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LETTERATURA: I MAESTRI: Sontag. Il mito in maglione

25 Febbraio 2016

di Romano Giachetti
[da “La fiera letteraria”, numero 50, giovedì 14 dicembre 1967]

New York, dicembre

Dai margini della zona della Colum ­bia University e del quartiere negro, salire su al sedicesimo piano di un vecchio mastodontico edificio ed en ­trare in un luminoso attico circondato da un incredibile terrazzo, è come pe ­netrare con uno strattagemma nel la ­boratorio segreto di uno dei miti di questo Paese: il mito di Susan Sontag, la « diva » dell’attuale letteratura ame ­ricana. Ma ben presto ci si accorge che più che di un mito si tratta di un equivoco, del quale il solo possibile re ­sponsabile è il gusto del nostro tempo. Mentre il sole cala compatto oltre le rive dell’Hudson, in un incendio che non risparmia né il fiume, né il New Jersey dall’altra parte, né l’autostrada e il parco ai piedi del grattacielo, ha inizio il mio rifacimento (una rivela ­zione? Un sopruso?) della storia e dei motivi d’arte di questa donna giovane, bella, che a qualcuno ha suggerito la famosa espressione un tempo usata da Arthur Miller per Marilyn Monroe: una donna che « ha bisogno solo di una benedizione ».

I fatti della sua vita, quelli da sche ­dina biografica, sono pochi, e da un certo punto di vista dicono abbastan ­za: nata una trentacinquina d’anni fa a New York, cresciuta prima in Arizo ­na poi in California, Susan Sontag curò la propria educazione in un mo ­vimento migratorio che lei stessa tie ­ne subito a sottolineare, « dall’ovest verso est », con tappe alle Università di Berkeley, Chicago, Harvard. Anni d’insegnamento a New York, poi nel 1963 il primo romanzo, The Benefcictor, cui fece seguito una raccolta di saggi Against Interpretation. E ora un secondo romanzo, Death Kit. Nel frattempo, conferenze, dibattiti, il suc ­cesso, e finalmente via dal vecchio ap ­partamento del Greenwich Village, via in un isolamento fatto di sempli ­cità, di lavoro, di spregiudicatezza ma anche di ripensamenti. Le pareti della sua magnifica casa sono spoglie, bian ­che di calce, prive di qualsiasi decora ­zione. Uniche e sole immagini che ti guardano ironiche: Bob Dylan con oc ­chi sorridenti sotto il ciuffo ribelle, e una cinquantenne Greta Garbo in ma ­glione, sbiadita in una bellezza da in ­canto.

A un tale ambiente da certosino non fa riscontro la semplicità della scrittrice. Bilanciata su centri nervosi palpabili, si sprofonda in una poltrona di pelle nera, fuma una Marlboro die ­tro l’altra, parla con misura, con il rammarico evidente di non essere alla macchina da scrivere, e quando sorri ­de con gli occhi la bocca rimane dura, quando le labbra disegnano un sorriso o esplodono in un’improvvisa risata gli occhi restano freddi, perduti a cal ­colare idee o parole.

Già, l’equivoco che dà corpo e appa ­rente sostanza a una marea di polemi ­che sul suo conto: polemiche lettera ­rie, estetiche, politiche; e a mano a mano che le une si intrecciano alle al ­tre, il mito cresce, le riviste di grande divulgazione si disputano gli aneddoti sul suo modo di vivere, i suoi pareri su Godard provocano rabbiose rispo ­ste, quelli su Peter Weiss o su Ionesco agitano le acque di una scena tea ­trale addormentata, la si accusa di « modernismo », di rifiutare tutto ciò che è « vecchio » la « moralità » delle generazioni passate, il « contenuto » di una comoda estetica letteraria. Ma che cos’è dunque questa Susan Son ­tag, i cui saggi puntualmente minac ­ciano di minare le fondamenta dello status quo artistico di questo Paese? E’ proprio vero che ricorre, come qualcuno ha scritto, all’artificio dei ro ­manzi per giustificare e tradurre in fatto compiuto le idee « rivoluziona ­rie » della sua saggistica?

