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LETTERATURA: I MAESTRI: Tammaro De Marinis. La religione del libro

5 Febbraio 2012

di Vittore Branca
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 23 marzo 1970]

Ci fu qualcuno in Italia che, fra le due guerre, poteva ospi ­tare nella sua villa fiesolana Croce e Gentile, Maria José e Mussolini. Non era fiorentino, ma napoletano puro sangue. Non si occupava né di filoso ­fia né di politica, ma di libri: con una passionale passione che era ragione di vita, anzi di una vitalità senza posa fino al traguardo del novantaduesimo anno su cui cadde sei mesi or sono.

Non c’è quasi bisogno di dire che questo qualcuno si chia ­mava Tammaro De Marinis, e che quella sua vitalità era ani ­mata da un entusiasmo e da un ottimismo a tutta prova. « La mia fortuna è stata ad ­dirittura incredibile » amava ripetere dalla sua reggia di Montalto, sovrano riconosciuto e venerato dell’impero del li ­bro. E ripensava sorridendo alla sua difficile adolescenza a Napoli, con l’interruzione dei corsi scolastici, con le ore di studio disordinato in una casa amica di via dell’Anticaglia, ove Tasso aveva abitato fan ­ciullo; ripensava al tirocinio nelle modeste librerie parteno ­pee del Pierro e del Marghieri e alla prima familiarità con Bartolomeo Capasso, il più na ­poletano degli storici napole ­tani. « Uocchie felice » lo battezzò proprio allora Capasso. Tammaro aveva ficcato un giorno, per caso, le mani nel carico di un cenciaiolo in via San Sebastiano e ne aveva tratto fuori una lettera di Pie ­tro Giannone; Capasso, bloc ­cato e poi setacciato quel muc ­chio di cartacce, non riuscì a trovare nient’altro d’utile. « Uocchie felice » ribadiva Cro ­ce trent’anni dopo quando nar ­rava â— lo ricorda la figlia Elena â— come andando a visi ­tare insieme un fondo di libri, De Marinis fosse filato dritto dritto sugli unici tre libri che in tutta la stanza avevano un valore: e lui, bibliòfilo di naso finissimo, si confessava con ammirazione battuto.

Ma non era solo ‘ fortuna ‘ quella di De Marinis, come an ­davano ripetendo certi fioren ­tini che lo ricordavano, al prin ­cipio del secolo, commesso (« colle pezze sul fondo dei cal ­zoni » dicevano) nella celebre libreria dell’Olschki al Lungar ­no Acciaioli. Era invece il pre ­mio che sempre tocca a chi ama appassionatamente e ri ­cerca tenacemente: il dono che, insieme all’opulenza, il dio-libro non poteva negare al suo più devoto sacerdote, al suo più entusiasta e convincente panegirista. Non esisteva qua ­si in Italia, e neppure nei pae ­si anglosassoni (ma sì in Fran ­cia), la tradizione dei bibliofili-collezionisti: egli la creò e la alimentò infaticabilmente per settant’anni. L’arte e la storia della legatura erano il ­lustri sconosciute: persino un raffinato bibliofilo come il Prin ­cipe d’Essling sostituiva le an ­tiche legature â— preziosissime d’arte e di memorie â— con le moderne, sia pure prestigiose, del Lortic, del Cuzin e dello Chambolle. De Marinis inven ­tò, impose al mondo il valore e il senso di quelle testimo ­nianze, uniche, di cultura e di gusto.

Ma che strilli acuti, ma che diluvio di « Gesù, Gesù » lan ­cerebbe Tammaro alle stelle se sentisse parlare di « testimo ­nianze », invece che di « ca ­polavori », per quelle adorate divinità che erano per lui i li ­bri e le loro legature! Divinità che egli umilmente serviva con culto assiduo, con un atteggia ­mento ieratico da gran sacer ­dote. Un brivido arcano percorreva il profano che era ammesso nel tempio delle sue raccolte: le librerie converge ­vano solennemente nel grande mobile ad altare col misterioso tabernacolo. « Tammaro mi ac ­colse vestito da mandarino, in una serica cappa lillà, babbuc ­ce, papalina, lungua catena d’oro. Mi introdusse nel sancta sanctorum. Si accostò alla grande scansia degli incunabo ­li; sostò, tolse di tasca un paio di guanti color limone, scamo ­sciati; li infilò. Dopo qualche istante di raccoglimento, sfilò delicatamente un unicum. Con ambe le mani, come pargolo dormiente, lo depose su un prezioso frammento di dalma ­tica, che posava su un prezio ­so tavolo. Lo rimirò. Quindi, sospirando, tolse da un astuc ­cio un singolare strumento… una forbice in argento, cardi ­nalizia per venustà, dalle pun ­te ottuse. Volse il piatto della legatura in marocchino, con unghiatura à dentelles. Quin ­di, quasi stringesse non carta, ma ali di farfalla, con la sua forbice cominciò a far scor ­rere le pagine ».

Così un giorno Giorgio Zam ­pa, in una lettera a un inten ­ditore come Piero Nardi, fer ­mò la legenda preziosa di quel rito che affascinava ognuno di noi quando eravamo introdotti nel sacrario. Ogni religione ha bisogno di una sua liturgia. De Marinis per le sue divinità l’aveva creata raffinata e fasto ­sa: e amava celebrarla a Mon ­talto, in particolari solennità (fino a quella del suo novante ­simo) con gran pompa di ini ­ziati, tra fulgori di porpore car ­dinalizie, di eterni femminini regali, di potentati finanziari, di celebrità artistiche e acca ­demiche del mondo intero.

Ma la sua devozione non si esauriva in questi riti che, tra il sorriso e la commozione, ci prendevano tutti. Vigoreggiava instancabile nell’organizzazione di mostre memorabili (monu ­mento trionfale quella del li ­bro italiano a Parigi nel ‘26), nelle indagini assidue per le biblioteche e per gli archivi più remoti e irraggiungibili della Europa intera, nella scoperta di tesori della antichità e del Medioevo e della Rinascenza (gloria nazionale si acquistò coll’opera svolta per il recu ­pero della famosissima Bibbia di Borso d’Este). E in questo suo ricercare instancabile, col dono di una rabdomantica ca ­pacità di sentire il pezzo pre ­zioso nel più obliato recesso, De Marinis perseguì per settant’anni il sogno della sua ado ­lescenza: quello di ricostruirela Bibliotecadegli Aragonesi di Napoli, uno dei fuochi più splendidi del nostro Rinasci ­mento, avviata da Alfonso il Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli (1443) da antico trionfatore ro ­mano. Sino alla fatale inva ­sione di Carlo VIII (1494) quel ­la raccolta regale si arricchì di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e dei miniatori più illustri del tempo, che lavora ­vano espressamente per gli Ara ­gonesi. Divenne presto un cen ­tro vivo e originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più eletti del tempo, dal Brac ­ciolini, dal Biondo, dal Filelfo al Pantano, al Sannazzaro, al Poliziano.

Smembrata e dispersa dopo lo sfacelo della monarchia ara ­gonese, De Marinis â— rintrac ­ciando per il mondo intero mi ­gliaia di documenti, quasi sei ­cento codici, innumerevoli te ­stimonianze letterarie e icono ­grafiche â— la ricompone ideal ­mente nella monumentale ope ­ra in sei grandi volumi, La Biblioteca Napoletana dei Re d’Aragona, illustrata da un mi ­gliaio di magnifiche tavole e riproduzioni e fac-simili, stam ­pata fra il 1947 e il 1970 da quel principe rinascimentale dei Tipografi che è Giovanni Mardersteig (dal mese scorso è diffusa dall’Ed. Olschki). La più regale biblioteca del no ­stro Rinascimento non poteva avere per illustratore che un vero re del libro, come De Marinis.

L’ultimo rito a Montalto fu celebrato proprio un anno fa, il 23 marzo. Nel suo novantunesimo genetliaco Tammaro si vide deposta sulle ginocchia una copia, stampata espressamente in anticipo, del quinto e sesto volume della sua Bi ­blioteca: cioè dei supplementi cui aveva lavorato tenacemente negli ultimi dieci anni, anche dopo che un infarto doppio lo aveva tenuto nel ‘66 per mesi e mesi tra la vita e la morte. Si commosse, non lancio i con ­sueti strilli di gioia acuti come alalà di vittoria, gli tremò un poco la voce. C’era l’atmosfera di un patetico « nunc dimittis ». Tammaro allargò allora le ma ­ni verso gli amici illustri che lo circondavano: li invitava semplicemente a scendere alla raffinatissima colazione che egli, da monarca qual’era, avrebbe amabilmente presieduto nei sa ­loni splendidi di memorie dei re d’Aragona.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart