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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: I MAESTRI: Una possibilità comune di scrittura (il « Gruppo ’63 »)

9 Maggio 2012

di Angelo Guglielmi
[da “Quindici”, numero 12, 15 settembre 1968]

Il « Gruppo ‘63 » ha funzionato nel campo della nostra cultura, come, nel rinnovamento della nostra società, la resistenza rispetto al fascismo. Giustamente puniti e a morte feriti nei loro affetti più cari dal rabbioso vento della libertà ritrovata, i fascisti si scoprirono con il fiato più che mozzato per poter riu ­scire a imbastire una pur misera difesa.

Sparirono letteralmente e per qualche anno dopo il ’46 (e per analogia dopo il ’63 sparì la reazione o la destra letteraria) di loro non se ne seppe più nulla. Anzi i più furbi, quelli che erano riusciti a salvare la testa, si affret ­tarono, approfittando del momento di tregua sopravvenuta al fatto che era venuto meno e si era dissolto il nemico da   colpire, si affret ­tarono dunque a cambiare le carte in tavola, a camuffarsi, a pronunciare pubblicamente ipo ­criti mea culpa, a riconoscere non tanto i pro ­pri errori, quanto che il vento della libertà qualche seme fecondo l’aveva portato.   Dun ­que, i più furbi o i più giovani â— cioè quelli che non erano stati fucilati per rispetto pietoso della loro giovane età â— improvvisarono una qualche forma di adeguamento, la decisione di mettersi in qualche modo a livello, entrando in un dialogo (che naturalmente dall’altra par ­te non trovava risposta) con gli uomini della resistenza, dai quali mutuavano qualche giudizio, peraltro tra i più scontati e ormai vuoto di ogni carica sovvertitrice, e qualche inno ­cente proposito. Così rinfrescati i vestiti, con ­certata con il proprio coiffeur di sempre una acconciatura più attendibile i fascisti sono riap ­parsi ed hanno ricominciato a parlare. Intanto non parlano più il linguaggio che già li fece infami: ma mimano modi di dire, espressio ­ni, giri di pensieri appartenenti al patrimonio espressivo e di comportamento dei resistenti, cioè di coloro da cui hanno subito le maggiori offese e nei cui confronti sono ferocemente animati da propositi di rivalsa. Comunque per riapparire alla ribalta i fascisti hanno appro ­fittato non solo della propria capacità di mi ­metizzazione, ma anche del momento di sban ­damento e d’incertezza che le forze della resi ­stenza hanno accusato, del processo d’impo ­verimento che aveva colpito i loro metodi di lotta e, insomma, il loro stesso linguaggio a partire dal momento in cui questo linguaggio era diventato oggetto di appropriazione da parte di chi non era assolutamente in grado di gestirlo e se lo incorporava a scopi di potere e di lustro cioè di conservazione. Così, di fron ­te allo stupefacente (e nemmeno tanto) augu ­rio espresso dalle colonne di uno degli scorsi numeri di Epoca da Domenico Bartoli, che il partito socialista italiano nelle prossime com ­petizioni elettorali potesse ottenere una forte affermazione quale unica garanzia del neces ­sario consolidamento della democrazia in Ita ­lia, non possiamo fingere di non accorgerci che tanto Bartoli ha potuto ardire in quanto il partito socialista nel tentativo di mettere a punto strumenti concreti d’intervento â— ten ­tativo che nasceva dalla convinzione che l’evo ­luzione dei tempi aveva fatto decadere l’at ­tualità della protesta astratta, cioè dell’oppo ­sizione dall’esterno â— aveva dovuto prestarsi ad un processo di normalizzazione a causa del quale aveva esposto ad un rischio mortale la sua incolumità di partito rivoluzionario, e aveva reso possibile che un reazionario con ­fesso, seppur con una buona dose di malafede e sotto la spinta di un volgare calcolo elet ­torale, si spingesse a comprenderlo nel cahier delle sue speranze.

Ma ora è tempo di uscire dalle analogie: a continuarlo il giuoco diventa pericoloso e può creare degli equivoci: certe parole fascisti e resistenti hanno ancora una forza in proprio ed esprimono sempre molto di più di quello che vuole dire chi le adopera. Infatti, non stabilendo una connessione tra fascisti e scrittori ritardatari non vogliamo assolutamente gettare sospetti o pronunciare giudizi sul comportamento politico di uomini che anzi nella maggior parte hanno fatto e continuano a fare pratica di antifascismo e hanno lottato e continuano a lottare per la libertà. Si tratta dunque di una connessione del tutto formale e per così dire di posizione: come le forze della resistenza si organizzarono contro il fascismo e questo aspramente combatterono, così la neoavanguardia italiana si trovò di fronte lo scrittore ritardato e contro di lui si rovesciò. Naturalmente anche la connessione tra resistenti e scrittori di avanguardia è puramente formale, in questo caso non fosse altro perché questi ultimi quando si combatteva la resistenza erano ancora bambini.

Conviene quindi ormai portare avanti il discorso fuori di ogni analogia giacché il peri ­colo di equivoco che essa comporta è stato interamente corso e sfruttato al massimo del vantaggio in esso implicito. E’ notorio come una tendenza controllata all’equivoco è espres ­samente da coltivare come possibilità di arric ­chire le dimensioni del discorso e di allargare, di là dai movimenti onestamente consentiti, le aperture dei significati. Così non siamo scontenti degli equivoci che abbiamo colla ­borato a creare, tuttavia ci rendiamo conto di non poter spingere più oltre il giuoco senza rischio d’impoverire e appiattire il nostro discorso. Ora parliamo più apertamente.

UN PROCESSO D’IMPOVERIMENTO

Il fatto è che stiamo assistendo a un proces ­so sempre più rapido d’inflazionamento della avanguardia, dovuto a intromissioni estranee, che hanno utilizzato in una prospettiva di puro profitto, e dunque disperso, il patrimonio di rivolta accumulato dall’avanguardia, e alla stessa avanguardia che, dopo un primo eroico periodo di chiarezza di fini e speditezza d’in ­terventi, ha cominciato recentemente a sof ­frire di una incertezza di movimenti accom ­pagnata dalla consapevolezza che gli strumenti e le tecniche fin qui usati risultano seriamente logorati e di incerta efficacia. Insomma, la neoavanguardia italiana, nei limiti delle inven ­zioni fino ad oggi messe a punto e delle pro ­spettive fin qui inseguite, avverte un indeboli ­mento fin troppo preoccupante del proprio potere di contestazione, cioè della propria fun ­zione di rottura di ogni forma di cristallizza ­zione dell’esperienza intellettuale e di solleci ­tazione e d’incitamento verso una scoperta o forse un uso della realtà come campo ine ­sauribile di sempre nuove verifiche, come possibilità di sempre nuove de ­cisioni e interventi. E qui dobbiamo fare una digressione che poi ci tornerà utile nel prosie ­guo del nostro discorso.

