PITTURA: I MAESTRI: Tintoretto: Il teatrale Tintoretto16 Febbraio 2019 di Carlo Bernari Condannato alla pittura, una condanna a vita, che il pittore ha cercato di propiziarsi con ogni mezzo, sin dai primi passi di un leggendario noviziato nella bot Âtega di Tiziano, come inseguendo una chimerica libe Ârazione che troverà solo nella morte. Tale può dirsi, in sintesi, la vicenda artistica di Jacopo Robusti, costel Âlata di opere gigantesche quasi a dispetto del nomi Âgnolo col quale la tradizione ha voluto suggellarne la fama: il Tintoretto. Era diffuso costume dei tempi cognominare il giovane dal mestiere del padre; e sic Âcome Giovanni Battista esercitava l’arte del tingere panni di seta, non avrebbe destato meraviglia se un suo figlio fosse stato denominato: del Tintore. A simiglianza, cioè, di quanto accadde al Vannucchi, univer Âsalmente noto come Andrea del Sarto, appunto dalla professione paterna. Nel diminutivo è da scorgere non solo uno di quei tratti scherzevoli di un popolo imma Âginoso, dalla parlata arguta e teatrale; quanto l’inten Âzione di designare, oltre all’aspetto fisico, cioè l’uomo di bassa statura quale certamente fu Jacopo Robusti, un carattere morale, più astratto quindi meno defini Âbile, che nel pittore doveva essere assai vivace e scat Âtante. Grano di pepe è l’appellativo che gli rivolge l’attor comico, suo ammiratore e amico, Andrea Calmo, in una lettera rimasta famosa. Ma è poco attendibile che un grano di pepe capace di confondere e sopraffare un mazzo di papaveri – così lo caratterizza il Calmo – si lasciasse imporre un nomignolo chiaramente irriden Âte; più credibile è che il pittore se ne sia ricordato in seguito e vi abbia fatto ricorso con scelta deliberata più tardi, allorché, pervenuto a una certa notorietà , sentì il bisogno d’innalzare un’insegna di bottega che potesse valere in avvenire anche per i figli. Se in un testamento del 1539, compiuti da poco i vent’anni, egli si sottoscrive ancora alla buona: “Io mastro Giacomo, depentor nel champo di San Chassan…”, senza specificarsi col soprannome, con cui già veniva indicato fra compagni, familiari e vicini, è da presumere che il pittore non era ancora pervenuto a quel grado di spavalderia e di sfida che costituivan le maschere grazie alle quali egli riusciva a occultare le sue crisi e le sue contraddizioni, dominandole in modo da meritarsi in pieno il giudizio che un secolo dopo ancora correva su di lui: “il più arrischiato pit Âtore del mondo”. Non è passato un anno dal testamento, e lo stesso Giacomo – Giacobo o Jacopo – è già emerso dall’ano Ânimato del “depentor del champo di San Chassan” per qualificarsi mercé un simbolo che aggiunge alla sua fir Âma. Parlo dell’emblema che ha tanto intrigato critici e biografi, quale appare in una Sacra Conversazioni (New York, proprietà privata) fra il nome: “Jacho Âbus”, e la data: ” 1540″. È una ruota a tre cerchi con Âcentrici e otto raggi biforcuti alla cima, che suggerisce immediatamente l’immagine di un mulino: quella cioè della macchina più comune e sempre uguale da secoli. Dall’ovvio accostamento del nome Jachobus alla ruota del mulino, von Hadeln nel 1928 dedusse che il dipin Âto fosse da attribuire a Jacopo Molino; pittore inesi Âstente, a meno che non intendesse riferirsi a un certe Molino, però di nome Domenico e non Jacopo, citato dall’Aretino nove anni dopo. Procedendo a un’attenta lettura degli spazi, del ritmo compositivo e della di Âstribuzione delle figure, Pallucchini restituì invece al Tintoretto la tela, ma non risolse con pari impegno il problema che