LETTERATURA: I MAESTRI: Riscoperta della scapigliatura milanese13 Ottobre 2018 di Vittore Branca «Chi si ricorda più della poe sia italiana di dieci o undici anni orsono? » si domandava nel febbraio del 1880 Giosue Car ducci in un corrucciato arti colo sul Fanfulla della Domenica. E nominava esplicita mente il Tarchetti e il Praga, parlando di «mancanza di os sigeno »; e concludeva: «Io di co che l’ammirazione pe’l so netto ‘ Ell’era così gracile e piccina ‘ [il più famoso del Tarchetti] è una miserabile prova del rammollimento di cervello a cui, quella che il Proudhon chiamava scrofola romantica, aveva condotto la gente ». Sono ora passati cent’anni; e quegli scrittori, che il Carducci dava per dimenticati già dopo dieci anni, sono non solamen te presenti ma sono ripubbli cati e studiati come non mai, e fino in lontani paesi (è del ’66 il volume del Moestrup, Scapigliatura, pubblicato a Cope naghen). Ancora però nel 1925 perfino a un lombardo quasi epigono del Dossi faceva «un certo effetto vedere quei no stri bisnonni, che fino a ieri eravamo abituati a considerare come dei cari mattacchioni di casa, passare così compunta mente sotto gli occhiali della critica austera ». Scriveva così Carlo Linati â— e a lui si asso ciava sostanzialmente Filippo Sacchi proprio su queste colon ne, il 10 maggio del ’25 â— a proposito del libro di Piero Nar di, steso come tesi di laurea nel ’14 e pubblicato da Zanichelli nel ’24: la prima coraggiosa sistemazione storica e critica della così detta Scapigliatura, dopo le stroncature carducciane e dopo la iperbolica creazione di un mito, sul piano soprattutto del costume, operata dal Dossi e dal Lucini. Ora le posizioni si sono rovesciate: la “vigorosa e circostanziatissima Storia della Scapi gliatura di Gaetano Mariani, la solenne Mostra della Scapiglia tura alla Permanente, gli acuti saggi dell’Isella hanno in que sti ultimi tre anni chiarito e in certo senso consacrato nella no stra storia letteraria quel movimento. Bene ha fatto dunque il Nardi a ripubblicare quel suo veramente storico volume (Sca pigliatura – Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi. Milano, Mondadori, pp. 282, L. 3.500). In trodotto da una fine e briosa prefazione quasi autobiografica (ricca di precisazioni e di ag giornamenti), rettificato per il Tarchetti e per il Boito sugli importanti nuovi documenti e scritti emersi in questi anni, il volume â— con una vitalità ec cezionale per un saggio critico â— è ancora dopo più di mezzo secolo fondamentalmente va lido. La decisa ambientazione lom barda del movimento (nono stante le estensioni fatte dal Contini e da altri al Piemonte e alla Liguria), la sequenza in primo piano Rovani-Praga-Boito-Tarchetti-Dossi, la caratteri stica coscienza della «affinità delle tre arti » (letteratura, pittura, musica), il significato di avanguardia letteraria post-romantica, per non dire pre-decadentistica, nell’Italia fra il ’60 e l’80, erano per il Nardi, come sono per gli ultimi studiosi, i caratteri fondamentali di quel discusso movimento letterario e artistico. * Discusso fin dal nome e dalla legittimità della definizione. Contro la notizia ripetuta pedissequamente dalle storie let terarie (fino alla recente garzantiana), la fortunata parola «scapigliatura » non apparve «per la prima volta » nel ro manzo di Cletto Arrighi, La Scapigliatura e il 6 febbraio (1859), ma era termine corren te fin dal Cinquecento-Seicento per indicare gente ardita e le sta e un po’ rompicollo. Nel famoso Vocabolario milanese-italiano del Cherubini (1814) anzi si spiegava deboscé come «dissoluto, scapestrato, scapigliato ». Probabilmente – secondo il Mariani â— proprio dal Cherubini ebbe Cletto Arrighi questo, come altri suggerimenti, per umorose definizioni e per divertissements linguistico-filologici; e usò il vocabolario â— certo pensando anche alla bohème del Murger â— fin dal 1857 nel romanzo Gli ultimi corian doli. Ma è Arrigo Boito che il 1 ° gennaio 1865 diede sulla Crona ca grigia (la rivista diretta dal l’Arrighi) un valore tutto arti stico e culturale al termine, quasi con uno squillo da mani festo programmatico: «Noi sca pigliati, romantici in ira, alle regolari leggi del Bello predili giamo i Quasimodi nelle no stre fantasticherie ». Era l’an ticipazione dei famosi versi po lemici «e non trovando il Bel lo / ci abbranchiamo all’Or rendo ». Era l’affermazione di quella rivolta alla tradizione â— non importa se classica o romantica â— e di anelito al nuovo che caratterizzerà il gruppo scapigliato, pur in quella pro fonda diversità di opere e di personalità che ha fatto spesso mettere in dubbio â— dal Croce al Romano â— la legittimità stessa della definizione unita ria di «scapigliatura » (ma qua le di queste insegne-etichette, a cominciare dalle classicissi me di «Umanesimo » o «Rina scimento », ha un valore che non sia quello classificatorio o didattico?). La funzione storica della singolare «consorteria » milanese â— che legava saldamente i let terati ai pittori delle dissolven ze cromatiche (Cremona, Ranzoni, Grandi) e ai musicisti (Faccio, Catalani) â— fu soprat tutto quella di bruciare le for me più stanche e appariscenti del Romanticismo, per avviare con esperienze e aspirazioni europee â— secondo la vocazione della Milano del Caffè e del Conciliatore â— la stagione del verismo. * Erano, gli scapigliati, anzitut to dei contestatori sul piano ar tistico e sul piano sociale. Al Manzoni, che rappresentava il grande e venerato monarca della letteratura e che pur era considerato maestro dal Rovani e dal Dossi, il Praga gridava che ormai doveva scomparire perché era l’ora degli «ante cristi », e il Tarchetti dichia rava di aver buttato i Promessi Sposi «tra i libri inutili » per ché «è arido… non ha anima ». Al Verdi, genio dell’Italia risorgimentale, Arrigo Boito rinfac ciava che la musica italiana era prostituita e bruttata come «muro di lupanare ». A questi idoli infranti opponevano, con tipica e filistea esterofilia, Heine e Baudelaire, Dickens in chiave populista e poi Zola, Berlioz e Wagner per la «me lodia infinita e avveniristica ». E nello stesso esercizio della scrittura volevano rompere con ogni tradizione linguistica letteraria, tanto che la Scapiglia tura è ora interpretata â— come rileva il Nardi â— dal Contini come «una violenza verbale, una varietà di espressionismo », e dall’Isella come una «cate goria stilistica ». In queste aspirazioni pole miche agiva confusa ma vee mente la coscienza della neces sità di una letteratura più ade rente alla vita di ogni giorno. «La rozza realtà mi tocca strin gere / La rozza realtà che mi circonda » si ripetevano quegli scapigliati col loro Betteloni: e sceglievano spesso la rappresentazione delle realtà più squallide, anche quelle dello «sporco lastrico » e degli «opifici oscuri », anche quelle delle «cronache della fame e del vizio » e delle morgues, fino all’osceno e al macabro. Per questo â— pur restando nel cerchio di una «medietas » lombarda che illimpidì astrusioni e placò disordini â— opponevano al Manzoni «che fu un danno immenso per la letteratura e per il paese » il Cattàneo che significava rivendicazione di eguaglianza e volontà di un rinnovamento politico-sociale in senso popolare e laicista. Giustamente il Mariani ha visto in narratori a tendenze populiste quali l’Arrighi, il Valera, il Tronconi gli esponenti degli esiti ultimi di quell’impegno in una spietata denuncia sociale e in una polemica rivolta. Quelli che accorreranno a battersi per la Francia di Gambetta e poi saranno i così detti «perduti », amici di Felice Cavallotti e di Filippo Turati, crescono proprio fra gli «scapigliati » del circolo dei Praga e del Tarchetti, del Boito e del Faccio, due volontari garibaldini in polemica con l’Italia ufficiale di Lissa e di Custoza. La porta alla narrativa dei vinti e della vita che per se stessa duole, al romanzo del Verga e del De Marchi, è così risolutamente aperta: vi si decanteranno le istanze più valide del realismo «scapigliato ». Ma dalle esperienze estreme di quegli stessi scapigliati sembrano indicate â— come possono suggerire le fini e discretissime analisi del Nardi â— anche due altre prospettive decisive per il nostro romanzo. L’una è la de terminazione di uno spazio nar rativo, tipico per ritrarre l’evoluzione di una società, indivi duato dai Cent’anni del Rovani e restato classico nella no stra letteratura dal Nievo e dal De Roberto ai Bacchelli, non senza possibili implicazioni su piano europeo. L’altra è l’iden tificazione, raggiunta special mente col Dossi, di quello che è il tempo narrativo della me moria inconscia e allusiva. È un’identificazione che segna â— accanto agli ardimenti lingui stici â— la modernità, tutta pro tesa verso il Novecento, della singolare e provinciale esperienza della Scapigliatura.
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