di Mario Luzi
[da “La fiera letteraria”, numero 46, giovedì, 16 novembre 1967]
Ho appena conosciuto Sbarbaro, avendolo incontrato di sfuggita due o tre volte quando da Spotorno faceva tappa a Firenze per raggiungere a Siena la casa dei suoi amici Vivante. Era, credo, il suo unico, periodico viaggio da molti anni. Per un ritratto dell’uomo rimando ad altri che hanno avuto più occasioni di frequentarlo, se questa parola è compatibile con il suo geloso ostinato costume di solitario. Del resto questo ritratto, almeno nel suo cliché, è stato fatto, rifatto e am piamente diffuso. Dirò solo che in quei brevi approcci, la sua timidezza venendo a riscontro con la mia dava luogo a qualche imbarazzo per for tuna risolto dalla sua indicibile mi tezza. Si presentava già allora come un uomo coperto da una patina di pol vere â— e qui certo giocavano i titoli dei suoi libri: Trucioli, Scampoli, Li quidazione ecc. â— ma soffiando un po’ su quella superficie appannata la con versazione lasciava tralucere un fuoco tenace e perfino lo sprizzare di qual che scintilla. La presenza fisica con fermava del resto il senso che avevo di lui poeta: remoto e stranamente vi cino.
Il tema del deserto è il grande, ge nerale tema della poesia occidentale di questo secolo e denota l’estraneità del mondo che procede su cammini difformi da qualsiasi legge che la co scienza e l’assuefazione possano rico noscere. Difformità variamente sentita a seconda del grado raggiunto dal pro cesso di adulterazione di valori a ope ra della civiltà industriale e del grado di impotenza culturale che le corri sponde. Il tema del deserto ha trovato il suo eponimo nel Waste land di Eliot ma era già presente nella poesia euro pea anche prima della tragica dimo strazione del primo conflitto mondia le. Pianissimo di Sbarbaro è del 1914 e reca in prima pagina questo enuncia to: Perduto ha la voce / la sirena del mondo e il mondo è un grande / deser to. Non che la depressione crepu scolare non ne avesse indirettamente mormorato il patema, ma Sbarbaro ne aveva per primo in Italia individuato la sostanza e il nome e li aveva richia mati alla coscienza critica, ne aveva fatto, come si dice, la sua poetica ade guandovi con molta coerenza i modi dell’espressione, il suo dettato chiaro, spezzato, contratto qua e là alternato con abbandoni al pieno ritmo classico.
Dichiarata impossibile ogni conni venza, tagliato il filo della partecipa zione, il mondo si chiude nei contorni aridi delle sue forme: E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne e tutto è quel lo / che è – soltanto quel che è. Le cose rientrate in se stesse, ossificate per la perdita del contatto con l’uomo che dovrebbe trasmettervi un significato vivente: è questo verosimilmente il grande simbolo poetico comunicato da Sbarbaro alla contemporaneità. Nello stesso tempo conviene non perdere di vista che Sbarbaro è un poeta stretta- mente aderente alla tradizione leopar diana e niente più estraneo a lui che procedere per traslati: procede invece per una macerata confessione intima.
L’immagine del mondo estraneo, sigil lato nella immanenza dei suoi aspetti incomunicabili, è trovata al fondo di una puntuale analisi della propria stanchezza e inettitudine a vivere, ot tenuta a prezzo di ammissioni cocenti e languide. Solo facendo il vuoto den tro di sé, liberandosi per confessione delle sue debolezze, Sbarbaro incontra la grande immagine oggettiva del vuo to. L’invenzione è l’altra faccia dell’e legia. Questo, che oggi corre il rischio di apparire come un limite, testimonia invece la concretezza ambientale e storica della poesia di Sbarbaro (in quel tempo tra crepuscolare e vocia no) e legittima dal fondo la sua no vità che come quella degli altri poeti protonovecenteschi italiani procede più da un ricupero di interiorità e di moralità che da preliminari proponi menti di innovazione linguistica.
Se vogliamo guardare le cose in fac cia, come appunto faceva Sbarbaro, è un moto elegiaco e dimissionario che porta all’invenzione del vuoto, del deserto. Di fronte a quella scoperta, il poeta non mi pare rimanga inerte come si è detto. Un movimento c’è; non è di reazione, ma di consenso: Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso. E’, in altre parole, un mo vimento verso la parificazione con la natura, con la materia delle cose avul se da ogni relazione con il soggetto vi vente, una fuga verso l’abumano, il riaprirsi a una possibile vita mediante riassorbimento nell’impersonale, tra le forme chiuse, identiche a se stesse, immemorabili. La poesia di Sbarbaro, mi pare, si adagia pesantemente su questo fondo non ammettendo la con traddizione dell’esistenza. Eppure se da Pianissimo passiamo a Trucioli av vengono delle curiose lievitazioni. Come alleggerito di un peso, il poeta che con Pianissimo ha reso tutti i suoi conti, può trovare perfino l’ilarità nell’osservazione staccata, nella specu lazione in sé delle forme e degli ogget ti della natura e anche degli uomini assimilati in tutto alla stessa natura, posti anzi sotto la lente del naturali sta che, come tutti sanno, era in Sbar baro.
