LETTERATURA: I MAESTRI: Via il sole29 Marzo 2018 di Alberto Moravia Ho infilata la pelliccia, quin di sono andata nell’anticame ra, ho chiuso gli occhi e mi sono detta: « Non sono più me stessa. Sono qualcuno che capita per la prima volta in quest’appartamento. Lo guar do con occhi stranieri. Lo ve do per la prima volta. Dico a me stessa quello che va e quello che non va ». Ho riaperto gli occhi e ho subito pensato: « Via quell’orribile specchiera. Via quei due seggioloni indigesti. Via quelle melense stampe inglesi. Via quella consolle rachitica ». Che restava adesso? Soltan to un vaso di vetro con un ramo di pungitopo dalle bac che rosse e dalle foglie verdi. Questo ramo mi ha ricordato che era Natale o quasi. Mi so no affrettata a pensare: « Via anche il vaso e via il ramo ». Ho aperto la porta del sog giorno. Grande, confortevole, luminoso. Qua un gruppo di poltrone e di divani intorno la televisione; lì, la tavola alla quale ci sediamo ogni giorno per i pasti. In un angolo, un albero di Natale molto gran de, di quelli con le lampadine multicolori, le palle d’argento e i festoni d’oro, che si com prano bell’e fatti. Ho subito pensato, dopo aver lanciato uno sguardo circolare: « Sala di soggiorno rivelatrice. Ho cercato a tutti i costi di farne una cosa personale, sono riuscita soltanto ad essere assolutamente convenzionale ed anonima. Come la gente che vi ricevo e i riti sociali che vi celebro. Dunque: via, via via ». * Mi sono accorta che stavo già meglio. Eppure quel soggiorno con quanto amore l’a vevo arredato. Ho ricordato le corse affannose per gli anti quari; le lunghe contemplazioni dei mobili dopo la loro collocazione. Qualche volta, per sino, mi sono alzata di notte per andare in camicia e a piedi nudi, a riguardare gli ultimi acquisti, ammirarli, convincer mi che erano davvero miei. Basta. Dal soggiorno sono passata nel corridoio (via le seggioline viennesi, via i lumi « liberty »); mi sono affaccia ta alla camera da letto. Ingi nocchiatoio provenzale. Icone russe. Letto di ferro spagnolo. Cassettone a bugnati toscano Mi sono domandata: « Perché un inginocchiatoio, perché delle icone se non si prega? ». E poi, subito dopo: « Perché un letto matrimoniale se non si ama? ». Ho avuto un momen to di esitazione, uno solo, quindi ho deciso; « Via tutta questa stanza, via, via ». Ecco fatto. Cancellati con quella paroletta « via » dieci anni di insipido matrimonio, quando ho aperto la porta dello studio di mio marito, ho capito che il più, ormai, era fatto. Ho considerato un istan te lo studio, vero studio di an cor giovane e già autorevole professionista, con le sue librerie gremite di libri dal pa vimento su su fino al soffitto; quindi sono passata ad esami nare lui che se ne stava, al solito, seduto alla scrivania, dietro una barriera di libri. Fronte bianca, un po’ calva, occhi tondi; naso all’insù, esi guo; bocca piccola; lieve deli cata pinguedine. Un uomo come tanti, non migliore ma neppure peggiore degli altri. Che cosa avevo da rimprove rargli? Forse, in quei dieci an ni di matrimonio, avevo sco perto che…? Ma no, ma no, non avevo scoperto proprio niente. O meglio avevo sco perto che non c’era niente da scoprire. L’ho avvertito che uscivo per andare al mare, a prendere una boccata d’aria e che sarei tornata per la cola zione. Lui naturalmente non ha neppure alzato la testa: scriveva. Mi sono ritirata in silenzio, sentenziando dentro di me: « Via tutti questi libracci. Via mio marito ». * Sono andata difilato in fon do al corridoio, ho aperto un uscio a vetri. Eccomi di fron te ad un mondo tutto rosa, come se d’improvviso, avessi inforcato lenti di questo te nero colore. Tavolino, seggio line, armadietto laccati di ro sa. Lettino rosa con parapetti e colonnine rosa. Carta da pa rati rosa pallido con fiorellini rosa più accentuati. Il mio bambino, due anni, infagottato in una tuta di lana rosa, in piedi sulla coperta rosa del letto. Seduta presso di lui, la governante tedesca con le guance rosa, la camicetta ro sa diafano, la gonna rosa ge ranio. Alla finestra, tendine rosa. In terra, un tappeto ro sa. Tutto questo rosa, ad un tratto, mi è sembrato poco convincente. Con che diritto avevo sostituito con un mondo rosa, ¡l solito mondo nel quale il rosa, sia in senso reale sia in senso metaforico, è, a dir poco, raro? E quel fi glio, che mi serviva un figlio adesso che non avevo più né anticamera, né soggiorno, né camera da letto, né studio, né marito? Dunque: « Via tutto questo rosa. Via anche il bambino ». Eccomi in strada. Mentre apro la portiera della macchin a, lancio uno sguardo in su, al nostro palazzo, e penso: « Via tutto il palazzo ». Quin di salgo, metto in moto, parto. Mentre guido, comincio a piangere e una ciocca di ca pelli mi attraversa il volto. Piango, guido con una mano sola e