Ho l’impressione che ogni proposito di con ­testazione per quanto non possa che nascere in un ambito settoriale (si ha cosi la contesta ­zione portata dagli scrittori di avanguardia, la contestazione proclamata dagli studenti, quella di cui fan professione certe forze politiche, ecc.) si allarghi sempre e subito ad un intento più ampio, e anzi tanto più agisce oltre il bersaglio particolare che vuole colpire quanto più tiene ferma la mira a quel bersaglio particolare. La parola contestazione indica un valore nuovo che si definisce come tale nella misura in cui non si configura come semplice e generica opposizione, come intento di revisione o proposito di ristabilire all’interno di un ambito categoriale una situazione di equi ­librio, di giustizia. La contestazione è sempre e solo contestazione al sistema, è un rifiuto pronunciato nei riguardi del tutto e -â— non lo ripeteremo mai troppo â— proprio nella misura in cui meglio individua il suo proprio limitato bersaglio e per colpirlo allestisce le armi più idonee, proprio allora rivela le radici anarchiche del suo valore e la natura globale, stilizzante della sua protesta. Di qui, sulla base della descrizione sopra proposta, nascono due conseguenze: uno, l’impossibilità di ado ­perare questo concetto a sproposito e con leg ­gerezza (ciò che purtroppo oggi accade), giac ­ché questo concetto significa qualcosa di ben preciso e drammatico; due, la neoavanguardia italiana essendo sorta â— non vi è dubbio â— come funzione di contestazione, proprio nel momento in cui proclamava la sua assoluta indipendenza e l’autonomia dei suoi mezzi e dei suoi scopi finiva per scatenare una carica di energie che agiva al di là del contesto di origine, e anzi in questo contesto in tanto ri ­sultava vitalmente attiva in quanto agiva anche, e chissà forse soprattutto, oltre di esso. Così accadeva che la neoavanguardia italiana pro ­prio nel momento in cui metteva a punto una delle sue più vitali e non contestabili (né al ­lora né mai) invenzioni, e cioè che la lette ­ratura è la letteratura, cioè che la letteratura ha confini invalicabili e non ha nulla a che fare con ogni altra sorta di esperienza intellet ­tuale o pratica, dalla scienza alla politica, pro ­prio nel momento in cui proclamava « l’inutili ­tà » della letteratura, in questo momento pone ­va le basi di un discorso totale in cui erano implicite istanze, alle quali certo la letteratura non poteva rispondere, ma che si ponevano come bisogni irrimandabili, e in cui la inutilità della letteratura diventava socialmente utile.

IL DISCORSO DELLA LETTERATURA

La neoavanguardia italiana nacque come forza di contestazione. Caratteristica premi ­nente della contestazione (in assenza della quale è assente anche l’oggetto destinatario della qualificazione) è di porsi come globale. Sulla base di queste due affermazioni ci pare di poter sostenere che le incertezze che la neoavanguardia sta vivendo sono collegate alla crisi che ha investito quella funzione di con ­testazione nel cui segno l’avanguardia era nata: cioè la crisi che ha investito la letteratura come discorso totale tuttavia portato avanti attraverso un discorso particolare e speciali ­stico. Ora, alla letteratura non è rimasto che questo discorso particolare e di settore; ora cioè la letteratura, attraverso il discorso della letteratura, non può e non riesce a fare altro che il discorso della letteratura. Ecco, la let ­teratura di avanguardia compiendo il suo so ­lito gesto â— che è l’unico che sa fare, anzi l’unico che può fare e che passa attraverso la proclamazione dell’autonomia della lettera ­tura e della necessità della sua inutilità â— riu ­sciva a compiere (pur se la sua unica prospet ­tiva naturalmente era la realizzazione dei suoi fini particolari) un gesto più ampio che era un gesto di contestazione, di discorso totale. Oggi la funzione della contestazione è passata in altre mani. Come la neoavanguardia italia ­na l’aveva tolta o meglio ricevuta da alcune forze politiche e in particolare dal fronte della sinistra che fino allora l’aveva gestita e nel cui contesto si era logorata, così oggi quella funzione, non trovando una risposta sufficien ­te nel lavoro degli intellettuali di avanguardia, è tornata a farsi gestire da forze orientate verso l’azione che questa volta non saranno più e certo i partiti politici, ma sono le grandi voci della protesta internazionale, dal potere negro, alla rivolta del terzo mondo – cosi diversa dalle rivolte nazionali e d’indipendenza che sconvolsero l’Europa nell’800 e più oltre fino ai primi decenni nostro secolo â— ai grandi movimenti giovanili, con una drammaticità che non ha pari scoppiati in Europa, in Asia, in America, dove alimen ­tano fiumi di forze intatte e disposte all’attac ­co che avanzano precipitosamente discendendo da ogni parte, alla ricerca di una confluenza che ancora non conoscono.