« In una stupefatta pace di verde, un campanile: dito rosa levato al cie lo. Alla sua volta (è domenica) si av via alla spicciolata tutto il paese: fat to di poche case di legno, invisibile tra lo spicco dei prati. (A questo modo, certi fusti grigi e filiformi dan luogo alla vistosità dell’unico fiore). Per accostarlo, il miracolo nato dalla loro vita stenta, le donne collocano in bilico sul capo la paglietta a lutto, da cui pendono sul dorso sin quasi a ter ra due grandi nastri di raso nero ma rezzato. Gli uomini si infagottano ed espongono sul vestito pure nero una minuscola cravatta cremisi. Procedo no verso la chiesa come verso l’ombe lico del mondo… ». La critica ha tal volta forzato il senso di questa relati va felicità parlando di una libertà al gebrica di cui la materia verrebbe a godere in virtù dello stato d’inerzia in cui il poeta si è collocato. Ho letto, an che, alcune pagine molto brillanti di Bigongiari scritte in questo senso; ma non riesco a vedere in Sbarbaro un poeta materico. Questa piccola o gran de cosmologia rovesciata contro l’u mano mi pare estranea a lui che non cessa di restare aderente alla sua si tuazione interna, anche in questa va canza tra le cose e nelle cose. L’ama rezza rimane il suo sottinteso. « An che questa angustia mi è cara, che mi consente l’ebbrezza della prodigalità ».
Se dalla contemplazione del mondo tagliamo fuori la storia, il mondo ri mane soltanto natura estranea. Men tre ad altri tutto ciò potrebbe appari re abnorme, Sbarbaro vi trova la nor ma (la dolorosa sorridente norma) e, sciolto da responsabilità individuale, può perfino accettarlo come condizio ne piacevole, incuriosirsene vivamen te. Ma perderemmo il senso esatto di questo « naturalismo » se dimenticas simo la contropartita di frustrazione e, sì, anche la voluttà di autopunizio ne che gli corrisponde.
Come intenderla, questa frustrazio ne? Come accade nei poeti-nati essa si sottrae al rapporto di causa ed effetto, non è scomponibile, è un elemento, un dato irrefutabile. Ma è possibile dire come si manifesta: una crisi della con vinzione vitale e morale produce in sieme un lucido sprofondamento in sé dell’animo e un allontanamento irrea le del mondo oggettivo.
Se Sbarbaro si discosta dall’elegia crepuscolare che da questi termini po trebbe nascere, è in primo luogo una questione di forza e di piglio: ma di pende anche dal fatto che assume quella irrealtà generata dalla psicolo gia come realtà unica del mondo e per puro effetto di intensità le conferisce un valore di simbolo. L’immagine di terra deserta, il senso di vuoto umano in cui culmina vanno al di là dello spleen senza però cancellarlo. Sbarba ro non ricorre ad amplificazioni e la sua ragione poetica si svolge tutta in piena luce come un episodio personale fornito nella sostanza delle parole di una forza sufficiente a diventare esem plare e sintomatico. Infatti il motivo dell’aridità e della solitudine dell’uo mo moderno così centrale nella poesia e nella cultura del Novecento può ben risalire fino a Sbarbaro a trovare il suo primo nitido e consapevole accen to. E’ un motivo fatto proprio, convis suto in qualche misura da Montale fino al bivio risolutivo che ha portato l’uno dei due poeti verso l’amaro ripiegamento nella lucidità speculata della natura e l’altro a collidere dram maticamente con la cultura e con la storia.
Sbarbaro ha scritto poco, e sempre per necessità di scavo e di chiarimen to interiore, fedele al severo concetto di arte letteraria maturato nel clima della Voce e sull’esempio di Leopardi. Ha scritto soltanto e direttamente di sé â— tanto vale dire la sua semplice autobiografia psicologica, intellettuale e morale â— convinto che il compito fosse prima di tutto una espressione di verità individuale; schivo perfino dal dare troppo credito alle implica zioni, anche giuste, che la critica e i lettori vedevano nelle sue scarne fra si. Un artista preciso e onesto, nell’or goglio della sua umiltà, che lasciava volentieri agli altri i discorsi vaghi. Se ne va perdendo lo stampo, ma ri marrà la memoria e, spero, l’esempio.