« No, non io », esordisce. « Io sono una scrittrice, mi considero soprattut ­to una narratrice che scrive anche dei saggi. Come un mucchio di altra gente ».

Affermazione che la colloca subito in un certo settore, dato che in Ameri ­ca, come ha scritto un noto vignetti ­sta, « anche le formiche hanno ciascu ­na la propria brava specializzazione ». Ne è certo consapevole.

« Sì, ma ciò non significa che sia una cosa positiva. Immagino che ognu ­no si crei una certa reputazione in un modo o nell’altro, ma nessuno avrebbe definito T. S. Eliot un poeta piuttosto che un critico. Come critico ebbe sicuramente la sua grande im ­portanza, forse anche più che come poeta. Mi sembra che in Europa nes ­suno voglia ricevere l’etichetta di ro ­manziere, o critico, o che altro. Cos’è Sartre, per esempio? Un commedio ­grafo, un romanziere, un filosofo, un uomo politico? Certo in America è meno comune, ma se dovessi dire cos’è che m’interessa di più, direi la narrativa ».

A questo punto la provoco nella zona più sensibile: dato che, volere o no, la sua fama è diventata un succes ­so pubblico, come lo spiega, lei, que ­sto successo?

« Mah… Vorrei non doverlo spiega ­re, perché mi sembra che sia basato su un sacco di equivoci. La gente ha sempre prestato più attenzione ai sag ­gi che ai due romanzi, ma si tratta di un interesse volgare, non molto serio, come comprare mobili. Alla gente in ­teressa sempre il nuovo, e ha reagito alle mie cose perché si dava il caso che io scrivessi di argomenti mai trat ­tati prima. Si è anche pensato, e scrit ­to, che io cercassi a tutti i costi di promuovere la novità per la novità, ma non era certo questa la mia inten ­zione. La mia intenzione è sempre sta ­ta un’altra. Per esempio, secondo me Shakespeare è il più grande poeta che sia mai esistito, ma non mi è mai pas ­sato per la testa di scrivere di lui. Che Shakespeare sia più grande di tutti quelli di cui ho scritto non significa nulla; non scrivo dei miei autori pre ­feriti, scrivo di ciò che mi sembra uti ­le far conoscere, una volta che mi sen ­to in grado di trattare l’argomento. Ciò che non ho mai previsto, purtrop ­po, è che le cose fanno presto a diven ­tare di moda. Per cui direi che il mio cosiddetto successo è in parte dovuto a questo appetito, a questa superficia ­le necessità di certa gente di tenersi al pari col passo del tempo… gente che una volta era all’Università, che vuole mantenersi informata ».

« Sicché questo mio successo è piut ­tosto imbarazzante », dice mentre ac ­cende un piccolo riflettore sulle nostre teste, « dato che non è molto serio. Non mi dispiace ciò che ho scritto, ma mi dispiace >ciò che non è stato fatto. D’altra parte devo accettarlo: una vol ­ta pubblicata, una cosa non mi appartiene più: che la gente ne faccia ciò che vuole. L’unico guaio è che ha avuto un effetto su di me: mi ha convinta a scrivere di meno. Dopo la quarantina di saggi degli anni scorsi, ora ne scri ­vo due o tre all’anno, non di più ».

Una delle cose più bizzarre della sua rapida carriera di scrittrice fu certamente la pubblicazione delle Note su Camp, una specie di raccolta di osservazioni su un tipo di gusto corrente, che la rese famosa nel giro di pochi giorni.