In questo momento d’incertezza, voglio dire di vitalità ridotta, in cui la neoavanguardia italiana, pur continuando a fare il suo discorso di sempre (le cui caratteristiche sono â— non ci stancheremo mai di ripeterlo â— l’autono ­mia e l’autosufficienza), ne vede tuttavia sem ­pre più assottigliarsi le frange di risonanza, che cosa possono fare gli intellettuali italiani, quali reazioni approntare (sto parlando di quelli che hanno fin qui gestito la neoavan ­guardia e non degli altri che non m’interes ­sano e che mi fanno solo sorridere quando esultando gridano: l’avanguardia è finita!) sen ­za che queste reazioni comportino ulteriori guasti e rovine? Intanto devono guardarsi e, ove si mostrasse, prontamente sconfiggere ogni tentazione di abbandonare la letteratura. Si tratta di una tentazione infida giacché si mostra all’improvviso quando meno te l’aspet ­ti ed ha potenti armi di convinzione. Ti sban ­diera dinanzi agli occhi le lusinghe del teatro e soprattutto del cinema come i soli luoghi di espressione dove è possibile continuare a fare un discorso totale senza rinunciare u costruire un discorso particolare e autonomo. Non è vero: per il teatro non ho le idee chia ­re (a parte l’incontrovertibile verità che esso presenta un massimo d’equivocità proprio dove fa consistere la sua più tipica caratteri ­stica strutturale, dico il contatto diretto con il pubblico): ma per il cinema ne sono sicuro: non è in grado di costruire un discorso auto ­nomo: il cinema non parla mai se stesso: è sempre parlato da qualche cosa di altro: non è forse vero che quei grandi alti temi che paiono fatti apposta per fare colare a picco un romanzo (stiamo parlando dei grandi temi della guerra e della pace, della giustizia e dell’ingiustizia, della paura, del coraggio e del ­l’onestà) sono proprio quelli che all’incontra- rio fanno « riuscire » il cinema, mentre tutte le volte che il cinema, in uno sforzo d’imita ­zione della letteratura, si prova ad affrontare tematiche più astratte o comunque privilegia il momento strutturale e del linguaggio tuttalpiù riesce a fare della cattiva letteratura? Dun ­que, passare dalla letteratura al cinema non significa per niente scegliere un mezzo di espressione più idoneo ad un discorso totale, ma piuttosto scegliere di rinunciare ad espri ­mersi in termini di esteticità, scegliere di pro ­porre un discorso affatto precario cioè tale per cui la sua vitalità si manifesta e si esau ­risce con il consumo. Dunque prima regola: rimanere fedeli alla letteratura senza disde ­gnare magari (se volete) di coltivare accanto altri interessi, di votarsi nel contempo a pra ­tiche maggiormente connesse con l’azione ver ­so la quale pare la funzione di contestazione voler trasmigrare.

LE RIVE AL LARGO

Dunque, prima regola è rimanere fedeli alla letteratura, regola peraltro sulla quale sembra superfluo insistere visto che perlomeno per il momento qui in Italia (in Francia forse è diverso) non pare trovare tra gli intellettuali di avanguardia contraddittori di sorta. Tuttavia, nello stesso momento in cui il nostro scrittore di avanguardia sa che deve continuare a scri ­vere (cioè che la ricerca di una alternativa al suo impegno di scrittore è solo un tentativo di evasione), nel contempo scopre che non può farlo come lo aveva finora fatto giacché in ­tanto qualcosa è accaduto che ha provocato uno spostamento o comunque uno sfocamento degli obiettivi cui finora aveva mirato e un logoramento degli interessi (le poetiche) con cui finora aveva cercato di colpirli.

