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LETTERATURA: I MAESTRI: Settanta

14 Gennaio 2012

di Roberto Ridolfi
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 12 settembre 1969]

(Oggi ricorre il mio settantesimo compleanno. Non si sa più, con l’allungarsi della vita, se si è sempre giovani o si è già al tramonto. Ne sento e ne vivo, comunque, e con non troppa serenità, il passaggio. Per questo ho scelto il bellissimo elzeviro che il grande Roberto Ridolfi pubblicò allo scoccare del suo, nel 1969)

Settanta, settanta. Non è un numero da giocare al Lot ­to, purtroppo, avuto in so ­gno da qualche anima buo ­na; non è neppure il nume ­ro dei miei lettori secondo l’ultimo censimento: diamine, chi mai potrebbe pensare che fossero tanto cresciuti? Né si tratta di un pronostico per i prossimi dieci anni, che, se ­condo un vezzo leggiadro in ­valso da qualche tempo, sa ­ranno appunto chiamati « an ­ni settanta ». Insomma, cos’è questo numero che ho scritto in testa alla pagina e che oggi non mi dà pace? Mah! Per me è un numeraccio.

Proprio per questo la pren ­do larga e gli giro intorno a rispettosa distanza, menando il can per l’aia. Potrà sem ­brare un indovinello guidato, come certi giochetti di socie ­tà (freddo, freddo, calduccio, fuoco, fuoco), ma intanto con ­tinuerò col dire che Ugo Ojetti, in un caso del genere, pub ­blicò un libretto intitolato Sessanta. Io ce ne metto die ­ci di più, e di questa giunta farei volentieri a meno. Per ­ché d’anni si tratta veramen ­te, e non di quelli del decen ­nio che ci corre incontro tutto festoso, carico di favorevoli auspici e di così rosee pro ­messe, ma dei miei, di quelli che da oggi ho sul groppone.

Certo, non mi sono mica venuti addosso tutti insieme ad un tratto. Dacché ne lessi nella mia fanciullezza, non mi è uscito più dalla mente quel ­l’atleta dell’antica Grecia, che, essendosi abituato a mettersi sulle spalle ogni giorno un vi ­tellino di latte, poté continuare a portarlo anche quando fu divenuto un grosso gioven ­co. Così ho fatto io col peso degli anni: ora che mi trovo addosso questo vecchio bue, quasi non me ne accorgo. Non me ne accorgo neppure se cor ­ro, salto, m’arrampico per sen ­tieri da capre in campagna. In città non mi riesce più di camminare, fra tanta gente che va a passo di lumaca co ­me se le gambe non la por ­tassero, avvezza ormai a farsi portar dalle ruote.

Da ragazzo, quando scen ­devo le scale, arrivato in fon ­do, saltavo gli ultimi quattro scalini a pie’ pari, d’un bal ­zo. Lo faccio ancora: è una abitudine come quella del vi ­tellino; per nessuna cosa al mondo rinunzierei a quella ginnastica. C’è chi fa la vitti ­ma e sciopera perché lavora otto ore al giorno; io ne lavo ­ro sedici. Non mi sento più vecchio di quanto mi sentissi dieci, vent’anni or sono; non mi pesano le fatiche, le ve ­glie, gli strapazzi; i miei mali non sono di quelli che danno lavoro al medico o al denti ­sta, guadagno alle farmacie. Ciò che mi duole è altro; ciò che oggi mi pesa è questa pa ­rola: settanta.

*

Poco importa che io mi sen ­ta ancor giovane, con questo marchio che mi bolla per vecchio. La vecchiaia è come una muraglia che ci separa dal resto dell’umanità e si fa a mano a mano più alta: ogni anno che passa è un’al ­tra fila di mattoni che ad essa si sovrappone. Con questi gio ­vani si vorrebbe parlare an ­che attraverso il muro, maga ­ri bussando con le nocche o coi pugni al modo dei carce ­rati. Ma costoro non odono o non ascoltano; ghignano, con ­tano le file dei mattoni e son capaci di rinfacciartele: set ­tanta.

Dacché oggi m’è venuta l’idea di scriver qui questo numero, è come se mi fossi messo al collo un cartello di infamia: e con le scope dietro e col cartello / andarsene mi ­trato a porre in gogna. Vo ­glio vedere quante di quelle lettrici giovani che mi scri ­vevano e mi mandavano le loro immagini graziose, si sen ­tiranno ancora di farlo. Menandro aveva più di mille volte ragione quando disse caro al cielo chi muore gio ­vane: poco fa Marino Moret ­ti, nelle sue freschissime poe ­sie di ottantenne, ci rammen ­tava: Gesù amava i fanciulli /  non i vegliardi. Ma allo ­ra, neppure Gesù? Neppure Lui?

Si legge nei Ricordi del Guicciardini: « Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infermità, di ca ­so, di violenza, e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose biso ­gna concorrino nell’anno a volere che la ricolta sia buo ­na, non è cosa di che io mi meravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno uomo fer ­tile ». Dovrei dunque ringra ­ziare Dio, e lo ringrazio, d’a ­vermi fatto approdare, fra tut ­ti gli « accidenti e pericoli » che ordinariamente c’insidia ­no, ai quali si sono aggiunti per noi anche quelli straordi ­narissimi dipendenti da due micidiali guerre, a questa re ­mota e spopolata riva.

Sono, insomma, una specie di miracolato. Resterebbe da stabilire come a questo mira ­colo io abbia corrisposto, quale uso abbia fatto di questo privilegiato prolungamento dell’esistenza. Più si vive, più i conti si allungano: e, ameno per me, si allungano sempre dalla parte del debito.

Mi sento avvilito, mortifi ­cato di vivere a credito, ch’è un poco come vivere a scroc ­co. Senza contare che certi debiti vecchi oltremodo m’an ­gustiano. Vivere non è come scrivere: non si può correg ­gere la vita vissuta come si correggono le pagine scritte. Il mio piacere di scrittore non è tanto nel comporre, quanto nel rifare e nel limare: non stampo pagina che non sia stata lavorata e rilavorata; poi, dopo stampata, vorrei tornare a lavorarla di nuovo. Ora, con questa mania in corpo e con questi settant’an ­ni vissuti, mi trovo come se avessi buttato giù di getto settanta pagine e non vi po ­tessi mutare non dico una sola frase, ma neppure una parola, neppure una virgola: figura ­tevi che rovello; più le rileg ­go (che purtroppo le rileggo, le ripenso, le rimugino di con ­tinuo), più mi verrebbe la voglia di ritoccare questo o quello, se non addirittura di cancellar tutto e ricominciare dalle prime parole; ma non si può.

*

Sarà perché in settembre son nato: questo mese m’in ­canta; per me è come torna ­re a respirar l’aria nativa. Ha, in principio, la gagliardia del ­l’estate e, verso la fine, le dol ­cezze malinconiche dell’autun ­no. Quest’anno la malinco ­nia s’è fatta avanti per me prima del tempo: non saprei dire se sia l’influsso di quel numero della malora.

Come uso far quasi sempre quando la stagione m’invita, anche stasera me ne sono ve ­nuto a guardare il tramonto da un muricciolo del giardino che per un breve tratto s’af ­faccia sulla strada sottostan ­te; e questa, da un altro mu ­ricciolo, sulla stretta vallecola che divide il poggio dal pog ­gio dirimpetto. Giù nella stra ­da, dei ragazzi corrono, si rin ­corrono: mi piacerebbe scen ­dere e mescolarmi con loro. Passa, avviticchiata, una cop ­pia: lui non più tanto giova ­ne, lei giovanissima, con un gonnellino corto, che lascia scoperte le gambe, lunghe, sottili, affusolate, stupende.

Ecco, vorrei mettere al po ­sto mio uno di questi che si ingegnano di consolarmi di ­cendo l’uomo avere l’età che dimostra o addirittura quella che si sente. Magari fosse così. Quante cose non posso fare, delle quali avrei voglia e che, assolutamente parlan ­do, fare potrei. Invece, non che farle, non posso neppure dirle. Non posso: settanta.


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Bart