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LETTERATURA: I MAESTRI: Ricordo di Lucio Piccolo

19 Novembre 2012

di Alfredo Todisco
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 28 maggio 1969]

Ho conosciuto Lucio Piccolo nella sua antica casa di Capo d’Orlando che, seminascosta fra giardini di arancio, domi ­na dall’alto di un poggio soli ­tario una splendida vista sul mare. Lo stesso mare che, po ­co lontano, bagna Tindari, che una nostalgica poesia di Qua ­simodo ha introdotto nel pa ­norama della nostra poesia. « Tindari / mite ti so pensile sull’acque… ».

Anche la casa di Lucio Pic ­colo è pensile sulle onde e an ­ch’essa ha un posto nella no ­stra letteratura. Perché vi ha abitato e vi ha distillato i suoi versi raffinati e insieme cari ­chi di odori terrestri il poeta ora scomparso; ma anche per ­ché in quelle stanze remote e come sospese fuori dal tempo, Tornasi di Lampedusa, suo cu ­gino primo, amava ritirarsi a lavorare sulle pagine del Gat ­topardo.

Arrivai a Capo d’Orlando nel ­l’inverno del ’63. Un inverno freddissimo. Mi accompagnava Vincenzo Tusa, che di tutti i soprintendenti che ho conosciu ­to è il più intelligente e cor ­diale, il quale ha tra l’altro il merito di recuperare, quando può, gli scavatori di frodo del ­le tombe di Selinunte e di tra ­sformarli in guardiani. Quella mattina spirava il freddo del sud, solo in apparenza mode ­rato, ma che pian piano entra nelle ossa per restarci.

Il barone Lucio Piccolo di Calanovella accogliendoci sul ­l’uscio ci fece entrare in una grande stanza al piano terra, del tutto sprovvista anche del minimo sentore di riscaldamen ­to. La temperatura era da cel ­la frigorifera. Il freddo degli ambienti interni sembra, si sa, anche più sconfortevole; ma ciò che fra quelle storiche pareti aggiungeva all’impressione di gelo era l’atmosfera da museo che vi dominava. Tutti gli ar ­redi, dai divani rapés ai qua ­dri di famiglia, alle panoplie appese alle pareti, alla profu ­sione di piatti ispano-arabi al ­lineati nelle teche (forse la raccolta più preziosa in mani private, che mandava in visi ­bilio Vincenzo Tusa) avevano l’aria di discendere giù dai se ­coli. Parlavano di un mondo scomparso, in cui il suo abita ­tore dava l’impressione di vi ­verci da contemporaneo.

Allora sessantenne, magro, minuto, il disegno araldico del viso, Piccolo indossava un abi ­to estivo, portava intorno al collo un foulard di seta col no ­do che emergeva a jabot di sotto alla camicia aperta, che gli dava l’aria un po’ noncu ­rante del signore di campagna. Ci sedemmo a conversare. Vin ­cenzo Tusa che è siciliano e anche ben portante, reggeva il freddo con una certa longani ­mità in cui si mescolava anche il rispetto del figlio della cam ­pagna per il blasone. Io inve ­ce, abituato al surriscaldamen ­to di Milano, avevo le labbra blu e le membra percorse da un leggero ma persistente tre ­mito. Il mio ospite, che si muo ­veva a suo agio come fossimo stati in un delizioso tepidario, sembrava divertirsi allo spet ­tacolo di un allobrogo che nel cuore del meridione sembrava più a disagio che se si fosse trattato del Polo nord.

Ci sedemmo a parlare in un angolo, e il discorso girò in ­torno a quel tanto di destino comune che ha certamente le ­gato Piccolo e Lampedusa. I quali, oltre che dal sangue, fu ­rono anche uniti dai loro in ­teressi interiori. Simili e di ­versi, entrambi amavano i li ­bri, le arti, la vita aristocra ­ticamente appartata negli an ­goli della loro terra in cui af ­fondavano più profondamente le loro radici. Sempre tentati di scrivere, ma sempre trat ­tenuti dalla pigrizia, dal pudo ­re e da un senso critico che nel loro animo sofisticato si tramutava nel gusto anche un po’ snobistico di distruggersi e di distruggere l’altro. E le rare volte che si scambiavano le loro carte con la speranza d’essere assolti, essi erano trat ­ti quasi irresistibilmente a far ­si censori affilatissimi l’uno dell’altro.

Col volgere del tempo, que ­sto reciproco persiflage finì a tramutarsi, tuttavia, in un mutuo stimolo. Quando Pic ­colo compose i suoi Canti barocchi, Lampedusa, toccato dalla magia di quei versi intessuti di echi e di risonanza della loro isola, mise da parte l’ironia e li mandò a Eugenio Montale il quale a sua volta conquistato da quel frutto co ­sì insolito e saporoso aiutò l’oscuro poeta di provincia a entrare di pieno diritto nella repubblica delle lettere. E quando nel 1954, i Canti ba ­rocchi furono presentati ad un convegno a San Pellegrino e Piccolo si portò dietro anche il cugino, da quel contatto rav ­vicinato col mondo dei lette ­rati militanti Lampedusa pre ­se lo stimolo a scrivere il capolavoro.

La nostra conversazione si tenne per un po’ lontano dagli argomenti di attualità. Grazie anche a Tusa e a Casimiro Piccolo, fratello di Lucio, che passa la vita fra tele e pen ­nelli, vogava nelle lontananze. Pareva che in quel piccolo mondo antico siciliano il ca ­lendario si fosse fermato e non per distrazione, ma per una specie di partito preso contro il tempo presente e il vorticoso affannare delle sue mode.

Ma poi fu un’uscita di Casi ­miro Piccolo a farmi capire che in quella casa i due cugi ­ni esercitavano di proposito lo snobismo del non prendere in troppa considerazione l’og ­gi: quasi si trattasse di una gaucherie. Disse: «Io, quei pittori moderni che deforma ­no non li posso proprio sop ­portare ». Pensavo alludesse, che so? a Picasso, a Léger, a Nolde. Invece si riferiva a Goya: al Goya delle immagini stravolte del suo periodo nero. Il barone Casimiro, quello che era avvenuto dopo il grande spagnolo non aveva ritenuto che meritasse di essere preso in considerazione.

Poiché infieriva la polemica fra avanguardia e tradizione, fui tentato di chiamare Lucio Piccolo, che passeggiava nel passato come a casa sua e par ­lava di Dante come fosse un vien de paraître, a rispondere sulle nuove voghe che dirom ­pevano in letteratura. Il no ­stro ospite non si mostrò spae ­sato, ma acuminò piuttosto la sua ironia. Disse: «Molti mi accusano di essere in ritardo, di essere un provinciale. Ma mi sembra che lo siano di più quelli che si affannano a in ­seguire le ultimissime mode, che sono poi mode ottantenni. Il mio non è un prodotto di imitazione, ma un prodotto au ­tentico di quest’angolo di ter ­ra: antico e sempre nuovo. Le rivoluzioni che l’avanguardia oggi rincorre, io le conoscevo già trent’anni fa. In Italia tut ­to arriva trent’anni dopo ».

Ci fu un momento che io, sempre più surgelato, mi con ­fortai. Fu quando udii prove ­nire da una stanza contigua un tintinnio di bicchieri. Forse il barone, un po’ impietosito, mi offriva un tè o un ponce caldissimo. Entrò infatti un cameriere in livrea con un vassoio in mano. Ma invece di una bevanda caldissima mi fu messo davanti un artistico ge ­lato non so più di quale raro frutto : una specialità della casata.

Notando il mio sconcerto, il poeta mi disse sorridendo: « Sa, il freddo in questo pae ­se torrido dura pochi giorni. Siamo attrezzati per l’estate. Non ci pare il caso di cam ­biare le nostre abitudini per così poco ».


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart