LETTERATURA: I MAESTRI: Timbuctù27 Marzo 2018 di Alberto Moravia Timbuctù, maggio. In Africa l’aeroplano è più rivelatore dell’automobile per ché l’Africa è monotona e ite rativa e dall’aereo la mono tonia e l’iterazione si vedono mentre in automobile si sof frono. La savana per esempio, che è per eccellenza monoto nia e iterazione con i suoi mi lioni di acacie su milioni di dune sabbiose si abbraccia meglio in tutta la sua assolu ta selvaggeria dal cielo che dalla strada. Adesso è la vol ta di uno di quegli sterminati acquitrini in cui le acque in terne dell’Africa si raccolgono e ristagnano. Nel caso nostro si tratta dell’acquitrino forma to, per così dire, dall’incapa cità di prender forma propria del fiume Niger nel punto più a nord della sua grande ansa. L’acquitrino del Niger lo sor voliamo per quasi un’ora sen za mai vederne la fine. E’ di un azzurro pallido, diafano, suddiviso da lingue e istmi di terra di un verde pallido, in tanti bacini minori, pozzan ghere, canali, fiumane, laghi e paludi. E’ un mondo anfibio e si vede benissimo dall’aereo che la terra e l’acqua non vi hanno confini precisi. Ogni tanto sulla punta estrema di una lingua di terra verdolina, si scorge una piccola macchia bruna: un villaggio. Così, do po un’ora di volo sul cuore acquatico dell’Africa, giungia mo a Timbuctù. Certo un grande o meglio un prestigioso nome (perché in realtà non vi è mai suc cesso niente di storico, a me no che non si voglia chiama re storiche le faide tra le due tribù Fulbé e Tuareg); ma ormai niente più di un nome. Città carovaniera, del tipo di quelle illustrate da Rostowzelf nel suo studio su Palmi ra, Timbuctù un tempo in viava e riceveva le carovane da e per la Tunisia, l’Alge ria, il Marocco, la Costa d’Avorio, la Nigeria. Oggi le merci viaggiano per mare e le carovane di Timbuctù sono ridotte ai gruppi di cammelli che trasportano le lastre rosee e marmoree del salgemma che i forzati del Mali scavano in una miniera in pieno Sahara, a mille chilometri dalla città. Timbuctù, a dirla in breve, è un borgo di non più di quindicimila abitanti. Forse con un avvenire turistico, ma mente di più. * Giriamo per Timbuctù in macchina e la visitiamo tutta in poco più di mezz’ora no nostante gli sforzi del cicero ne patriottico che vorrebbe dilatare questa mezz’ora in due o tre ore. Che c’è da ve dere a Timbuctù? Un monu mento moderno all’indipen denza; una casa con la lapide che ricorda l’esploratore fran cese Caillé che vi soggiornò nel 1828, il primo dopo il quasi leggendario Ibn-Batuta; un piccolo mercato in riva al Niger; i soliti edifici ammini strativi. E poi, infine, la mo schea. Più piccola di quelle di Djenné e di Mopti, la moschea costituisce tuttavia il titolo di nobiltà dell’addormentato bor go africano le cui straducce vuote invase dalla sabbia del vicino deserto mancano per fino di quei negozi tradizio nali che altrove stanno a indicare almeno l’antichità del- l’artigianato. La moschea te stimonia infatti che il borgo effettivamente fa parte dell’an tica e affascinante cultura su danese. Con la moschea, Tim buctù rialza il suo prestigio ai miei occhi di viaggiatore deluso dal contrasto tra il nome celebre e la modestia del luo go. Il vecchio Sudan, quello antecedente al colonialismo francese, era l’espressione re ligiosa, sociale e militare del la savana di cui del resto con gli incerti confini politici dei suoi effimeri regni e imperi ricalcava il disegno di zona o fascia climatica che va dall’Atlantico, attraverso tutta l’Africa al di sopra dell’equa tore, fino ai Mar Rosso. Ab biamo detto che la cultura su danese era ed è affascinante. Probabilmente è lo stesso fa scino che emana dalla sava na: quello della simbiosi riu scita e originale di elementi contrastanti. La savana è una simbiosi della boscaglia e del deserto; il Sudan è stato ed è tuttora una simbiosi del mondo arabo pastorizio e maomettano con il mondo negro contadino e animista. Il fa scino del Sudan storico è più facile « sentirlo » che analizzar lo. Semplificando parecchio, si può dire che esso consiste nell’adozione da parte degli africani, agricoltori pacifici e sedentari ma primitivi di una religione errante e militare co me l’Islam la quale, invece di combattere la loro primitività (come ha fatto e tuttora fa il cristianesimo) sembra inve ce aver mirato, per i suoi fini, a liberarla e scatenarla. L’Islam ha fatto passare i ne gri del Sudan da una società comunitaria e patriarcale ad un’altra, relativamente più moderna, feudale. Nello stes so tempo ha soppiantato gli oscuri terrori dell’animismo con lo slancio del fanatismo monoteistico. La moschea sudanese, di cui quella di Timbuctù è un modesto esempio, è l’illustra zione architettonica di questa metamorfosi della « negritudine » in senso maomettano. * Sudan viene dal termine arabo « Bilad al-sud an » che vuol dire «paese dei negri »; ma la moschea ci fa subito capire che si tratta di un « paese di negri » radicalmen te islamizzato. Niente infatti in quest’edificio di naturisti co, di magico, di demoniaco come nelle capanne degli stregoni delle foreste equatoriali; niente neppure, però, di mi stico, di culturale e di raffina to come nelle moschee del Ma rocco e dell’Egitto. La mo schea di Timbuctù sembra un fortilizio barbarico. E questo fortilizio non è fatto di pietra o di mattoni ma di argilla cot ta al sole, di quello che i fran cesi chiamano pisé e gli spa gnoli adobe. E’ il materiale più povero che esista; se ne servono i popoli sottosvilup pati della fascia arida del glo bo: Persia, Turchia, Messico, Sudan, Arabia. Ma è un ma teriale molto espressivo. Che cosa esprime l’adobe? La povertà, l’indigenza; ma anche una certa inadattabili tà, una certa fierezza; e, nelle costruzioni più grandi, come, per esempio, nelle moschee sudanesi, una aggressività bar barica, una bellicosità fanatica. Cioè, appunto, la primiti vità negra liberata dai terrori dell’animismo ed esaltata dal fanatismo islamico. La moschea di Timbuctù non sembra affatto un tempio ma, come abbiamo detto, un fortilizio. Ha, infatti, mura merlate e, ai quattro angoli, invece degli smilzi e poetici minareti, quattro tozze torri coniche. Ciò che conferisce all’edificio il suo carattere ag gressivo è il solo elemento de corativo che gli architetti han no aggiunto alla nudità liscia e opaca dell’argilla. La deco razione, poi, consiste in tanti spuntoni di legno nero e come carbonizzato che sporgono fuori delle mura e delle torri come gli aculei di un’istrice. Sono semplicemente le estre mità delle travi che compon gono la struttura portante del la costruzione; ma protenden dosi così nel vuoto, lunghi circa un metro, aguzzi e neri sullo sfondo color mastice del l’argilla danno alla moschea un’indicibile aria barbarica e minacciosa, per niente religio sa nel senso della devozione contemplativa. Quest’impres sione, del resto, è confermata dalla nudità cavernosa e polverosa delle stanze, delle sale, dei corridoi all’interno dell’edificio. In realtà la mo schea sudanese è tutta lì, in quelle mura merlate, in quelle torri irte di aculei. Ma biso gna ancora una volta ammi rare la potenza evocativa del l’arte anche quando sia rozza e poco articolata come in que sta moschea. Alla sola vista di quelle torri, ci sono venute subito in mente memorie di re e guerrieri negri dell’Islam coi quali gli europei si sono incontrati nel passato, in guer ra e in pace. Di questi po tentati è rimasto il ricordo persino negli elenchi burleschi del Don Chisciotte e dell’Orlando Furioso. Oggi soprav vivono nelle strutture ancora feudali della maggior parte delle società della savana. * Finita la visita di Timbuctù torniamo all’albergo e an diamo a sederci sulla terraz za. Davanti a noi c’è un an golo d’Africa sudanese minu scolo ma completo. Il Niger vi forma un ameno laghetto. Sulle sponde si inclinano alti, spennacchiati palmizi. Dietro i palmizi si alzano le dune di sabbia del deserto. Sopra le dune sta accovacciata un’inte ra mandria di cammelli. Poi in questa immobile cornice tutto, d’improvviso, si muove. I cammelli si alzano uno do po l’altro e discendono al lago per abbeverarsi. Allungano il collo verso l’acqua oppure al zano il muso ed emettono lun ghi gridi rauchi. Nello stesso momento, anche sulla terraz za qualche cosa avviene. Una troupe di tre indossatrici pa rigine e di un paio di foto grafi si danno da fare per ri trarre, sullo sfondo del lago, dei palmizi, delle dune e dei cammelli, gli ultimi modelli per l’estate. Le ragazze si at teggiano nei buffi gesti di sfida che sono d’obbligo oggi in queste esibizioni. I fotografi si affrettano a scattare le foto grafie, timorosi che i cammelli se ne vadano. Queste fotografie verranno pubblicate in Europa su riviste di moda in carta lucida e sicuramente qualcuno, veden dole, penserà: « Dove arriva l’artificio! Ricostruiscono un angolo d’Africa per lanciare i loro quattro stracci ». E invece, no. Nessun angolo d’Africa è stato ricostruito. Semplicemente, in cinque ore di volo, da Parigi, le indossa trici sono venute a Timbuctù e si sono servite di Timbuctù come di un angolo d’Africa bell’e fatto. Timbuctù, insom ma, è stato « consumato ». La parola consumo, lo sappiamo, è un luogo comune, ormai. Ma le indossatrici è proprio que sto che sono venute a cercare qui a Timbuctù: il luogo co mune.
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