ricaccio invano indietro la ciocca. Le lagrime mi vanno in bocca, sono molto ama re. Sto in fila tra innumere voli automobili; vedo una quantità di facce dietro i ve tri delle automobili, vedo dei palazzi, vedo il cielo grigio, rigido, senza luce, un vero cie lo invernale e penso: « Via queste facce. Via questi pa lazzi. Via la città intera ». Sono sull’autostrada. La lan cetta del contachilometri sale da cento a centoventi, a cen tocinquanta, a centosettanta all’ora. Le lagrime mi flagellano la faccia; la ciocca mi sven tola sul naso. Intanto conti nua l’eliminazione: «Via i car telloni pubblicitari. Via il mo tel. Via quell’altro motel. Via il benzinaio. Via quell’altro benzinaio. Via quegli altri car telloni pubblicitari ». Alcune macchine mi corrono avanti, perdendosi nel grigiore dell’a sfalto, sotto il grigiore del cie lo; altre, le vedo, nel retrovi sore, che mi rincorrono, anch’esse remote, confuse, tra cielo e strada. Penso: « Via le macchine. Via ». Sono a Fregene. La pineta è al buio. I pini si chinano qua e là coi tronchi smilzi, come annoiati di stare insieme. Giornali dell’ultima esta te biancheggiano nell’ombra del sottobosco, sul suolo oscu ro. Corro e piango. Ecco lo spiazzo, col parcheggio, da vanti allo stabilimento dalle cabine verdi e azzurre. Lascio la macchina e mi inoltro su una tavola, verso la spiaggia. Ha piovuto durante la not te, ma poco. La spiaggia è tutta bucherellata di gocce; ma come ci pongo sopra il piede, mi sento affondare nel la sabbia asciutta e fredda. Il mare è calmo, come di piom bo grigio e opaco; ma un piombo nel quale, con un chiodo, siano state incise delle striature scintillanti. Il cie lo è meno rannuvolato che in città. Anzi, ad un tratto, men tre cammino lungo il mare, ec co che viene fuori il sole, gial lo e denso, simile ad un gran de sputo. Naturalmente, dico a me stessa: « Via il sole ». Ma proprio nel momento che penso questo, mi chino e raccolgo una stella marina. E’ molto piccola; ha un corpo, diciamo così, non più largo di un bottone da camicia; le pun te sono filiformi. E’ ancora vi va, muove debolmente le pun te. Di sopra è color sabbia di sotto, bianchiccia. Senza tanto pensarci su, la getto in mare, affinché non muoia. Questa semplice, istintiva azione provoca, come si dice una reazione a catena. Invece di dire: « No » alla stella ma rina, le ho detto: « Sì ». Dun que, logicamente, questo « sì » ne suscita tanti altri. Sì al so le; sì all’autostrada ed ai suoi cartelloni; sì alla città; sì al mio palazzo; sì al mio appar tamento; sì a mio marito e a mio figlio. Sì, sì, sì, sì… A questo punto, con buon senso, mi sono detta che in vece di dire: « Via il mondo », sarebbe stato più semplice ed anche più giusto di re: « Via me stessa ». Come mai non ci avevo pensato? In realtà da qualche tempo sono molto ma molto distratta. * Ho preso a passeggiare lun go il mare accarezzando que sta idea: dire una buona vol ta: « Via me stessa » e poi ve dere che cosa succederebbe. La sabbia specchiante era tut ta sparsa di granchiolini bian chi, di piccole meduse diafa ne, di conchigliette azzurre, di alghe verdi; le onde ritirandosi avevano lasciato tanti ricami di detriti neri. Ho notato un gruppo di persone, a non grande distanza, e mi sono avvicinata. Erano dei pescatori, stavano tirando sulla spiaggia una re te. Sul mare, si vedevano spuntare dall’acqua i sugheri della rete che formavano co me un grande « u ». Appena mi hanno visto, hanno interrotto di tirare, si sono fatti da parte, guardandomi in una maniera singolare che mi ha sorpreso. Sono andata avanti, con passo lento e melanconico. Un giovanotto tarchiato, dal volto rosso e fiorito incorniciato da due enormi basettoni ricciuti, in giacca a vento e pantaloni attillati, mi ha guardato anche lui in maniera strana. Poi mi sono voltata un poco: era an cora lì, fermo, che mi guar dava. Soltanto quando sono tor nata alla macchina e mi sono seduta e ho respinto gli orli della pelliccia per meglio manovrare il volante, ho com preso il motivo di quegli sguardi dei pescatori e del giovanotto: nel mio delirio, ave vo infilato la pelliccia appena uscita dal bagno. Insomma: ero nuda. Ho avuto un momento la tentazione di lasciare la pelliccia nella macchina e andar mene, così nuda, per la pineta. Avrei camminato sugli aghi pungenti, in quel buio piovoso, diafana come una di quelle meduse che avevo vi sto morte sulla spiaggia. Sarei pian piano diventata traspa rente, sempre più trasparente, alla fine mi sarei disciolta nel la nebbiolina del sottobosco, tra i rovi e i tronchi dei pini. Sì, questa era la sola maniera di dire: « Via me stessa », che mi sarebbe piaciuta. Consolata da questa idea e dall’impossibilità di mandarla ad effetto, ho preso a correre sull’autostrada.
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