quello che sto facendo, e se domani uno ne farò sarà quello”), la Âsciati cadere dal sogno supremo di combinare due ci Âviltà inconciliabili, due epoche, due anime diverse. Fosse riuscito nel suo intento, tanto varrebbe chia Âmarlo veramente ‘divino’, il Reni, uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. E qualche volta il Reni lo fu. È proprio un lembo di cielo quello che sta schiu Âdendosi agli occhi levati del san Sebastiano? O nere masse di nuvole gonfie, lente, orlate d’ori di chiesa, s’addensano nel vapore di pioggia sopra una proda d’Averno? Nella sacrestia della chiesa dei Gerolomini, a Napoli, un Gesù e un Battista giovinetti s’incontrano sul sentiero di un bosco fragrante, ‘sacro’. Sacro ai divini segreti dell’amicizia o della fede? Della carne o della castità ? Accomunati da un soprannaturale desti Âno di bellezza e di morte, protagonisti di una storia arcana, irriferibile, i due ragazzi, uno di stirpe aristo Âcratica, d’una bianchezza di pelle anemica, dai riflessi verdastri, l’altro, il Battista, affettuoso figlio del popo Âlo e dunque ‘più in sangue’, acceso da un’abbronza Âtura rosata, stanno in un rapporto che al Berenson parve la fonte di quello tra Ambrogio Spinola e il comandante del presidio olandese nelle Lanzas del Velázquez. In Guido l’accento batte sulla fatalità , sul Âla solitaria intimità del convegno, al punto che si odo Âno perfino i passi, di quei due, rapidi, svelti fino al Âl’appuntamento. Nella luce del tramonto neo-venezia Âno Guido accorda tutte le implicazioni psicologiche sulla giustapposizione di due toni, assorbendo gli sguardi nella diversità della pelle, lo spavento implo Ârante del Battista, la sua esitazione, nel rustico panno bordato di pelo, e la determinazione di Gesù nella se Âta leggera che gli alita e fugge alle spalle, dopo avere indugiato con una lunga ombra intorno all’irraggiun Âgibile mistero del pube. In questi accordi impossibili, il Reni seppe anche essere meno imbarazzante. Viene da chiedersi se sia di san Tommaso, per esempio, o di qualche Aristotele o pagano filosofo di cristiana chiaroveggenza quel gesto ampio e sovrano di braccia incrociate, le mani in luce, nella Vergine in gloria della Pinacoteca Vati Âcana. Libri sparsi e disordinati, vanità e intelligenza del sapere, maestà paterna e virile che sostiene, quag Âgiù, il peso della piccola regina mansueta e ignara… Era stato, in certo modo, il sogno solare di Raffaello. Ma Guido lo rivive ‘da solo’ a luce ormai tramonta Âta, e spesso tra odori d’incenso, sgocciolii di ceri, pau Âre e bisbigli da ultimi istanti. Quelle favole eroiche, antiche, il Reni era il primo a recuperarle con anima moderna e romantica, ma appunto era anche il primo a non crederle, cioè a ricrearle nel gusto sacro e irrea Âle che spetta a ogni ‘trionfo della morte’. Tra una preghiera e il rosario, nei caratteri della bellezza anti Âca il Reni seppe leggere una frase inattesa, la simboli Âca lontananza del mito, enigmatico e arcano scenario di larve, di apparizioni inquietanti. Nudi da Erebo, fantasmi di un imbrunire perpetuo, Atalanta e Ippomene sono colpiti da una luce spettrale: ‘evocati’, ri Âchiamati dal nulla. Si ripete il confronto dei corpi del Gesù e san Giovannino, ma le carni s’imbevono ades Âso di una luce astratta, lunare. Una diagonale di ros Âsori, in quel pallore livido, d’incarnati più rosei, un soffio appena vitale attraversa le mani dei due adole Âscenti, scalando dal volto del giovane fino alla mano della fanciulla che interrompe la corsa, e si distrae a raccogliere il pomo gettato dal rivale: un gesto-lapsus, che nel suo curvo ritmo di danza scopre una nudità di membra molli, lievemente deteriorate, umide per un fremito quasi di alga, di rettile o di mollusco. Si sta compiendo un rito che non è certo quello della gara mitica. Atalanta assorta in un’ermetica indifferenza, Ippomene che si ritrae spaventato dalla magìa fascinatrice del pomo, divergono in un rapporto di frater Âna, incomunicabile solitudine. E che deserto è mai questo? Una marina? Un lido misterioso? Un non Âluogo? Forse neppure il simbolismo moderno è mai riuscito a perdersi dietro una cerimonia così sopran Ânaturale come quella casualmente allestita da Guido. Giocatore arrabbiato, dissipatore impunito, il Re Âni finì con una morte santa. Ma secondo quel grande romanziere che è il suo biografo, Carlo Cesare Mal Âvasia, non era mancata alla sua vecchiaia anche una leggenda di povertà e decadenza. Costretto dai debiti, si era ridotto “a lavorare mezze figure, e teste alla prima, e senza il letto sotto; a finire inconsiderata Âmente le storie, e le tavole più riguardevoli; a prender denari a cambio da tutti; a non ricusare ogni impre Âstito da gli amici; a vendere, vil mercenario, l’opra sua e le giornate a un tanto l’ora”. Superfluo aggiun Âgere che appunto la tarda maniera di Guido, compa Âtita dal Malvasia, quanto veramente soffiata di ‘pa Âradiso’ secondo il gusto che sarà poi saccheggiato dai Settecento francese, è stata quella più rivalutata dalla critica moderna: maniera perlacea, argentina, di puro ‘pennello’ sciolto dal pregiudizio del disegno. Basta a Guido, adesso, mettere una piccola corona nella mano di una giovane contadina, una ragazza ‘italica’ da; volto sabino, per conquistare senza mediazioni lettera Ârie quella maestà , quella gentilezza regale che aveva sempre cercato. Sopraggiungendo l’inverno della vec Âchiaia, sembra sciogliersi in Guido, insieme al pennel Âlo, anche una commozione che si dimentica del ‘su Âblime’. Nel freddo di una notte nebbiosa, tra grige brume da valle del Po, nudi operai di una fucina sa Âcra si raccolgono intorno allo stupefacente miracolo di energia termica di un bambino ‘radiatore’, più chi redentore, nell’Adorazione dei pastori di Napoli, o in quella della National Gallery. Sono le immagini con le quali il Reni, “stucco di più vivere tra tante angu Âstie, parve accomodarsi al morire”. Un giorno, racconta il Malvasia, Guido frugava dentro due casse in cerca di disegni da vendere, roba sua. A un tratto, soprappensiero, “gli venne detto pa Ârergli di affaticarsi intorno alle scritture di un morto “. E pregato dal servo Marchino, il quale gli faceva da cameriere, cuoco, segretario, e donna di governo, di lasciare questi discorsi, e parlar d’altro: “anzi di que Âsti”, replicò, “e credetemi ch’ogni dì più vi penso, co Ânoscendo esser vissuto assai, anzi troppo, dando fa Âstidio a tanti altri forzati a star bassi finch’io vivo”.
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