Volendo paragonare il cammino dell’avan ­guardia a quello di una nave che si scosta dalla riva e si spinge in alto mare e tenendo conto di quanto prima appurato e cioè che la neoavanguardia italiana nacque in primis e soprattutto come forza di contestazione, si può dire che nei suoi primi anni, cioè con le sue prime prove e impegni, per riuscire a costituirsi come « valore » le era sufficiente allontanarsi dalla riva. Ora tuttavia â— lo ab ­biamo visto â— la riva si è ulteriormente avvi ­cinata, si è spostata anch’essa in alto mare con tante misere zattere improvvisate e arran ­giate (stiamo parlando degli imitatori del ­l’avanguardia) che hanno approfittato dei gran ­di solchi e scoperte aperti dalla nave della neoavanguardia per fare rapide e irrespon ­sabili puntate verso significati e orizzonti che continuano a rimanere loro perfettamente estranei e ignoti secondo quella meccanica â— che è poi la caratteristica più propria della civiltà consumistica â— per cui conoscere non è la condizione per consumare, anzi si con ­suma ciò che non ci appartiene, ciò che non si sa.

Dunque raggiunto l’alto mare e peraltro nel contempo vistosi di nuovo stretto e assediato dalla riva lo scrittore di avanguardia accusa un momento di sbandamento. Che fare? In ­tanto vediamo quello che non deve fare (e che purtroppo, da alcuni indizi, pare tentato di fare). E cioè non deve assolutamente tornare indietro. Ci spieghiamo.

Scrive Renato Barilli intervenendo sulle nuove prospettive del romanzo che occorre « tornare ad affrontare decisamente l’inauten ­tico » e, più in particolare, che « una via d’uscita potrà essere intravista d’ora in poi nell’assunzione calcolata e consapevole del ro ­manzesco più trito e codificato ». Si tratta di indicazioni sommamente equivoche. Né è im ­portante che Barilli per fondare e meglio chia ­rire la sua proposta porti come esempio l’ope ­razione che Carmelo Bene ha fatto con « Cre ­dito italiano » in cui a suo dire (a dire del Barilli) la molla che muoverebbe il protago ­nista lungo tutto l’arco del romanzo sarebbe « il proposito di accettare l’azione nel suo ritmo esuberante e dispersivo, salvo a deviarla continuamente dalla sua rotta naturale ». E non è importante giacché Barilli con ciò o non vuole dire niente di nuovo riferendosi a una operazione che nell’ambito delle ricerche di avanguardia è in atto da sempre (si pensi ad Arbasino che non da oggi sull’esempio di Gadda costruisce i suoi romanzi pescando a più mani nel sacco dei materiali più sdati, dei contenuti più triti, tuttavia questi sottoponendo od un trattamento di ludibrio e d’irrisione, in conseguenza del quale quei materiali rica ­rica di una energia « autre » e li fa rotolare precipitosamente verso un effetto di pastiche ilare c sregolato). Oppure vuole dire come vuole dire qualcosa di nuovo. Ed è questo qualcosa di nuovo che ci preoccupa. In effetti Barilli allorché predica il ritorno all’inauten ­tico propone al limite un’operazione di re ­stauro, lancia un invito a rimettere in vita vecchie strutture romanzesche trascrivendole tuttavia qualche linea più su e più in là rispet ­to a quelle nelle quali originariamente si svol ­gevano. Propone cioè di costruire il nuovo ro ­manzo sulla base di un montaggio scorretto, cioè allineando fuori posto e in un ordine diverso quegli ingredienti che da sempre costi ­tuiscono il romanzo tradizionale. Che è come esercitare una pressione su una figura ela ­stica, con che ne provochiamo indubbiamente un rinnovamento dei tratti, che tuttavia non è niente meno che illusorio, giacché è altret ­tanto indubbio che non appena si venga a produrre un alleggerimento nella pressione eser ­citata quella figura immediatamente si rista ­bilisce sulla sua forma tradizionale e ori ­ginaria.

VIENE IL MOMENTO DELL’IMMERSIONE

Così ho proprio paura che dietro la propo ­sta di Barilli â— che peraltro non sembra essere una voce isolata â— si nasconda e si agiti lo spettro del neofigurativismo, del ritorno ad una narrativa di contenuti nel cui contesto questi ultimi non sono semplicemente una « manifestazione della forma » ma costitui ­scono un apporto aneddotico cioè estraneo e non pertinente che tuttavia finisce per essere decisivo per la costruzione del senso (cioè del ­l’opera). Si tratta di vecchie parole che â— e non da ieri â— non hanno più corso e che – lo abbiamo visto â— non riesci a rica ­ricare di vigore col semplice riscriverle oggi scorrettamente giacché rimangono sempre le stesse vecchie parole. (Ciò in cui consiste per esempio l’operazione di Vacchi, che nel campo della pittura è quello che realizza più fedel ­mente la proposta di Barilli, giacché in fondo la prospettiva dentro la quale Vacchi lavora è la costruzione di un quadro-racconto al cui significato collabora a pari titolo con gli in ­gredienti formali la dimensione aneddotica dei materiali impiegati). Per questa strada tutto il patrimonio di scoperte e d’invenzioni messe a punto dalla neoavanguardia e a cui lo stesso Barilli ha tanto collaborato, quella che è la sua più importante, anzi la vera e più deci ­siva scoperta della neoavanguardia italiana, e cioè che l’opera e quindi il suo significato è soprattutto, anzi in tutto e per tutto, la sua struttura, cioè che l’opera « significa » solo se stessa, si smarrisce e si disperde di colpo. E con essa il nostro lavoro di tanti anni. No, dobbiamo assolutamente sfuggire la analogia col marito adultero che con l’arrivo della vecchiaia ritorna nelle braccia della moglie o anche, se volete, l’analogia col marito che sus ­siegosamente si convince e afferma che lo adulterio è l’unico modo per tener vivo il rapporto con la propria legittima consorte. Questo marito è il vero difensore del matri ­monio, cioè è il vero e unico nemico di ogni tentativo di mettere in crisi la sacralità del ­l’istituto matrimoniale. Dunque guardiamoci dal tornare indietro. Sull’adulterio non ci fac ­ciamo affidamento più di tanto. L’adulterio non risolve il momento veramente controverso e non più sostenibile dell’istituto matrimoniale che è la sua indissolubilità e il suo essere un sacramento. Così è il ritorno all’inautentico, o, come anche Barilli dice, la riassunzione del romanzesco. Avremmo un bello sforzarci a realizzare questo ritorno nei termini più licen ­ziosi e liberi (secondo le indicazioni di Barilli) ma non servirebbe a niente. Non eviteremmo per questo di cadere in trappola. Allo stesso modo in cui con l’adulterio â— si sa â— non si evita il matrimonio.

Ma riprendiamo la nostra immagine mari ­nara. Abbiamo lasciato la nave dell’avanguar ­dia alle prese con un problema di rotta. Dove volgere la prua? Che fare? Intanto abbiamo visto ciò che deve evitare. Ora occorre accor ­darsi sulla scelta che può e deve fare.

