LETTERATURA: I MAESTRI: Un parere contrario su Kafka14 Febbraio 2019 di Edmund Wilson La figura di Franz Kafka incombe sul mondo letterario come il fenomeno meteorologico chiamato spettro di Brocken: una sagoma umana circondata da un alone iridescen te proiettata nella nebbia con effetto sinistro e remoto, men tre invece è forse vicinissima. Dopo la pubblicazione in inglese (1937) di Der Prozess (nel 1930 era già apparso Das Schloss, ma non aveva destato molta attenzione) la fama e l’in fluenza di Kafka sono aumentate a tal punto che la sua figura si proietta sulla coscienza delle nostre riviste lettera rie in proporzioni che generano l’illusione d’aver di fronte uno scrittore di statura gigantesca. Si pubblicano sempre nuove traduzioni della sua opera, la discussione su di lui è sempre viva, e adesso sta uscendo a New York una nuova edizione completa in tedesco delle sue opere. Questa edi zione è in parte una ristampa della vecchia edizione tede sca che la guerra aveva reso introvabile; ma, quando sarà completata, comprenderà dieci o undici volumi invece dei sei originali, con due volumi di diari, due di epistolario e uno o due di frammenti: materiale, questo, di cui finora si erano avute soltanto edizioni parziali in volume unico. Possiamo andare orgogliosi che questa nuova, autorevole e ammirevole edizione di un classico tedesco contemporaneo, iniziata a Berlino sotto Hitler e terminata solo a Praga du rante l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia, venga così salvata dalle rovine della cultura centroeuropea e pubblica ta negli Stati Uniti. L’editore Schocken ha pure pubblicato, in tedesco e in inglese, la biografia di Kafka scritta da Max Brod, e una scelta in inglese di « racconti e riflessioni » di Kafka, sotto il titolo The Great Wall of China; e annuncia pure altre traduzioni. Intanto, una traduzione di Die Verwandlung, uno dei più importanti racconti di Kafka, è stata recentemente pubblicata dalla Vanguard Press; e A Franz Kafka Miscellany, con una scelta di traduzioni da Kafka e saggi sulla sua opera, è uscita a cura della Twice A Year Press. Una raccolta di saggi e interventi intitolata The Kafka Problem è stata pubblicata da New Directions; e Kafka’s Prayer, un saggio di Paul Goodman, è appena ap parso per i tipi della Vanguard. Questi ultimi due volumi, nel primo dei quali il curatore Angel Flores ha riunito ben quarantuno saggi di scrittori di tutte le nazionalità, danno un senso di saturazione e stupi scono il lettore, insinuandogli in definitiva il sospetto di una eccessiva sopravvalutazione di Kafka. Ci si rende conto che non è solo questione di apprezzare Kafka come il poeta che esprime il senso di disperazione e di automortificazione degli intellettuali; ma sembra che lo si voglia addirittura innalzare al rango di teologo e santo capace di giustificare anche ai loro occhi â— o quanto meno capace di aiutarli ad accet tare senza giustificazione â— l’avvento di un Dio banale, bu rocratico e incomprensibile nei cuori di uomini sensibili e angosciati. Ora, c’è una bella differenza tra il nascere, come nel caso dello scrittore in questione, prima della fine del di ciannovesimo secolo, allorché stabilità e progresso si dava no per scontati, invece che in un periodo in cui l’alternarsi di congiunture alte e basse sia una condizione normale della vita; ma, con tutta la mia ammirazione per Kafka, non riesco proprio a considerarlo davvero un grande scrittore, e non ho mai cessato di stupirmi del fatto che tanti possano crederlo tale. Certi racconti di Kafka sono senz’altro di prim’ordine, paragonabili a quelli di Gogol e di Poe: sono anch’essi incubi realistici che traducono in immagini con crete le follie degli stati neurotici. E i romanzi di Kafka sfruttano quel motivo drammatico dell’inutile sforzo che fa rà probabilmente della parola « kafkiano » un modo di dire definitivo. Ma i due romanzi di Kafka, Das Schloss, Der Pro zess, che per i suoi fedeli costituiscono ormai come dei te sti sacri, sono tutto sommato opere piuttosto grezze, non ri finite e mai veramente risolte. I loro temi, al punto in cui Kafka li aveva abbandonati, erano stati sviluppati con così poco rigore che Max Brod. accingendosi a curarne la pub blicazione, si trovò di fronte a semplici raccolte di episodi, che dovette mettere, insieme alla meglio per dar loro una progressione coerente, pur non essendo sempre in grado di indicarne l’ordine esatto di successione. Paragonare Kafka, come fanno gli autori di certi contributi in The Kafka Problem, a Joyce e Proust e perfino Dante, grandi naturalisti della personalità, grandi