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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #8/10

4 Gennaio 2018

di Eugenio Montale
[dal “Corriere della Sera”, domenica 22 febbraio 1970]

Nel Novecento pubblicato da Garzanti il teatro ha la parte della Cenerentola. Un intero capitolo è dedicato a Pirandello e l’acutissimo in ­terprete è Giovanni Macchia. Tutti gli autori di teatro che sono venuti dopo appaiono raggruppati in una nota che occupa mezza pagina; e non è detto che proprio tutti me ­ritassero tanto onore. La ri ­vista Il dramma (ed è spiega ­bile data la sfera dei suoi in ­teressi) se ne lamenta; ma non sfugge a Enrico Falqui che il teatro è pressoché assente in quasi tutti i « manuali » sino ­ra pubblicati in Italia. Chi vuol saperne di più deve cer ­care libri di specialisti, e non ne mancano anche se ispirano limitata fiducia. I loro auto ­ri (non tutti) hanno passato la vita ad assistere a « prime rappresentazioni », ne hanno scritto sui loro giornali e poi hanno raccolto in più volumi i loro rendiconti. Così hanno fatto Marco Praga e Renato Simoni in libri oggi poco con ­sultati. Forse non era teatrologo di mestiere il quasi di ­menticato Tonelli, autore di un panorama del teatro ita ­liano moderno che si arresta al primo decennio del seco ­lo; né si può dimenticare quanto ha fatto in modo più organico Silvio d’Amico. Tut ­tavia siamo sempre allo stes ­so punto: il teatro stenta a entrare nel dominio della let ­teratura.

Stenta anche fuori d’Italia: non credo che molti francesi leggano le cronache del Sarcey. Nei nostri manuali sco ­lastici i nomi sono due o tre: Goldoni e Alfieri, forse Metastasio se vi si parla del me ­lodramma di corte. I grandi poeti hanno lasciato qualche tragedia: Foscolo, Manzoni. Se ne discorre parcamente nei capitoli a loro assegna ­ti. I critici che non sono « drammatici » professional ­mente hanno fatto qualche in ­cursione nel recinto proibito: Croce ha amato Schiller, Ibsen e Becque, non il bellis ­simo teatro di Kleist. L’Ibsen di Slataper resta una sorpre ­sa, ma Serra, Cecchi ed altri hanno trascurato il teatro. Go ­betti, morto giovanissimo, fece in tempo ad accorgersi di Pea e Lodovici, dei quali fu anche editore. Ma gli ammiratori di Pea (siamo rimasti in pochi) non sono uomini di teatro e trascurano Rosa di Sion e Pri ­me piogge.

Nelle storie delle moderne letterature straniere si notano analoghe dimenticanze. Nel mirabile libro del principe Mirskij le commedie dei gran ­di narratori russi sono più nominate che discusse e si rileva con sorpresa il successo europeo del teatro di Cecov. Addirittura nel cestino sono buttate commedie che in Ita ­lia e altrove hanno trovato consensi di pubblico e di cri ­tica. Tutto è diverso nei pae ­si che possono vantare un siècle d’or della tragedia: In ­ghilterra, Spagna, Francia. Ma il secolo d’oro del teatro ita ­liano è venuto più tardi ed è stato il melodramma roman ­tico. Le tragedie (è un’osser ­vazione tutt’altro che peregri ­na) sono come i funghi: do ­ve ce n’è una ne troverete al ­tre. Leggendo il teatro elisa ­bettiano ci si rende conto che accanto a Shakespeare hanno lavorato uomini di talento po ­co inferiore al suo. Il teatro di stile, il teatro che trae ali ­mento da una secolare retori ­ca, trionfa quando altri ge ­neri letterari (scoperti e co ­dificati più tardi) sonnecchia ­no o attendono di nascere. I grandi tragedi non hanno co ­nosciuto il problema dell’ori ­ginalità e non si sono preoc ­cupati di usare un linguaggio accessibile a tutti. I grandi inglesi, lasciando a mestie ­ranti gli intermezzi buffone ­schi dei loro lavori, non si so ­no mai abbassati al gusto di un quasi inesistente « pubbli ­co », anzi hanno tentato di al ­zarsi ai più alti livelli dell’espressione. Il pubblico è probabilmente un’invenzione moderna, è il prodotto di un tempo che tutela i diritti d’au ­tore ma è indifferente al va ­lore degli artefatti.

Non è dunque probabile che esista una congiura mondiale per scacciare il teatro dall’or ­to concluso della letteratura. In quell’orto, che poteva es ­sere un’arena o un’agorà tragici greci erano entrati da padroni. Ma oggi tutto è di ­verso, i tragedi sono diventati « autori », associati, consorziati, e l’arte teatrale ha interessi non diversi da quelli di al ­tre arti più agibili, più « con ­correnziali ». Il teatro è diventato puro spettacolo, ma esistono mezzi spettacolari (la vita stessa) molto più efficaci e infinitamente meno dispendiosi.

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Che il futuro debba essere ineluttabilmente, migliore del passato e del presente è una opinione che ha attraversato indenne l’illuminismo, il posi ­tivismo, lo storicismo ideali stico e il marxismo. Il suo ve ­ro significato fa ricordare la storiella dell’uomo che cadde da un’impalcatura e si rialzò dicendo: Be’, tanto dovevo scenderne. Il peggio si risol ­verebbe sempre nel meglio? La storia non lo dimostra; le storie delle infinite manipola ­zioni umane, sì. L’uomo fa molte più cose di prima; ma ­ ch’egli sappia di più è alta ­mente opinabile. Il sapere ch’era una volta il patrimonio delle Universitates medievali è uscito fuori da quegli studi, ne è uscito dalla Controrifor ­ma in poi e le università d’og ­gi dovrebbero decidersi a dar ­si un altro nome. Questa la tesi che Pietro Piovani illu ­stra in un piccolo libro: Mor ­te (e trasfigurazione?) del ­l’Università (Guida Editori, Napoli).