Le soluzioni di cui dispone sono a mio av ­viso tre o, meglio, tre sulla carta e solo due in pratica. Consideriamole un po’ da vicino. La prima è spingersi ancora più al largo, verso spazi sempre più lontani e inesistenti. Natural ­mente questa soluzione prevede la necessità di tenere ancora per buono il criterio che uno dei modi o forse il modo supremo con cui la neoavanguardia realizza il proprio valore è allontanarsi dalla riva. Ma noi abbiamo visto che questo criterio era sostenibile fino a che alla neoavanguardia toccava il compito di ge ­stire una funzione di contestazione, quella fun ­zione la cui gestione oggi condivide â— lo abbiamo più sopra visto â— con altre forze ed istituti. Sicché allontanarsi ancora significa compiere uno sforzo inutile. Un atto vellei ­tario e non ripagato. Stiamo pensando a tutti quei romanzi â— e non so nemmeno se ce ne siano, e quanti, e, tanto per intenderci, uno forse potrebbe essere « Fughe » di Di Marco â— che si costruiscono per intero come protesta o, per meglio dire, come pura provocazione, attuando una sorta di poetica del contrario per cui tutti i segni vengono automaticamente rovesciati, gli oggetti inopinatamente infranti, gli indicatori di senso brutalmente interrotti. Questi romanzi, in una prospettiva in cui la neoavanguardia ha perduto â— lo abbiamo ap ­pena detto e lo ripetiamo â— la gestione della funzione contestativa, si configurano come ge ­sti che non hanno più un senso rilevante, come sforzi e impegni superflui, nel migliore dei casi proponendosi come esercizio d’impotenza, nel peggiore come esercizio di goliardia. La secon ­da soluzione è, ora che si è raggiunto il largo, metterci le radici. Dove prima era importante allontanarsi ora è il momento di costituirsi come stazione di partenza per una pratica di pesca in profondità. E’ il momento d’immer ­gersi. Che cosa significa? Intanto, che si tratta di una prospettiva quanto mai ardua all’in ­terno della quale fare lo scrittore diventa sempre più difficile. E’ in continuo aumento la richiesta di consapevolezza formale occor ­rente per affrontare il problema del fare romanzo. Esso nella misura in cui non si pone più e tanto come scoperta della realtà quanto e soprattutto come organismo linguistico e alla prospettiva della conoscenza ha sostituito quella della funzionalità, deve cercare la pro ­pria soluzione in un quadro più ampio in cui confluiscono gli apporti più eterogenei, pro ­venienti dai più vari settori di ricerche e di esperienze intellettuali e, in particolare, dalla scienza, protagonista di sempre nuove scoperte dello strutturalismo (inteso come metodologia della lingua) e dalle sue varie applicazioni nel campo dell’estetica e, più in generale, della poetica delle forme. Questa operazione è at ­tuata in Francia dagli scrittori e romanzieri raggruppati intorno alla rivista Tel Quel e in Italia soprattutto, anche se variamente, da Ba ­lestrini e Sanguineti. Naturalmente questa ope ­razione ha due limiti:

1) tende a svariare sul « carino », sul « grazioso », sul « decorativo » e, insomma, sul ­la pagina bella;

2) è un atto legato al talento di chi lo compie, cioè tale che per riuscire può fare conto soltanto sulle capacità individuali e dei singoli e per nulla su motivazioni di atmosfera e per così dire d’insieme che allorché esistono dànno anche a colui che ha poco talento la possibilità di esprimersi non inutilmente.

Ciò che accadeva nei primi tempi della nascita della neoavanguardia, quando esisteva di fatto un empito, una retorica di gruppo che aiutava anche i meno abbienti a proficuamente dare.

L’ALLEGRIA DEL LINGUAGGIO

Esiste infine una terza soluzione che a tutt’oggi è l’unica che offra garanzie di un lavoro comune, cioè di un lavoro personale protetto da un movimento di squadra, ovverosia di un lavoro personale che â— ferma restando la responsabilità diretta del singolo â— tuttavia si sviluppa in una direzione che si costituisce come prospettiva di gruppo.

Questa direzione è la letteratura umoristica intendendo per essa quell’operazione che tende ad alterare i termini del discorso spostandoli verso un non senso che tuttavia non intende costituirsi a sua volta come un nuovo senso ma piuttosto come denuncia della frigidità di ogni comportamento semanticamente corretto e, nel contempo, come messa in mostra ed evidenziazione dei puri meccanismi intellet ­tuali che tanto più potentemente agiscono, quanto meno strettamente si votano a cause troppo particolari di discorso. E’ in questa chiave che si deve intendere l’affermazione che compito della letteratura è tenere in funzione il linguaggio. Un romanzo sensato, cioè che si costruisca come un luogo semanticamente corretto, è un romanzo che ha sacrificato al senso il linguaggio. Che è come sacrificare la vita ad una impresa. Ora le imprese alle quali si può sacrificare la vita sono veramente po ­chissime e soprattutto, nella loro infinita no ­biltà, rispondono a un giuoco di domande vo ­glio dire a una meccanica di tipo decisamente utilitaristico che non è quella che presiede e nel cui ambito si compie l’operazione lette ­raria. In essa, incapace come è (se volete di ­sgraziatamente) di essere utile, non vi è posto per nessuna ragione e motivo che consenta e giustifichi il sacrificio del linguaggio. In let ­teratura il sacrificio del linguaggio è semplice ­mente e solamente il sacrificio della letteratura.