« Quel saggio divenne famoso, sì, con mia grande sorpresa. Non lo avevo scritto per un vasto pubblico, altrimenti non lo avrei pubblicato sulla Partisan Review. Era destinato ai let ­tori di quella rivista ». Certo, ma la gente riconobbe i propri gusti descrit ­ti con chiarezza, e vi fece ricorso in ogni situazione indecisa. Che cos’era Camp? Camp erano molte cose: certi pittori, certi libri, certi mobili, certi quadri, certe decorazioni; e una cosa era Camp e un’altra non lo era; una cosa riceveva il sigillo dell’intellet ­tualità, e diventava di moda, e a un’al ­tra le era negato e cadeva in disuso. Il filtro del prestigio della rivista assol ­veva da ogni peccato di modernismo: non era inseguire una fisima, era un essere bene informato. Ma la moda, si sa, è precoce nel risveglio e rapida a tramontare. Che ne è, oggi, di quel gu ­sto, di quella sensibilità?

Susan Sontag, intrappolata nel fasti ­dio della domanda e del ricordo di quella evoluzione, risponde: « Non ne ho la più pallida idea. Quella gente, non la conoscevo allora e non la cono ­sco ora. Io non cercavo di vendere nulla a nessuno, cercavo solo di regi ­strare qualcosa che esisteva già. Quando scrissi quel saggio m’interes ­sava il problema della sensibilità, vo ­levo scrivere sul concetto di sensibi ­lità in varie forme, e quando mi guar ­dai intorno per trovare un esempio, la prima cosa che pensai fu morbosità, e stavo anzi per scrivere un articolo sulla morbosità, ma poi cominciò a di ­ramarsi in varie direzioni, e a farsi sempre più truculento, con riferimen ­ti a tombe, mausolei, roba del gene ­re… Ci rinunciai e mi limitai a questo solo esempio, Camp. Ma la gente non lo prese per un esempio, lo videro come una specie di manifesto. Ai miei amici l’argomento era noto, per la gente che non ne sapeva nulla mi di ­spiace, ma non avevo idea… Una cosa comunque è certa, che non vorrei es ­sere identificata con quel saggio ».

Ma nessuno, in America, sembra aver deciso la strada migliore per l’i ­dentificazione di Susan Sontag. Burton Feldman, per esempio, scrive su Dissent: « Nella confusa varietà di mo ­vimenti e umori che vanno sotto il ti ­tolo di “Nuovo radicalismo”, niente e nessuno è più visibile di Susan Son ­tag. Ciò è in parte dovuto alla sua va ­rietà, giacché al contrario di altri essa non è facilmente confinabile in una tendenza precisa. Appare in ogni tavo ­la rotonda organizzata dalla Partisan Review, ma anche in ogni discussione sulla cultura in generale patrocinata da Mademoiselle, o altrove quando c’è da parlare di cinema, dell’ultimo mo ­vimento estetico francese, di antropo ­logia. Questa stessa versatilità, anzi ­ché annacquare il peso delle sue opi ­nioni, la rende continuamente arbitra del nuovo gusto in ogni campo ». E ciò che vien fatto di notare soprattut ­to è l’uso enfatico della parola nuovo, il che ricapitola ogni altra meno re ­cente accusa di modernismo che le viene rivolta.

« Modernismo? », reagisce pronta ­mente. « Ma è stupido. Uno vive nel proprio tempo, ed è logico che sia in ­teressato alle cose del proprio tempo. Che sono molte, e di diversi tipi. E’ vero che io tendo a proporre o ripro ­porre cause dimenticate o trascurate, ma è perché so di non essere la sola che scrive di problemi del nostro tem ­po. Eppoi, ciò di cui scrivo appare in ­solito in America, ma in Europa è co ­nosciuto anche troppo bene. Se vives ­si in Europa non scriverei tutto ciò che scrivo vivendo qui ». Dichiarazio ­ne che precede la logica e alquanto banale domanda: « Ha mai pensato di stabilirsi definitivamente in Eu ­ropa? ». Ma è una banalità fittizia, perché nasconde un tranello per l’in ­tervistatore. Eccola infatti rispondere casualmente: «Certo. Intanto passo circa quattro mesi all’anno, in E li ro ­lla, a Parigi specialmente ». Ma subito dopo, una cosa tira l’altra, l’estero le suggerisce ovviamente l’America, e la vedo distendersi e irrigidirsi allo stes ­so tempo, se mai questo è riuscito a qualcuno, perché quasi esplode: « Cer ­to che ci ho pensato, e molto se ­riamente, perché sono stufa di vivere in un Paese come questo che ne com ­bina di cotte e di crude dovunque ci sia una nazione indifesa ». Ma non pensa di poter combinare di più rima ­nendo qui? « No, non penso di poter combinare nulla. Parlo, scrivo, firmo: a che serve? Dicano pure che sono una falsa rivoluzionaria, una controri ­voluzionaria anzi. Non m’importa. Eppoi io non predico la rivoluzione. Sono contro la guerra nel Vietnam ».