Piovani è titolare della cat ­tedra di filosofia morale del ­l’università partenopea, dirige un’importante collezione di li ­bri filosofici e il suo penulti ­mo libro Conoscenza storica e coscienza morale (ed. Mora ­no) fa pensare che posto al bivio tra la teleologia trionfa ­listica dello Spirito e le teur ­gie della Catastrofe egli stia fermo al problema dell’indivi ­duo. Come lo risolva è affar suo; anzi è molto probabile ch’egli non pensi neppure al ­la possibilità di risolverlo. La filosofia per lui è ricerca, ma una ricerca che si pietrifichi in un concetto sarebbe la fine nonché del pensiero, del mon ­do stesso.

Al mondo invece, e al mon ­do della scuola in cui egli vi ­ve, Piovani guarda con estre ­mo interesse. La sclerosi delle istituzioni universitarie, impo ­tenti fin dal giorno in cui scuola e cultura cessarono di essere sinonimi, è da lui ana ­lizzata nel modo più persua ­sivo. Ma egli non è un fana ­tico del « tanto peggio tanto meglio », non crede che la di ­struzione sia di per sé un fat ­to positivo. Accetta come fa ­tale la morte delle università ma non pensa che una nuova cultura possa rinascere come un fungo dalle rovine della scuola di ieri. Le infinite ra ­mificazioni della Scienza (di ­vinità cui egli rende un giu ­sto ma prudente omaggio) po ­tranno trasformare le scuole in modo oggi poco prevedi ­bile. Tuttavia, una volta che milioni o miliardi di uomini siano provvisti del famoso pez ­zo di carta che renda possibi ­le la così detta elevazione dei diseredati, non per questo po ­trà morire la cultura inutile, la cultura vera, che non sarà più totalizzante ma compren ­siva, umana, non meccanica e utilitaria. Come e quando que ­sto possa avvenire il filosofo non dice, né lo potrebbe. Ma alla scuola di tutti i giorni, alla scuola per tutti egli guar ­da con una preoccupazione che mi sembra giusta. Dove troveremo i maestri, anzi egli dice i missionari, da preporre all’insegnamento di base, quel ­lo che sarà offerto a moltitu ­dini sinora tenute fuori da ogni istruzione? In modo più crudo â— e qui mi sovrappon ­go al Piovani â— come evita ­re che il posto, l’impiego di insegnante (il meno appetibi ­le dai giovani più dotati) ca ­da in mano agli incapaci, agli sprovveduti, agli analfabeti di ritorno che già oggi sono fol ­la, sono massa?

La mia opinione personale è che questo pericolo non sarà evitato. Per fortuna è quasi certo che cultura e scuola con ­tinueranno a correre su bina ­ri non destinati a incontrarsi.

*

In questi tempi di travesti ­menti e truccature d’ogni ge ­nere il travesti teatrale sta passando un brutto quarto d’ora. Non so spiegarmene le ragioni. Io non ho mai vedu ­to lo « spartito » del Boccac ­cio di Franz von Suppé ma sono convinto che in esso la parte dell’autore del Decame ­ron sia prevista e scritta per voce di contralto. Quando ascoltai il Boccaccio (sono pas ­sati più di cinquant’anni) una donna, Jole Baroni, trionfava in questo ruolo. Ma a Firenze, pochi giorni or sono, Boccac ­cio abbandona il travesti e si presenta come tenore. Non è un fatto nuovo: qui alla Sca ­la abbiamo visto nel Faust di Gounod che il giovinetto Siebel (mezzo soprano o contral ­to) si trasforma in tenore. Po ­co danno perché la parte è insignificante.

Riccardo Strauss e l’ultimo grande poeta che abbia ama ­to e compreso il melodramma, Hugo von Hofmannsthal, det ­tero vesti maschili e voce di contralto al meraviglioso per ­sonaggio di Ottavio, nel Ca ­valiere della rosa. E per for ­tuna qui non sembrano possi ­bili sostituzioni. Che cosa si può pensare dell’avversione dei teatranti al travesti? Non credo che uno scrupolo di ve ­rosimiglianza possa essere giu ­stificabile. Il melodramma è il regno dell’assurdo. E non si dica che mancano le voci adatte. Non occorrono grandi voci per il Boccaccio. La ve ­rità è che solo direttori e musi ­cisti di venerabile età potrebbero assicurare una certa so ­pravvivenza alle operette che deliziarono i nostri padri. La TV italiana si cimentò con la Vedova allegra (1905) e la scelta degli artisti fu disastro ­sa. Boccaccio è del 1879, po ­steriore di undici anni al Mefistofele di Boito; segno che fino a quel tempo l’opera se ­ria e l’operetta potevano coe ­sistere in pace. Quanto al Sup ­pé, non so se potrà più inte ­ressare. Nato a Spalato, stu ­dente a Padova, dapprima me ­dico, poi musicista, non giun ­se mai a parlare correttamen ­te il tedesco. Modesto racimolo della grande civiltà asburgica, egli parla un linguaggio che al nostro duro orecchio può sembrare futile. È tutta colpa sua?

 

 


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart