LETTERATURA: I MAESTRI: Talvolta in Orazio22 Ottobre 2011 di Carlo Laurenzi Da studente universitario correvo un poco la cavallina (questa straordinaria espres sione si usava ancora), ma i miei due più grandi amici, di alcuni anni maggiori di me, erano fanciulleschi e austeri, sognavano la gloria: prefigu ravano i loro romanzi im mortali. Avevo una dedizione per lo ro, addirittura umiltà. Stava mo molto insieme. Il tempo ci ha divisi e ciascuno di noi, ora, abita in luoghi diversi. T e Z sono effettivamente ro manzieri, con fama diseguale ma con meriti ed esiti di ot timo livello. Io li apprezzo ambedue. La critica avanguardistica, senza meravigliarci, li abbina nella condanna.
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Avevamo estri in comune, gusti simili. Le stesse ideolo gie politiche: l’odio per ciò che restava del fascismo, per lo stalinismo; l’auspicio che trionfasse una democrazia con creta. L’amore dello sport, del la geografia, del cinema, del nozionismo storico. Ci piace va, soprattutto, fantasticare in sieme. Il sesso come schiavitù non ci incatenava. Le discre panze fra noi erano (tacita mente) letterarie: tacitamente, perché mi sforzavo di igno rarle in nome dell’amicizia o, debbo ripeterlo, della sogge zione. Conoscevo e temevo la loro intolleranza. Fiutavano dovun que la « letteratura », contrap posta all’Arte; il loro disprez zo per ciò che chiamavano let teratura era supremo. Detesta vano ogni forma di «lirismo ». Credevano fermamente che l’Arte consistesse nella Prosa: questa prosa doveva essere di sadorna e come suol dirsi tut ta cose; però non importava no le « cose », contava l’alone intorno ad esse talché dalla presenza semplice delle cose si liberasse fluendo la « rive lazione della vita », corpuscoli o attimi di vita. Quell’estetica implicava una sorta di religio sità o trascendentalismo, al quale aderivo. Più difficile sa rebbe stato aderire alle loro scelte, o peggio ai loro ana temi. Di autori contemporanei parlavano poco, per lo più con un disprezzo superato sol tanto da quello che riserbava no agli autori antichi. Il gran secolo era l’Ottocento, specie russo e americano. Tolstoi leg germente inferiore a Dostoevskji, Melville impareggiabile. I Promessi Sposi benissimo; male la Pentecoste. Fra i mo derni, Proust era un mistifi catore melenso, e questo, io che veneravo Proust, mi av viliva. Joyce aveva fornito al mondo un capolavoro assolu to, i Dubliners. e poi opere demenziali, come Ulysses. Di Pasternak, che in seguito avrebbero ammirato, non si co noscevano se non versi: vale va dunque la pena occuparsi di lui? Credo proprio che T. e Z., adesso, sorridano del loro (del nostro) provincia lismo di gioventù. La loro avversione ai «clas sici » pareva viscerale: un clas sico, sentenziavano, realizza tutto se stesso (soffoca tutta la potenza della vita) in un ben ordinato schema libresco. Nessuna pietà per Dante, Boc caccio, Goethe, Machiavelli, Ariosto, Petrarca, Montaigne, Racine, Pascal. Peggiori, per ché modelli di tanta nequizia, i greci e i loro caudatari ro mani. Pessimo, in quanto « perfetto » â— il più stupida mente perfetto di ogni epoca â— Orazio. Io tacevo, ma non forse con l’ermetismo dovuto. Inoltre mi ero nel frattempo laureato in lettere (non in legge o in agraria), la qual cosa deponeva contro di me. Fui sospettato di leggere se gretamente Orazio con volut tà professorale. Ammisi. Ag giunsi, con empito di ribel lione, di leggere e rileggere i Carmina in un’edizione di Lipsia, senza note, datata 1904. La freddezza, in luogo dell’amore, imperò.
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Ma queste sono bagatelle; non ho dubbi che T. e Z„ giunti ai cinquant’anni, autori di buoni libri invisi agli avan guardisti, abbiano imparato a rispettare i classici, e anche Orazio, il quale fruisce tuttavia di un favore non soltanto professorale: un’edizione « ri fatta » delle sue opere, quella dell’Utet a cura di Tito Colamarino e Domenico Bo, tra duzione italiana con testo a fronte, ci si offre come « rico struzione del processo creati vo di un poeta finissimo, espo nente prestigioso dei modi cul turali à la page nell’età di Augusto e di Mecenate ». Io continuo a leggere Ora zio in solitudine nel vecchio libro di Lipsia (l’« editio ste reotipa minor » del Mueller), indifferente al prestigio dei modi culturali nell’età di Au gusto. Può darsi che vent’anni or sono mi affascinassero la « perfezione » di Orazio, la sua natura manierata, i boschi del Vulture, la sua pazienza di scriba, l’Orazio simposiaco, quella tenerezza lucente. Ora è diverso. Altri poeti latini mi feriscono di più: Lucrezio, Ca tullo, Virgilio, forse Ovidio. Però mi sono meno familiari; non mi è concesso leggerli con la facilità con la quale leggo i Carmina, dopo il lungo stu dio. In Orazio, come in un poeta che si esprima nella mia lingua, mi è dato confrontar mi, specchiarmi: piegarmi al l’invenzione di un mondo. (Dovrei dire: all’invenzione del mondo). E’ sempre necessario imme desimarsi in un poeta, se vo gliamo goderne, o soffrirne, riceverne luce. Certo: molti riferimenti in Orazio si sono fatti oscuri, l’apparato delle sue mitologie non m’interessa, i suoi amici a cominciare da Mecenate non mi interessano,la Romadi Augusto mi è estranea non meno di quella, per esempio, di Pio VII o di Cola di Rienzo. Ma è Roma, ha questo suono di Roma: io, come Orazio, vivo in questa città provenendo da un luogo agreste e rimpianto. Non amo Roma, eppure Roma (per me, per Orazio) è l’unica città concepibile. Ci vivo; essa, la città, si identifica col mondo, con l’intera pressione del mon do, e contrasta me, lui, la no stra desolazione individua. La sua Roma era quella di Au gusto, capitale della terra, e Orazio le dedicava inni. Ha davvero peso che la mia Ro ma siala Romadi De Mar tino e di Rumor, cantati da nessun poeta? La nostra im potenza è uguale, schiacciati come siamo dalla realtà, dagli editti di altri uomini, e dagli anni fugaci. In un poeta vissuto venti secoli fa tra simulacri i cui nomi non sono mutati, in un timido e savio poeta io cerco liberazione. Non può liberar mi dalla filosofia; tutta la filo sofia pensabile era già stata pensata al tempo di Orazio dal momento che uno dei suoi maestri aveva ammonito: «Bi sogna ricordarsi che il futuro né è nostro né interamente non nostro » e lui, Orazio, volgeva l’ammonizione in immagine: « Un dio provvido circonda di buio il volto dell’avveni re ». Un « dio »; quale? (Ora zio celebrava di solito i numi di Roma e le ninfe: era ele ganza di retore, o nostalgia delle fole?). Il suo vero dio, il « dio provvido » era il nulla, cioè il riflesso e la presa di co scienza del disperato coraggio umano. Qui è il baratro. Io debbo scrivere: « disperato co raggio umano », mentre Ora zio poteva serenamente, ma linconicamente ignorare l’a sprezza dell’aggettivo, e scri vere « un dio provvido » per significare con semplicità: « il mio coraggio di uomo ». Venti secoli di cristianesimo sono il fossato. Orazio si muoveva tra il Foro, il Campidoglio, la Su burra, il Palatino, i nostri medesimi simulacri; ma morì otto anni prima che qualcuno in Galilea nascesse per inse gnarci che non possiamo mo rire. Lui, Orazio, non aveva illusioni…: Omnes una manet nox – et calcanda semel via leti. « La morte è l’ultima linea delle cose ». Fossi almeno certo di quel perpetuus sopor, che Orazio tollerò con fortezza. Talvolta cerco in Ora zio la liberazione più difficile, come una pace. Letto 1875 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||