organizzatori dell’esperienza uma na, è evidentemente assurdo. Quanto poi alle implicazioni religiose di questi romanzi, le direi praticamente inesistenti: condivido l’opinione di D.S. Savage, che ha collaborato a The Kafka Problem con uno dei saggi più sensibili, quan do afferma che il dramma di Kafka fu di non riuscire mai a superare i limiti del mondo â— il mondo della sua famiglia, del suo lavoro, delle sue aspirazioni di felicità borghese â— nell’interesse di una rivelazione divina, e non può esserci santo o profeta di prim’ordine senza una fede che non sia ben più forte di quella avvertibile in Kafka. Nella biografia di Max Brod sono indicati tutti gli ele menti che in Kafka determinarono prima l’isolamento e poi l’annullamento della sua carica spirituale. Franz Kafka era il delicato figlio di un mercante ebreo di Praga fattosi dal niente, un grossista di abbigliamento femminile, uomo vigo roso e pratico, che gli ispirava paura e rispetto e che gli procurò un complesso d’inferiorità duratogli tutta la vita. Il figlio era un intellettuale puro, che aveva preso dalla tradi zione rabbinica della famiglia materna; ma cedette alle in sistenze del padre e, benché a volte si sentisse indotto a pensieri di suicidio, andò a lavorare nel magazzino. Scrivere era sempre stata la sua vera vocazione: e ciò non rappre sentava per lui semplicemente un’arte, ma anche un modo di adempiere a un dovere morale â— diceva infatti di considerarlo una specie di preghiera â— e alla fine riuscì a otte nere in un ufficio di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, un impiego che gli lasciava il pomeriggio libero. Desiderava, o perlomeno credeva di desiderare, di sposarsi, ma i suoi rapporti col padre gli creavano, a quanto sembra, delle inibizioni nella sfera erotica. Si fidanzò con una ragaz za che egli descrive « integra, allegra, spontanea, robusta » ; e, dopo cinque anni di logoranti esitazioni, si ammalò di tu bercolosi, nel deliberato proposito, a suo dire, di precludersi ogni possibilità di sposarsi. È probabile che a quel tempo egli si sentisse ormai troppo a suo agio nel proprio isolamento per correre il rischio di uscirne; e all’età di trenta sei anni indirizzò al padre una lettera sterminata (finora mai pubblicata integralmente), un’apologia della propria vi ta, con la quale gli avrebbe imputato la responsabilità del proprio fallimento. In seguito se ne andò a Berlino. Aveva conosciuto una giovane intellettuale che studiava ebraico con lui, e che a quanto pare egli desiderò realmente di spo sare. Quando Franz confessò di non essere un ebreo prati cante, il rabbino proibì al padre di lei, cassidico ortodosso, di dare il consenso al matrimonio; ma la ragazza, ribellan dosi alla tradizione familiare, andò a convivere con lui e se ne prese cura. A questo punto egli desiderava veramente lavorare e vivere, ma la malattia gli lascia ormai poco tem po e, dopo meno di un anno di questa vita, all’età di quarantun anni Kafka moriva. Il nesso tra la vita e l’opera di Kafka viene spiegato dal suo amico Max Brod in un libro pieno di comprensione. Herr Brod â— che i kafkiani più metafisici vorrebbero far passare per filisteo â— ha, secondo me, il preciso merito di cercare nell’opera di Kafka più i significati umani che quel li divini. Che Kafka fosse di volontà debole e psicologicamente inibito, Max Brod è prontissimo ad ammetterlo; lui stesso, finché Kafka visse, si adoperò per incoraggiarlo e farlo lavorare. Spronò Kafka a scrivere e a pubblicare alcuni racconti, ma assai meno fortunati furono i suoi sforzi per indurlo a rompere con la famiglia. Tanti scappano via dai loro genitori, protesta Herr Brod stupito e addolorato, e allora perché mai Kafka non poteva fare altrettanto? Per ché doveva permettere a suo padre di calpestare e mutilare a tal punto le sue capacità? Perché, potrebbe aggiungere il lettore a sostegno di Max Brod, ricordando uno dei più efficaci racconti di Kafka, perché questo artista continuò ad accettare, anche quando non fu più un ragazzo, il ruolo di scarafaggio a cui, come il protagonista di Die Verwandlung era stato destinato da quel mercante borghese? Be’, tutte le circostanze congiurarono in modo soverchiante contro il po vero Kafka. La sua impotenza era quella di un uomo costituzionalmente povero di vitalità, murato dentro una serie di prigioni che si chiudevano l’una sull’altra come scatole ci nesi. In primo luogo, c’era il soffocante rapporto col padre; poi la pressione del piccolo e compatto nucleo familiare ebreo ortodosso; quindi i limiti e l’isolamento di una comu nità ebraica non completamente uscita dal ghetto (Brod sottolinea che i problemi dei personaggi di Kafka sono spesso quelli degli ebrei conviventi con dei quasi stranieri: l’erra bondo protagonista di Das Schloss, ad esempio, cerca sempre di farsi ricevere; e Brod avrebbe potuto aggiungere che Joseph K., in Der Prozess, è continuamente perseguitato per un delitto che non sa d’aver commesso); quindi la noia e l’inedia spirituale dello scrittore legato al suo orario di lavo ro, e il senso di disperazione che gli ispirano gli operai che si recano al suo ufficio per cercar di riscuotere la loro assicurazione, imbattendosi in cavilli d’ogni sorta e in intermi nabili rinvii (« Come sono modesti questi uomini. » egli dis se una volta a Max Brod. « Vengono qui a pregarci invece di assaltare l’istituto e ridurlo in polvere »; poi, ancora, le inibizioni profonde che gli rendono difficili i rapporti amo rosi; e la condizione dei cechi, in seno all’Impero Austria co, di minoranza oppressa e disprezzata; e le privazioni di un’Europa centrale sconfitta, devastata, fra le altre piaghe, dalla tubercolosi che minava la vita dello stesso Kafka. Ta le condizione di cattività confusa e ottenebrata, che a quel tempo sembrava forse un fatto abnorme, si sarebbe in se guito propagata a quasi tutta l’Europa, e le fantasie di Kaf ka avrebbero acquistato un senso e una validità ben diffi cilmente prevedibili: e precisamente quando, sotto i regimi nazista e sovietico, degli uomini si sarebbero visti arrestare e condannare per crimini non contemplati in nessun codice, né morale né giuridico, e si sarebbero visti trascinare da un luogo all’altro, per lavorare o combattere, prima da uno e poi dall’altro di questi due governi inumani e spietati, che essi non avevano avuto né l’energia di sfidare, né la forza intellettuale di smascherare e disgregare. Ma veramente dobbiamo, come pretendono i suoi ammi ratori, accettare le disgrazie dei miseri eroi di Kafka come metafore della condizione umana? A noi riesce difficile pro vare nei confronti del padre di Kafka, di cui il dio kafkia no assume sempre l’aspetto, lo stesso infantile timore reve renziale provato dallo scrittore: tanto più che lui stesso non può fare a meno di ridicolizzare sia questo Padre-Dio, sia la propria pusillanimità che lo costringe a restarne schiavo. È stato dato gran rilievo all’influenza esercitata su Kafka dal teologo danese Kierkegaard; ma da Max Brod apprendiamo che Kafka era influenzato almeno altrettanto da Flaubert, e la sua opera è ricca di un’ironia flaubertiana generalmente sottovalutata dalla critica. C’è un racconto di Kafka, ad esempio, intitolato Investigazioni di un cane (in cluso in The Great Wall of China) in cui l’autore immagina un cane intento a meditare su certi problemi alquanto mi steriosi, che per il mondo canino sono d’importanza fondamentale. Da dove proviene, si domanda, il cibo dei cani? La spiegazione comune â— accettata da tutti i cani di buon senso â— è che questo cibo spunta dalla terra e viene fatto crescere innaffiandola e cantando inni magici ed eseguendo danze rituali. Ma, come osserva il cane-scienziato, i cani, quando invocano il cibo, non guardano in giù, verso la terra, ma in su. Perché guardano in su? Ed è proprio indi spensabile? Poi vi sono altri problemi irrisolti: i cani che si rotolano all’unisono e camminano sulle zampe posteriori al suono di una musica misteriosa, e i cagnolini di lusso che sembrano camminare come librati nell’aria. Il punto è, na turalmente, che i cani hanno le loro buone ragioni per so stenere che gli esseri umani non esistono. Ora, chi vada a leggere le più recenti interpretazioni di questo racconto, scoprirà che esso altro non sarebbe che un’allegoria del rap porto tra l’uomo e Dio; anche se poi l’analogia non regge, in quanto i cani possono perfettamente vedere i loro padroni (a differenza dell’uomo, che non è in grado di vedere Dio), e ne dipendono in maniera tangibile. A proposito di questo racconto, iniziato â— e mai condotto a termine â— non molto tempo prima della sua morte, Kafka diceva che esso era il suo Bouvard et Pécuchet; e con questo egli certamente in tendeva dire non solo che, come in effetti disse, lo riteneva un’opera tardiva piuttosto povera di vitalità, ma anche che il racconto aveva qualcosa in comune col più sprezzante atto d’accusa lanciato da Flaubert contro la meschinità e la inettitudine del mondo moderno. Il fulcro del racconto di Kafka è che i cani non vogliono ammettere di essere sog getti all’uomo, sicché hanno praticamente convenuto di nascondersi reciprocamente questo fatto, e neppure il loro pen satore più ardito può permettersi di chiarire il mistero, per ché in tal modo si spoglierebbe della propria dignità indivi duale. Assai più che un’edificante allegoria del rapporto tra l’uomo e Dio, sembra trattarsi di una satira marxiano-flaubertiana del parassitismo borghese. Io non nego che al tiranno, al padrone, venga spesso con ferito nei racconti di Kafka un serio significato teologico; ma l’aspetto autoironico è ben più accentuato. Il condanna to a morte di Der Prozess, che si convince alla fine di essere colpevole di un delitto mai precisato, davvero esemplifica o sta ad esemplificare la condizione del Peccato Originale? O piuttosto non ci troviamo di fronte alla satira della cat tiva coscienza dell’autore stesso nelle sue assurde manife stazioni? L’elemento autoironico c’è pure in Das Schloss ma, nell’aspirazione di K. a sistemarsi e a trovare un modesto posto nella vita, c’è anche un senso di vera insoddisfazione. Ma nessuno dei due protagonisti, a meno che non li si vo glia considerare sul piano di parodie della dottrina calvini sta della grazia, mi sembra particolarmente interessante co me espressione di un punto di vista religioso. Il cristiano del Pilgrim’s Progress doveva superare degli ostacoli e aveva bisogno, per affrontarli, di una forza morale; ma tutto l’af fannarsi del K. di Kafka è rivolto contro un’autorità onni sciente e onnipotente, la cui forza e la cui luce non gli sarà mai dato di condividere, ma alla cui volontà egli è condan nato a soccombere. E in Dante, dove la visione religiosa è tutto un esercizio di autodominio e di autodirezione, anche il pagano Ulisse incita i suoi uomini a non addormentarsi prima di sera e dice loro che non son fatti « a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza » ; mentre Kafka è più kafkiano che mai quando può assimilare gli uomini alle bestie â— cani, insetti, topi e scimmie â— senza capacità di osare né di conoscere. D’altro canto mi pare che l’effi cacia satirica di questi racconti venga spesso compromessa da una certa compiaciuta sottomissione di Kafka, dal suo puerile rispetto e dalla sua paura delle cose che sarebbero oggetto della sua satira: la noiosa solerzia dell’attività com merciale, l’atmosfera soffocante della famiglia borghese, i ragionamenti aridi e la rigidità tirannica dell’ebraismo ortodosso (che ha molti lati in comune col vecchio protestante simo puritano). Peraltro, se confrontato con gli scrittori che gli sono più affini, Kafka non soddisfa molto. Gogol e Poe erano ugual mente nevrotici, e il loro destino fu ugualmente infelice; e se è vero, come dice il Savage, che dal mondo di Kafka sono assenti sia la personalità che l’amore, l’amore non c’è nean che in Gogol e in Poe e, benché Gogol sia ricco di perso nalità ben definite, i personaggi di Poe, di regola, sono ancor meno caratterizzati di quelli di Kafka. Ma, benché i simboli espressi da questi due scrittori siano altrettanto sgra devoli che quelli di Kafka e, come in Kafka, rappresentino fondamentalmente la presa di coscienza intensa e dolorosa di blocchi emotivi, purtuttavia nei confronti di Kafka, essi han no qualche vantaggio: Gogol era nutrito e fortificato dalla sua concezione eroica della Russia, e Poe, malgrado le sue idee conservatici, è nel suo carattere ardito e coraggioso, nel la sua vigile e singolare intelligenza, un vero americano di dopo la Rivoluzione. A loro modo, insomma, hanno entrambi un certo vigore. Ma il denazionalizzato, scoraggiato, disamo rato, fiaccato Kafka, anche se lì per lì può atterrirci o diver tirci, al tirar delle somme non può che deprimerci. Per il suo luogo e il suo tempo, egli è senza dubbio autentico, ma è altrettanto certo che in un luogo e in un tempo come i suoi pochi di noi avranno voglia di indugiare, né come iloti sbalorditi e ipnotizzati di stati totalitari, né come cittadini di società più libere, caduti nell’errore di assumere i racconti di Kafka come una prova che la legge di Dio e la volontà umana si pongono in termini talmente discordanti, che dob biamo deporre la speranza di poterle mai far coincidere. « Non bisogna defraudare nessuno, » dice Kafka in un aforisma che ha avuto molta fortuna, « neanche il mondo dei suoi trionfi. » Ma quale funzione hanno gli scrittori, se non quella di defraudare il mondo dei suoi trionfi? Nel caso di Kafka, il defraudato fu lui e non ebbe neppure il tempo di potersi rifare. Quel che egli ci lascia, è il mozzo sospiro di un’anima dubbiosa e calpestata. Non riesco a capire come si possa considerarlo un grande artista o una guida morale. 26 luglio 1947
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