Obiettivo della letteratura umoristica è l’al ­legria del linguaggio, celebrata a spese di ogni perentorietà di discorso, il cui impianto attra ­verso la provocazione dell’assurdo o in qual ­siasi altro modo sottoposto a spinte e pressioni incontenibili, esplode e scoppia, liberando una carica di dolce masochismo, cioè di violenza contro se stesso, automaticamente rigenerantesi.

Così ritornando alla nostra immagine mari ­nara possiamo dire che mentre la prima solu ­zione è â— come si è visto â— allontanarsi ulte ­riormente, la seconda fermarsi per fare il nido, la terza è fingere di allontanarsi per poi ritor ­nare e quindi di nuovo ripartire in un giuoco di girotondo o comunque di peregrinazione a sorpresa che spiazzi continuamente le aspet ­tative e le attese e getti confusione e dispera ­zione tra i funesti zatteroni che si sono impu ­nemente avvicinati in un inutile sforzo d’imi ­tazione e di scimmiottatura di modi, imprese e avventure il cui senso e la cui reale capacità di compierle sfugge totalmente alle loro possi ­bilità e comprensione. Questa terza soluzio ­ne â— voglio dire la letteratura per così dire umoristica â— presenta qualche vantaggio. In ­fatti pare poter essere praticata più facilmente giacché in questo caso, tenendo ferma l’imma ­gine della navigazione, per procedere è suffi ­ciente saper accendere i motori, la strada o la rotta non essendo da cercare, essendo essa dap ­pertutto intorno e da ogni parte.

Tuttavia, proprio perché la navigazione è più facile, è anche più difficile metterne a punto una eccitante giustificazione formale, cioè il tipo di impegno cui questa terza solu ­zione costringe richiede un’arguzia d’immagi ­nazione, una sottigliezza intellettuale, un em ­pito umorale oltremodo raffinato e vigoroso che nello scrittore italiano da sempre e quasi per natura (cioè diciamo anche nel migliore scrittore italiano) ha fatto difetto: sic ­ché questo spiega perché oggi la letteratura umoristica mentre vanta i quadri più ricchi (Malerba, Guerra, Frassineti, Manganelli, Cal ­vino, Parise, Volponi, Bene, Landolfi, Spatola, ecc.) non sempre riesce a fornire i risultati più alti. Comunque sia, quello che si può dire è che la letteratura umoristica è oggi l’unica possibilità di fare letteratura se per letteratura non si intende il singolo scrittore isolato ma una possibilità comune di scrittura e una co ­munità d’intenti e di obiettivi e quindi impli ­citamente una possibilità di scuola o di futuro. Al contrario, la letteratura che nasce nel ­l’ambito della seconda soluzione è una lette ­ratura che forse ha dato e potrà dare qualche risultato più alto ma è un gesto solitario legato esclusivamente all’alea del talento di chi la pratica: è una specie di linea di resistenza, di difesa avanzata destinata a morire perché il                 grosso delle truppe (la letteratura umoristica) si metta in salvo e si stabilisca su posizioni più salde e durature. E dove soprattutto C possibile una vita in comune. Clic è la con dizione preliminare della vita tout court. Che è cioè ancora stabilire delle condizioni protettive per cui la sopravvivenza non è prerogativa di pochi ma è un diritto di tutti.


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Bart