E’ la prima volta che, nelle parole e in un gesto, la sorprendo veramente giovane, con tutta la foga dei suoi anni: segno che il tasto non la imba ­razza, e ha ragione, non fa parte dell’immagine pubblica di sé che odia. La sento andare avanti lanciata, la con ­traddico e a volte è solo per spronar ­la. « No, abbiamo torto, torto marcio », continua. « Né più né meno dei russi a Budapest. Non dovevano usare i carri armati loro, e non dovremmo es ­sere nel Vietnam noi. Senza di noi, la gente là starebbe meglio, ne morireb ­bero di meno. Eppoi, perché gli Stati Uniti dovrebbero andare in giro per il mondo a impedire alla gente di diven ­tare comunista? Il comunismo, a me personalmente, può non piacere, ma che c’entrano gli Stati Uniti? No, non abbiamo un’ombra di giustificazione ». E mentre allunga le lunghe gambe su uno sgabello di cuoio, le mani ribadi ­scono i concetti che dissemina ovun ­que. La sento parlare della « stupidità della maggioranza della gente che non saprebbe trovare il Vietnam nemme ­no su una carta geografica dell’Asia », della « paranoia anti-comunista dei più ignoranti »; la sento profetizzare che « gli Stati Uniti andranno fino in fondo, fino a massacrare tutti e di ­struggere quel Paese »; la sento ripete ­re una litania d’impotenza nonostante tanta attività pubblica. E mi domando cosa sta succedendo a questa genera ­zione di americani, e perché.

Delle nuove generazioni parliamo subito dopo, ma è ancora il Vietnam che la incita. « Ho molta simpatia per i giovani e le loro rivolte, ma è diffi ­cile dire ciò che gli succederà. Se non si arriverà a una vera repressione di tipo fascista, magari due milioni di ra ­gazzi si rifiuteranno di andare sotto le armi. E con questo? Nulla cambierà. Poi ci sono i negri. Vietnam, reazione delle minoranze e situazione negra: è tutto legato, e su piani diversi. Tra l’altro i negri si stanno facendo furbi, succede sempre: quando le cose vanno malissimo, non c’è speranza e non c’è rivoluzione. Quando cominciano ad andare un po’ meglio, ci si accorge delle ingiustizie. E’ interessante nota ­re che le cosiddette rivolte negre sono cominciate quando il governo ha vara ­to certe leggi a loro favore. E infine ciò che sta succedendo, secondo me, è che certe minoranze cominciano a perdere l’illusione ingenua che l’Ame ­rica sia una nazione diversa dalle al ­tre, una nazione virtuosa, dove qual ­cosa di storto può accadere, sì, ma sempre per una buona ragione, come una persona dal cuore buono che fa degli sbagli. Parlo dell’illusione che l’America non possa mai essere crude ­le, egoista, ingiusta… C’è parecchia gente che a tutto questo non ci crede più, si tratta probabilmente della pri ­ma generazione di americani delusi. Certo si tratta solo del primo passo, dato che è sempre legato alle illusioni, per cui dovremo andare oltre, ma l’i ­dea generale di essere deluso dal pro ­prio Paese è senz’altro tipicamente americana, non ci sono dubhi ».

Interessante sarebbe sapere a que ­sto punto se la stessa prima genera ­zione di americani delusi è delusa an ­che da miti di carattere artistico. « Fino alla seconda guerra mondiale », dice Susan Sontag, « gli americani sentivano la superiorità culturale del ­l’Europa. Era raro parlare di arte americana. Ma negli ultimi venti anni le cose sono cambiate, abbiamo ora una specie di arroganza provinciale secondo cui l’Europa dovrebbe venire qui a studiarci. I pittori, per esempio, la pensano così. Tra gli scrittori, inve ­ce, i più non si interessano alla lette ­ratura europea. D’altra parte, cosa sta succedendo in Europa? Ho notato che Paolo Milano mi definisce un’america ­na europeizzata, e poi parla di “simbiosi delle culture dei due continenti”. Ma con questo siamo daccapo a fare una specie di stereotipo. Secondo me, viviamo in un mondo solo. Nessuno è americano americano o americano eu ­ropeo. Sono falsi problemi ».

Le parlo a questo punto, dato che ha toccato l’Italia, dell’inchiesta fatta dal mio giornale sulle opinioni di al ­cuni scrittori circa il « capolavoro let ­terario ». Cosa ne pensa? Prima alza le sopracciglia, poi risponde: « Una pa ­rola come capolavoro non significa nulla. Ci sono molti buoni libri, e io penso che questo secolo è un grande periodo per le arti, un periodo molto eccitante. Se poi dovessi proprio chia ­rire con un esempio il concetto più vi ­cino al capolavoro come intendo io, di ­rei Joyce e direi Ulysses, e per l’Italia direi Svevo e direi La Coscienza di Zeno, come direi Gadda e i suoi libri, che finalmente ho letto in inglese, per il               presente ».

Ma con tali esempi, che ne è dell’ac ­cusa continua che le fanno, di essersi schierata completamente dalla parte della « forma » contro il « contenuto », sia pure un contenuto inteso all’euro ­pea? « Questa faccenda », risponde con prontezza, « è diventata una caricatu ­ra, perciò penso di avere sbagliato nel modo con cui l’ho presentata. In realtà, io non me la prendevo con nes ­sun libro, con nessuna forma d’arte, purché fosse arte. Non sono contraria a Dante perché nella Divina Comme ­dia trovo idee di teologia cattolica. Non sono contraria a Dreiser perché nella Tragedia americana descrive quanto terribile sia la pena capitale. Io sono contraria a quel tipo di critica che analizza libri solo in quei termini, escludendo perciò opere che non pos ­sono essere classificate con altrettanta semplicità. Prendiamo un film come Bonnie and Clyde, per esempio. Re ­censendolo da quel punto di vista, si parlerebbe della Depressione, della ri ­bellione dei giovani ora e allora; come leggere un saggio. Ma in quel film non sono i temi sociali che sono inte ­ressanti, ecco perché sono contro quel tipo di analisi critica. E riprendiamo Gadda, prendiamo Landolfi: hanno forse un messaggio, un contenuto in quel senso? Non mi pare. Ho appena finito di leggere un lungo racconto di Landolfi: magnifico, è come un torren ­te della coscienza. Gli americani non lo considerano, lo so, ma perché han ­no una specie di pregiudizio fisso, quando si trovano di fronte a opere di questo genere. D’altra parte, contenu ­to sociale o no, a me Una tragedia americana piace, e molto, ma perché è un buon libro ».

Si è ormai diluita in un discorrere indifeso: gli artigli rientrati, la bocca distesa, è chiaro che se pochi momen ­ti prima ho visto nei suoi occhi mobi ­lissimi la traccia di sconforto e di de ­lusione degli stessi americani che de ­scriveva, ora il pensiero vaga dall’al ­tra parte dell’oceano, e la sua corda più sensibile, a questo punto, non può che essere il cinema, un campo nel quale ha certamente contribuito a creare per il suo Paese quella che de ­finisce l’« appropriata terminologia, il nuovo vocabolario critico che diffe ­renzi un film da un libro ». E parla di Antonioni, che ha conosciuto poche sere fa, e soprattutto di Bertolucci e Bellocchio, e poi ancora di Antonioni, e si diverte a ricordare come lo abbia sentito definire « un’idiozia o quasi » il cinema underground di New York, e con tutta la libertà dello straniero. E finalmente parla della sua recente esperienza di membro della giuria al Festival di Venezia, e la vedo farsi scura quando menziona Visconti. « Il suo nuovo film, un disastro! » esclama. « Più brutto anche delle Stelle dell’Or ­sa. E’ sorprendente, era così bravo, un regista stupendo, uno dei migliori del mondo. I suoi primi film erano straor ­dinari. Peccato che qui da noi non ab ­biano fatto a tempo a conoscerlo che attraverso le sue opere più commer ­ciali. Ma succede spesso così, e a volte succede anche l’opposto, il Living Theatre è un esempio perfetto: in Ger ­mania e in Italia ne parlano tutti, qui nessuno li conosce più ».

I suoi interessi rischierebbero di moltiplicare all’infinito la conversazione. L’arrivo improvviso del figlio quindicenne, David, ci riporta a una più immediata realtà; per la prima volta noto la processione scintillante delle luci dall’altra parte dell’Hudson; odo perfino il traffico lontano dell’au ­tostrada, se non è una delle illusioni create da questo attico nelle nuvole. Il ragazzo parla di cena: e Susan Sontag, smagato il mito nato sull’equivoco, come liberata, e io con lei, parla addi ­rittura di carciofi, di come li cucinerà. Siamo certamente su un’altra dimen ­sione, ma ciò non mi impedisce di chiudere chiedendole di darmi una più domestica e insieme più preziosa informazione sulla sua storia.

«Sto lavorando », dice, e si capisce che è la prima volta che ne parla, per così dire, in pubblico, « a un nuovo ro ­manzo, che per ora non ha titolo. Ci lavoro molto, ma in modo irregolare, cioè mi capita di lavorare venti ore di fila, poi una lunga dormita, un giorno di riposo, e daccapo un altro giorno e un’altra nottata… La mia vita è molto semplice: quando non lavoro vado al cinema, vedo amici, e mio figlio è mol ­to comprensivo, la mia irregolarità non lo infastidisce. A volte si alza alle sette e io non sono ancora andata a letto, ma non batte ciglio… Questo nuovo libro? Oh, non saprei come par ­larne, non so nemmeno parlare di The Benefactor e di Death Kit. Ci sono troppo dentro. Per me, i primi due ro ­manzi erano soprattutto modi di pen ­sare, atti di impersonificazione. Così è il terzo. E’ come diventare un’altra persona, vedere le cose con altri oc ­chi, sentire in un altro modo. Sicché a questo punto, oggi, ora, sono come di ­versa. I progetti, i molti progetti che ho, un film per esempio, e una com ­media, possono aspettare. Questo libro lo avevo in testa dopo The Benefac ­tor, ma non voleva venir fuori, cosic ­ché lo abbandonai per Death Kit. Ora mi ci riprovo. E’ eccitante ».

Quando scendo da quel fantastico se ­dicesimo piano mi sembra, non so per ­ché, di lasciare madre e figlio in un grande silenzio, in un grande spazio vuoto riempito in parti minuscole e informali da libri e dischi, ma come se lasciassero sempre i loro pensieri a in ­seguirsi in una girandola d’invenzioni, in un labirinto bianco e provvisorio. Una magìa? A sei o sette piani, an ­dando giù, l’ascensore si ferma ed en ­trano panciute donne negre in veletta che parlano di chiesa e di funzioni serali. Quelle non sono una magìa.

 


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Bart