LETTERATURA: I MAESTRI: Teppista24 Marzo 2018 di Alberto Moravia In origine la casa era stata un appartamento ai Parioli, elegante, non tanto grande, due camere, un soggiorno e i cosiddetti servizi. Un appar tamento per una famiglia, al massimo, di tre persone. I miei genitori dormivano in una stanza, io nell’altra. La domestica aveva un suo bu gigattolo. Il soggiorno, infine, come avviene nelle famiglie borghesi, era più che altro simbolico perché non serviva a niente, neppure a consu marvi i pasti, in quanto man giavamo in cucina. Poi è morta la nonna e ab biamo preso in casa il nonno, anche lui, come mio padre, funzionario statale, ma in pen sione. L’abbiamo preso perché era infermo e la pensione non bastava per pagare un infer miere. Mia madre ha licen ziato la domestica e ha preso una donna a ore. Io sono stata trasferita nel bugigat tolo. Il nonno si è presa la mia stanza. Poi, in un incidente stra dale, è morto il marito di una mia zia materna, professore delle scuole medie. Rimasta sola con una figlia della mia età, con pochi soldi, mia zia si è messa d’accordo coi miei genitori per venire ad abitare da noi. Nuovo cambiamento. Il nonno è stato trasferito nel bugigattolo. Mia zia e sua fi glia si sono prese la stanza già mia e poi del nonno. Io sono finita su un sofà, nel sog giorno. Ma ecco che piovono dalla Libia dove avevano dimorato molti anni, un fratello di mio padre e sua moglie, ambedue farmacisti. In attesa di ria prire la farmacia, ci siamo adattati ad ospitare anche loro esuli e privi di mezzi. Nuovo terremoto. Mio padre e suo fratello hanno dormito nella stessa stanza, mia madre, la moglie dello zio ed io ci siamo accomodate alla meglio nel soggiorno. Così adesso, in quell’appar tamento per tre eravamo in otto. La notte l’appartamento diventava un dormitorio; di giorno c’era l’inconveniente dell’attesa per il bagno; in cucina, alle ore dei pasti, non ci si rigirava. I miei congiunti hanno scelto per risolvere i problemi della coabitazione, il partito dell’ignoranza. Fin gevano con se stessi e gli al tri, che tutto fosse normale, della « loro » normalità per bene e piccolo-borghese. Gen tili, corretti, urbani, dignitosi, con un rincrudimento di frasi fatte e di luoghi comuni ras sicuranti e automatici nella conversazione. Ogni tanto qualche sospiro, ma appena. Per me, invece, la vita in ca sa è diventata fastidiosa fino alla follia. * Questa intolleranza non si spiega soltanto con il disagio. In realtà, sono una persona molto difficile. Già nel fisico, il mio cattivo carattere è vi sibile. Bruttina, ho un viso di ragazzo anzi di teppista, con gli occhi verdi e piccoli che ammiccano per il fumo della sigaretta che stringo in per petuità tra le grosse labbra; il naso con le narici increspate come per un eterno disgusto; e i capelli neri che crescen domi neri e lustri fin tra le sopracciglia mi fanno una fronte bassa e cocciuta. Sono schiva, chiusa, diffidente e silenziosa. Ma sono anche stupidamente e follemente esplo siva. Paziente, aspetto, tiro in lungo, accumulo sornionamente il mio furore. Quindi, su una minima occasione, divampo. Poi mi pento e mi dico che avrei fatto meglio a non pazientare e a non esplodere; ma ormai è trop po tardi. Così è accaduto in casa mia. I miei genitori già mi piacevano poco a causa del loro borghesume pervicace e fallimentare; ma infine erano i miei genitori: ce li ave vo e dovevo tenermeli. Ma adesso mi toccava sopportare altre cinque persone della stessa insoffribile razza conformista e ben pensante. Stra no a dirsi, i loro pregiudizi non mi davano fastidio finché li esprimevano in parole, per ché riuscivo a distrarmi e a non udire. Ma non riuscivo, purtroppo, a non vedere e a non guardare. Mi fissavo sui gesti, sugli sguardi, sui sor risi, sui modi, sui vestiti, sul le abitudini. Mi incantavo, ribollente di odio silenzioso, a guardare una cravatta, un cucchiaio portato alla bocca in un certo modo, una petti natura di un certo genere. L’incidente minimo che ha fatto scoppiare il mio furore è avvenuto una mattina che, al solito, aspettavo che il ba gno si liberasse. Ci stava den tro Liliana, la mia cugina, un’idiota che passava la gior nata a dipingersi le unghie, a provarsi i vestiti, ad appic cicarsi le ciglia finte sugli occhi. La porta era aperta e lei si eternizzava davanti al lo specchio, infischiandosi di me. E‘ corsa qualche parola e poi sono esplosa. Le sono saltata addosso, l’ho afferrata per i capelli, abbiamo lottato e poi sono riuscita a piegarle la testa dentro la tazza del cesso e a premere la leva dello sciacquone. Urlava an cora quando, dopo aver pi giato poca roba dentro una valigetta, sono scappata di casa, risoluta a non tornarci più. Sapevo dove andavo. Ci pensavo da un pezzo e forse anche per questo ero esplosa. Da Carmen, una mia amica ricca che da qualche tempo aveva organizzato in un gran de appartamento, in un quar tiere antico di Roma, una spe cie di comunità che accoglie va persone come me, fuggite dalla famiglia e insofferenti della vita borghese. L’appar tamento era a via Monserrato, in cima ad una casaccia vecchia; Carmen l’aveva avu ta in eredità e prima di Car men c’era stata l’amministra zione di un principe romano. Atrio buio, scale puzzolenti, pianerottoli grommosi. Den tro, una sfilata di stanze, stanzini e stanzoni. Coi tra vicelli ai soffitti, le pareti a pezzature più chiare là dove per mezzo secolo erano stati appoggiati i mobili, i pavi menti dalle mattonelle che bal lavano sotto i piedi. Niente cucina, niente bagno o doccia, soltanto un gabinetto. Carmen che aveva il complesso della ricchezza e voleva vivere da povera, l’aveva appena ripuli to l’appartamento togliendo il più grosso del sudiciume; e all’infuori di una certa quan tità di brande e di seggiole di paglia e di qualche stufa, non l’aveva neppure ammobi liato. Anche lei era scappata di casa benché non ci avesse la coabitazione come me, ed era decisa, come mi ripeteva spes so, a non ricascarci più nel le comodità del consumismo. Strano tipo Carmen, adesso che ci ripenso! A me, la ri volta si leggeva in faccia. Invece lei, dolce, serena, in dolente, paffuta e rotonda, nessuno l’avrebbe creduta una ribelle. Eppure, eccola lì, ac covacciata su un sofà cencio so, cenciosa lei stessa, in fon do ad uno stanzone squalli do, assorta ad ascoltare tutto il giorno i suoi dischi pre feriti. * Così ho cominciato a vive re nella comunità di Carmen. Chi c’era? C’erano coppie straniere, del nord, magari coi bambini, in cerca di so le a buon mercato. C’erano ragazze e ragazzi nostrani, fuggiti dalla provincia. C’era no due o tre negri che non se la sentivano di vivere ne gli Stati Uniti. C’erano alcuni rivoluzionari sudamericani, greci e spagnoli. Tutta que sta gente dormiva sulle bran de, mangiava alle tavole cal de oppure nelle trattorie per fagottari, si riuniva ora in uno di quegli stanzoni e ora in un altro per ascoltare la musica o discutere o anche fumarsela in silenzio. Io dor mivo nella stessa stanza di Carmen e di tre ragazzi che, però, non erano mai gli stes si: ogni quindici, venti giorni cambiavano. Intorno a Car men, molto popolare e molto amata, c’era sempre una quan tità di gente. Io invece, in grugnata e diffidente, non da vo confidenza e non la cer cavo. Per lo più stavo sulla branda a leggere e a fumare. Oppure sedevo ad un piccolo tavolino cercando di scribac chiare una tesi di lettere che mi era stata ordinata da uno studente pigro. In realtà la vita della co munità non mi piaceva affatto. Non provavo alcuna simpatia per i miei compagni di bran da; anzi, certi loro caratteri cominciavano ad irritarmi for te. Per esempio: il sudiciume. Non sono una schifiltosa; ma bisogna dire che molti di loro si portavano appresso un odo re molto ma molto forte, tanto che provavo spesso il bisogno di spalancare la finestra e dare aria alla nostra stanza. Per esempio: l’intimità. Era de ciso, assolutamente, che dove vamo tutti quanti essere inti mi, amici per la pelle, pappa e ciccia. Ma tutto questo veniva sbrigato fin dall’inizio alla svelta, con due o tre formalità: ti do del tu; tutto ciò che è tuo è mio e viceversa; vieni qui, lascia che ti abbracci e ti baci. Però, poi, l’intimità non faceva un solo passo avan ti e io mi sentivo sola come prima anzi peggio di prima e loro mi restavano estranei anche se pretendevano di non esserlo più. Per esempio, in fine, la promiscuità. Di que st’ultimo inconveniente della convivenza nella comunità, avevo un risultato sotto gli occhi: Carmen era incinta di sei mesi ma non si sapeva da chi, forse non lo sapeva nep pure lei. E’ stato questo fatto della promiscuità che alla fine mi ha fatto esplodere una volta di più. Una di quelle notti mi sve glio con la sensazione che qualcuno si sta infilando sotto le coperte, al mio fianco. Do uno spintone; qualche cosa ca sca sul pavimento; accendo la luce; è un ragazzo, un nuovo venuto, di Latina, quasi un contadino, al quale, la sera prima, ho avuto il torto di offrire una sigaretta. Infuria ta, prendo a inveire contro di lui ad alta voce; quindi non ci vedo più, gli salto addosso che sta ancora in terra e mi guarda stupefatto, e lo prendo a pugni e a calci. Adesso tutti sono svegli e gridano; il ra gazzo, spaventato dalla mia furia, cerca di scappare; Car men scende dal letto, mi pren de per il braccio cercando di fermarmi, e intanto mi fa una specie di predica, per così di re, alla rovescia: perché me la prendo tanto? E anche se avessi fatto l’amore non sa rebbe stato questo gran male; chi credevo di essere ecc. ecc. A queste sue esortazioni bo naccione, non so cosa mi ha preso. Mi sono voltata contro di lei, l’ho sbattuta sulla sua branda, mi sono messa a ca valcioni sulla sua pancia, col rischio di farle male, e l’ho presa a schiaffi. Sono stati gli altri che me l’hanno sottrat ta; lei era tanto stupita che neppure reagiva. Ho approfit tato della confusione per met tere la mia poca roba nella valigia e scappare. Eccomi in strada. Ho cam minato fino al Tevere, ho po sato la valigia in terra e ho acceso una sigaretta e ho guar dato a lungo, nel buio della notte alla corrente che si rive lava laggiù, in fondo, coi mo bili riflessi dei fanali. Non pensavo niente, avrei voluto piangere ma non ce la facevo. Pian piano mi sono calmata. Allora sono andata ad aspet tare il tram che porta a San Giovanni. Conoscevo da quel le parti un tizio, che per quella notte mi avrebbe ospitato. In tanto mentre aspettavo mi di cevo che erano venuti tempi duri per le persone come me, dal cuore tenero.
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