imponeva l’emblema della ruota; che non esiterei a interpretare come la stilizzazione di un aspo o mulinello da tintoria: lo strumento cioè di cui si serve il tintore per far scorrere su e giù dai bagni colorati in ebollizione i panni in pezza. Che l’umile ar Ânese della professione paterna potesse ispirare al pittu Âre l’idea di adottarlo a mo’ di simbolo di un casato e insieme insegna di bottega, è un’ipotesi da non respin Âgere; specie se si tiene presente che l’arte tintòria uscita depressa dal medioevo riprende slancio e si rinobilita proprio in Venezia, come a Genova e in Toscana, ir. seguito alla scoperta dell’America, da dove cominciavano a provenire da qualche decennio nuovi e più ef Âficienti coloranti, quali il campeggio, il legno del Bra Âsile eccetera. Tre anni dopo il piccolo “depentor del champo di San Chassan” ha già conquistato l’Aretino dipingendo per lui due favole nel soffitto della sua camera da letto, “con tanta soddisfazione mia e d’ogniuno”, gli scriverà subito per ringraziarlo. Ma il suo timore che il “presto e male”, con cui il Tintoretto veniva affrontando i grandi temi con tanto poco riguardo alla rifinitezza del disegno e della coloritura potesse prevalere nel suo modo di dipingere, consiglia lo scrittore, ancora imbevuto di cultura rinascimentale, a smorzare le lodi, co Âme ha già fatto con lo Schiavone, ammonendo entram Âbi i pittori a tenere sempre presente la massima che la “prestezza del fatto” va contemperata con la “pazien Âza del fare”. Figurarsi il Tintoretto, che usciva trionfa Âtore dalla grande prova del Miracolo di san Marco, quale conto poteva fare di simili esortazioni alla pa Âzienza! Indocile com’era, capace di obbedire soltanto al suo estro in cui fantasia e virtuosità , bravura e bra Âmosia di successo congiuravano a incitarlo a tentare imprese sempre più temerarie, egli non poteva vacil Âlare davanti alle incertezze dei critici, come alle gelo Âsie e agli odi che il suo comportamento gli procaccia Âva. Una traccia delle antipatie che egli destava intorno a sé. pur fra tanto consenso e ammirazione, è in un documento conservato nell’archivio della Scuola di San Rocco, nel quale si legge che un confratello, Maria Zuan Zignioni della Seda, si dichiara disposto a ver Âsare quindici ducati per contribuire alle spese per de Âcorare T’albergo’ della Scuola stessa, a patto però che “dita pittura” venga eseguita “per altra man che per el Tentoretto “; e che ove fosse stata affidata al Tintoretto, “non vol dar niente”. E difatti nulla dette, avendola spuntata proprio lui, l’inviso pittore, sopra tutti i colleghi aspiranti all’in Âcarico. Ancora una volta egli offriva così una prova della sua abilità nel procurarsi commissioni; ma anche della forza medianica con cui sapeva poi ridurre allo scorno gli avversari che gli si opponevano. Il segreto era nella riuscita, vale a dire nell’opera compiuta; in quel di più di mestiere che aveva atteso di estrinsecar Âsi, e ora era lì, sulla tela, tutto dispiegato in un’onda di umana tenerezza e di stregoneria capaci di ridurre ogni biasimo in stupore. Abusò persine di questo ‘di più’, di questo ‘sover Âchio’, che lo rendeva in ogni circostanza sicuro e spa Âvaldo: come quando collocò segretamente una tela fi Ânita, in barba a tutti i concorrenti invitati a presentare un loro disegno fra cui i confratelli avrebbero dovuto scegliere quello su cui commissionare il quadro per l’ovale di mezzo al soffitto nella Sala dell’Albergo della Scuola di San Rocco, scusandosi della prevaricazione con l’offrire il dipinto al santo da cui aveva ricevuto grazie; o come quando usurpò per sé uno spazio di do Âdici metri per cinque nella medesima Sala, e vi andò a collocare la vasta tela della Crocifissione:, dove ave Âva assembrato, ai piedi del Cristo come attorno ai due ladroni, tanta più folla e scale, e funi e oggetti vari, quanti più poteva contenerne il campo, sì da farlo ri Âsultare ancora più sterminato, in una prospettiva gre Âmita e allucinante. Ecco dunque che la circostanza esterna â— l’aver cioè ‘rubato’ una parete a Tiziano, che una dozzina d’anni avanti aveva prenotato per apporvi una propria opera da donare alla Scuola – diventa in lui incentivo a superarsi in un’operazione che ha del prodigioso, per quell’accumulo di effetti e di piani lu Âminosi che egli riesce a far coesistere in una visione diabolica e innocente al tempo stesso. Né sarà questa l’unica causa di attrito fra l’anziano maestro cadorino, già assiso in cima alla scala della gloria, e il giovane Tintoretto: altri motivi di rivalità dovettero insorgere nel corso di qualche decennio, tali da provocare dissapori e screzi finanche tra coloro che, come l’Aretino, frequentavano entrambi i pittori. Ma se Tiziano riempie un intero secolo, riassumendo “tutto lo spazio, tutta la durata di Venezia”, della Venezia che con Roma divide “la maggior forza della mente d’Italia, le ricchezze maggiori, il più grande splendore della vita”, il Tintoretto ne riassume invece le inter Âmittenze, le incertezze; rispecchia i sussulti dell’anima veneziana minacciata dai turchi, la povertà dei fonda Âchi insieme agli splendori; e, più da lontano, quantun Âque in maniera avvertibile, le contraddizioni della Re Âpubblica tra Francia e Impero, tra Francesco I e Car Âlo V. Toccherà proprio al più giovane tra i due, al Tintoretto cioè, nella cui pittura realtà e fede contra Âstano come alla ricerca di una conciliazione nei fondi e nei particolari eseguiti alla brava con pittura corsiva e nervosa che sembrano annunciare ora il Greco ora il Caravaggio, toccherà al Tintoretto far presentire nei suoi tentennamenti artistici il terremoto che di lì a poco avrebbe percorso la penisola al reflusso delle ar Âmate imperiali, lasciando aperto il conflitto tra Rifor Âma e Controriforma. Gli avvenimenti che si addensarono fra il 1518 e il ’94 – nel corso della vita del Tintoretto â— furono tali da mutare, oltre che l’assetto politico e religioso, la stessa concezione del mondo. Nato un anno dopo che Lutero affiggesse le sue tesi a Wittenberg; mentre Ma Âgellano partiva per compiere la circumnavigazione del Âla Terra, che doveva durare quasi tre anni, dal 1519 al ’22; cresciuto nel clima di perenne tensione fra due forze opposte: Spagna e Francia, turchi e Venezia, Ri Âforma e Controriforma, il Tintoretto sembra attingere proprio da queste contraddizioni quel tanto di follia necessaria per sentirsi investito della missione di resti Âtuire quella conflittualità in una serie di ‘prove’ di drammatica ma efficace incertezza. La sua discontinui Âtà artistica, il suo non apparir ” mai totalmente padro Âne dei suoi mezzi”, quasi ogni dipinto costituisse il do Âveroso riscatto da quella che fu definita la sua ” perpe Âtua sconfitta”, traggono origine proprio dall’infittirsi di tali contrasti. Vi è però un’altra crisi che affiora da questo magma incandescente: ed è una crisi di natura culturale, promossa per un verso dall’apparire del Fu Ârioso ariostesco (fra il 1516 e il ’21) e delle Maccaroniche del Folengo (1518; ma il Folengo morirà presso Bassano nel 1544, quando il pittore aveva già ventisei anni); e per l’altro verso da quella che fu definita ‘crisi del manierismo’. Ebbene il Tintoretto non si limitò a vivere dentro questo tempo, dentro queste ‘crisi’; ma vi contribuì egli stesso col suo fare à lacre, sempre pronto a restituire in pittura le discontinuità , le intermittenze, le incertezze o i dubbi che furono del suo tempo e che il mondo gli offriva quali modelli. Tanto che si potrebbe dire di lui col Settembrini: ” Non vi lasciate ingannare dalle tan Âte pitture di Sacro argomento e di bellissima espres Âsione. Sappiate che Pietro Perugino, che fece tante e sì belle Madonne, non credeva all’immortalità dell’a Ânima; che Leonardo da Vinci, che dipinse tanti santi, tanti angeli e tanta parte del ciclo, neppure ei crede Âva … La natura in Italia ci presenta il continuo spetta Âcolo d’una solenne pompa religiosa: come non vederla, come negare questa natura e ritirarsi nell’interna soli Âtudine dello spirito? “. È difatti questo “continuo spet Âtacolo” che il Tintoretto continuerà a ridurre in “fa Âvole drammatiche ” – sono parole di Roberto Longhi -” da svolgersi entro la scenografia d’ombra e di luci ra Âpidamente viranti… “. Favole drammatiche sono il Miracolo di san Mar Âco, con le sue prospettive e i suoi scorci, e il Ritrova Âmento del corpo di san Marco; la Strage degli inno Âcenti e la Conversione di Saulo; la Crocifissione e l’Ul Âtima cena o la Lavanda dei piedi. Ma lo sono parimenti le favole profane: Susanna e i vecchioni, Venere e Vulcano eccetera; mentre i particolari, sia nei dipinti di soggetto sacro sia in quelli profani, gli interni come i paesaggi, sembrano sempre risolversi attraverso una pennellata veloce e realistica, in una luce la cui fonte non è più quella che ha illuminato i primi piani, ma proviene da una seconda sorgente luminosa, quale soltanto in una scena teatrale può immaginarsi. La grande applicazione e l’esecuzione rapida sono i due aspetti salienti e antitetici del suo temperamento di artista; che trovano sempre il modo tuttavia di ar Âmonizzarsi nella cornice di una scena teatrale. È noto che nella parte più recondita della casa egli aveva adi Âbito un locale esclusivamente alle sue ricerche e ai suoi studi, dove a nessuno, tranne che ai familiari, era con Âcesso di entrare. La luce vi doveva essere scarsa, stando alla descrizione che ne fa il Ridolfi; da costringere l’ar Âtista a tenervi acceso perennemente un lume. Qui etili trascorreva tutto il tempo che gli lasciava libero la pit Âtura: ed è la tradizione che attribuisce a questo re Âcesso buio la funzione di laboratorio segreto, dove il Tintoretto con patetica ostinazione si rinserrava a stu Âdiare il nudo “a lume di lucerna, per comporre me Âdiante quelle ombre gagliarde…” (così il Ridolfi e a disegnare dai calchi di gesso inviati a Venezia da Da Âniele da Volterra, come dalle repliche michelangiole Âsche giunte sulla laguna a opera del Vasari, di Seba Âstiano del Piombo, del Salviati; oppure a costruirvi le scene delle sue favole drammatiche, che poi popolava di figurine di cera, fra quinte architettoniche o fondali paesistici, ottenendone scorci, panneggi, effetti luminosi, che risultarono poi quanto di più suo egli seppe ag Âgiungere “a ciò che vide manchevole nel naturale”: vale a dire la luce in funzione di colore. Dall’affresco lungamente praticato in gioventù o n mano veloce, allo studio delle forme, deriva in lui quel Âla “spiccata tendenza verso elementi di struttura ma Ânieristica”; per cui il manierismo, pur con un ritardi di un ventennio, acquista a Venezia, grazie appunto al Tintoretto, una rilevanza tutta nuova nell’ambiguità di questa duplice suggestione luministica e drammatica. L’elogio del Tintoretto tramandato dal Boschini: “Un bel umor – coi penei, con la lengua e con l’ardir”. ci riporta al punto focale della personalità tintorettesca: “un bel umor”, che seppe “ardire” con “la lin Âgua”, non meno che con i “pennelli”. E qual poteva essere il teatro più adatto a questa “lengua”? In cui le fosse permesso di esercitarsi in piena libertà , mal Âgrado i freni della Controriforma? Ebbene, si perdoni la tautologia, questo teatro fu appunto il teatro: e i suoi attori, le sue commedie, le sue scene. Pur mondata dalle scorie che il Ridolfi raccoglie da una tradizione agiografica ancora viva ai suoi tempi, resta la pittura a testimoniare nel Tintoretto la sua passione per il teatro; passione che si alimentò a una cultura che doveva durare fino al Goldoni. Che egli si servisse di modellini scenografici per ‘montare’ le sue Cene, le Lavande, i Miracoli, quali vere e proprie favole o rappresentazioni drammatiche, si è detto; re Âsta da aggiungere che la disponibilità che egli dimostrò verso il teatro non fu casuale, ma gli derivava da una tendenza culturale che da privilegiata finì per es Âsere comune negli ultimi decenni del secolo. Può dirsi che egli sia stato allevato nel clima teatrale, che ha alle sue origini la commedia letteraria, cui si sostituirà quel Âla popolare, poi, a preludio della commedia dell’arte. Dalla Calandria del cardinal Bibbiena, alla Venexiana di anonimo, agli Ingannati del Piccolomini, fino alle commedie del Machiavelli, del Caro, dello stesso Are Âtino, fu un pullulare di temi ispirati a Plauto, ma con innesti boccacceschi, che via via trarranno alimenti sempre più freschi dalla vita reale: innesti i quali, rin Ânovandone lo spirito, preparano l’avvento al più pre Âstigioso interprete delle vicende del contado pavano: il Ruzzante. Anche in questa fioritura teatrale la presenza del Tintoretto non si limitò alla platonica ammirazione re Âstituita all’amico Calmo; ma dové trattarsi di qualcosa di più (quel ‘di più’ che egli aveva sempre in serbo); tanto che il Calmo “non cesserà di stimolarlo” a ci Âmentarsi in sempre nuovi “bizzarri capricci d’habiti et motti faceti nelle rappresentazioni delle commedie, che si recitavano in Venetia … inventandone dico molte cu Âriosità , che apportavano maraviglia agli spettatori, ed erano celebrate per rare, sì che ogn’uno ricorreva a lui in simili occasioni”; e probabilmente lo stesso Calmo. Senza contare che, sempre a detta del Ridolfi, egli “si dilettò in sua gioventù [anche a] suonare il liuto et altri bizzarri stromenti da lui inventati…”. Ove dunque le notizie attinte a una tradizione in Âcerta, circa le invenzioni teatrali del Tintoretto, navi Âgano verso la leggenda, rimane pur sempre la sua pit Âtura a suggerirne le analogie; quale specchio sufficien Âtemente fedele degli sforzi che il pittore compiva per spostare gli spiriti della Controriforma nell’area im Âpropria della cultura teatrale, dominante ai suoi tem Âpi. Così la ‘crisi manieristica’ trovò modo di sviluppare e ravvivare tutti gl’incentivi scenografici per concre Âtarsi in racconti ‘drammatici’, nel senso più propria Âmente teatrale. Al punto che le figure realistiche, inse Ârite nei suoi dipinti, come gli stessi personaggi in cui il pittore effigiava amici o committenti, sembrano po Âsti a fare non da attori della vicenda, ma da primi spettatori attoniti della rappresentazione di un evento sempre magico e strepitoso.
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