I racconti del dottore: Corte Voltaccia

di Dino La Selva

[Da “San Concordio Cronache e figure” Ed. Maria Pacini Fazzi 1997]

Sarà morto ormai da trent’anni. Chi lo ricorda più il vecchio Cantoni? L’ultima volta che lo vidi fu una sera di giugno mentre guidava lungo il Viale San Concordio un baroccio stracarico di fieno.

Era una scena d’altri tempi. Lui, un secchione dai baffi bianchi spioventi e il cappello nero gualcito tirato indietro sulla nuca, camminava avanti tranquillo tenendo il cavallo per la cavezza; sul carro il nipotino più piccolo, di cinque o sei anni, sedeva un po’ spaurito in cima a quella montagna di fieno; dietro, una lunga fila di automobili procedeva pazientemente a passo d’uomo. Qualche giovanotto e qualche ragazza, passando in bicicletta, strappavano un filo, una manciatina dal carico perché “portava bono.” Finalmente il carro svoltò in una stradina laterale e scomparve.
    La casa dei Cantoni è distante pochi metri da Viale San Concordio, alla Voltaccia. Dal Viale, transitato e rumoroso in ogni ora del giorno, si gira a sinistra su un ponticello che scavalca il fossato, ci s’infila sotto un basso e buio voltone e  si sbuca improvvisamente in un’erbosa e silenziosa corte di campagna. I rumori vi giungono lontani, ovattati; sembra un altro mondo. La casa dei Cantoni è quella là in fondo, di pietra non intonacata, con un ciuffo di gigli rossi accanto alla soglia consunta, l’anello di arenaria per legare il cavallo grossolanamente scolpito e consumato dall’uso e quei ferri sporgenti dal muro tutti in fila all’altezza del primo piano servivano per appendere serte di pannocchie di granturco lunghe fino a terra che avrebbero nutrito la famiglia durante l’inverno. “Per tanti anni questi ferri li ho riempiti tutti io. Con le mi’ mano!!…”, esclamava a volte la vedova del    Centoni mostrandomi le braccia e le grandi mani nodose aperte. E c’era da crederle. Era una vecchia magra, ossuta, vestita di nero, dagli occhi grigi, accorti, carichi di una volontà indomabile. Le braccia erano bianche, forti, con vene sporgenti   grosse quanto un mignolo. Doveva essere stata una bella donna. Aveva capelli bianchi lunghi e folti raccolti a crocchia dietro la nuca; quando li scioglieva una cascata d’argento le si riversava sulle spalle. Quando rammentava “il su’ omo” la voce le vibrava di reverenza, d’ammirazione e d’orgoglio.
   Un portoncino verde piuttosto malandato dà accesso ad una grande stanza dal pavimento di mattoni e dal soffitto a travicelli, dai quali pende qualche serta di pomodoro e di aglio e qualche ventresca di maiale impolverata. Per terra, dei cesti di paglia capovolti e qualche gallina che passeggia distratta fermandosi ogni tanto a fissarti con aria pensierosa o a grattarsi un orecchio con la zampa. Un’altra porta tutta spifferi viene aperta, ed ecco che il tuffo nel passato, il viaggio a ritroso nel tempo è completo: un’ampia, immensa cucina patriarcale annerita dal fumo appare ai nostri occhi attoniti. Nel centro della stanza un grande tavolo quadrato circondato da solide poltroncine di legno; lungo le pareti, nell’ordine: la credenza con la vetrina dove sono in esposizione i piatti e i bicchieri buoni, l’arcile (la madia, dove s’impasta il pane), un altro stipo chiuso, l’acquaio scavato in un macigno di pietra grigia sormontato dalla rastrelliera con le padelle e le pentole di rame, la grande cappa del camino sotto la quale un focherello parsimoniosamente e sapientemente alimentato fa borbottare il paiolino della cena. E’ un salto indietro nel tempo di almeno cento anni! Unica concessione alla modernità, sotto l’acquaio di pietra una pompa a motore nuova di zecca ha sostituito la vecchia pompa a mano per tirare su l’acqua…  Ah! Dimenticavo. In un angolo, ormai in disuso, un grande coppo di terracotta, spesso tre dita, decorato a intagli e con un beccuccio nella parte inferiore. “Serviva per fare il bucato – mi spiega la figlia Letizia – Sarà duecent’anni che è in casa nostra! La mi’ mamma   ci faceva il bucato con la cenere e la lisciva. E vedesse come veniva bello. Profumato! E bianco, ma così bianco che non si può dare a intendere! Altro che Ava e Dixan!” Anche lì sul mattonato della cucina poteva capitare d’imbattersi in una gallina peripatetica, e qualche volta addirittura in una “nanina” seguita dalla sua covata di “pitorini”(pulcini irrequieti e pigolanti). “Si è messa a covare sotto una cesta senza che ce ne accorgessimo – si scusa la figlia un po’ mortificata  -, ed ora ecco che non vuol più andarsene, come fosse a casa sua!”

   

Le galline del resto sono sotto la diretta cura e protezione dell’accorta e parsimoniosa “materfamilias”. Una volta la trovai seduta mentre teneva sulle ginocchia una “nanina” e l’accarezzava dolcemente come fosse un gatto. E come ci stava la gallinella, tutta seria e impettita, a farsi coccolare, orgogliosa delle attenzioni e dell’affetto della sua padrona! Al momento poi di disobbligarsi della visita: “Letizia! Dànni un po’ d’ova al Signor Dottore!” E poi, rivolta a me: “Sentirà che ova son queste, che sapore! Ci hanno la pallina rossa, non bianca slavata come quelle d’allevamento, che gli danno la miscela e sono una porcheria! Io alle mi’ galline ci do la roba bona, il granturco del mio! Me le vengono a chiedere tutti, le mi’ ova!” Prendevo il sacchetto di plastica e andavo via ringraziando, altrimenti   mi avrebbe continuato a lodare le sue uova ancora per mezz’ora.
    Morì a 94 anni per complicanze di coliche epatiche, alle quali penso non fu estraneo il dispiacere e la rabbia nel vedersi espropriare dal Comune i vasti campi attorno alla sua abitazione. Senza quei campi era come una pianta alla quale avessero tagliato le radici.
      Da alcuni mesi il portoncino di legno malandato è stato sostituito da una porta di metallo anodizzato; la facciata di pietre grezze è stata “scialbata”; i ferri sporgenti dal muro per appendere il granturco sono scomparsi, come pure il consunto anello di pietra a fianco alla porta e la pianta di gigli rossi. La costruzione è diventata una normale casa di corte “rifatta”.
    E’ rimasta solo, come un gioiello segreto, l’affumicata cucina patriarcale, degna di un museo della civiltà contadina, che mi auguro resti così ancora a lungo, almeno finché vivrà la figlia Letizia, la     fedele vestale della casa.

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Commenti

Una risposta a “I racconti del dottore: Corte Voltaccia”

  1. Avatar Walter

    Erg. Dr.   Dino La Selva,

    Ho con piacere ed emozione letto l’articolo su ” corte la Voltaccia. La Sua Cronaca, mi ha riportato indietro negli   anni ’50. Infatti, mio padre Antonio Francesconi affitto’ l’appartamento nell’edifico con il numero civico 70, che era all’ultimo piano del medesimo e che sovrasta appunto la Voltaccia. Ho vissuto in quell’appartamento assieme a mia madre Ielva ed i miei nonni paterni Luisa e Lorenzo. In casa Centoni andavo ogni sera a prendere il latte appena munto nella stalla dei Cantoni. Ricordo la loro casa perfettamente ed e’ sempre rimasta nella mia mente. Come puo’ un bambino dimenticare quel mondo fantastico!! Ricordo la grande tavola della cucina che si riempiva all’ora di pranzo dei contadini che rientravano dai campi. Il pentolone sul fuoco e la Letizia con la mamma che preparavano il semplice pasto che rienpiva l’ambiente di un buonissomo odore. Nel grande ingresso con il pavimento in mattoni rossi ho passato indimenticabile serate a sfogliare il granturco. Nel suo racconto non parla di Mario, il figlio con un grave problema di salute, che era parte integrante di quella grande Famiglia.

    Ora io vivo, da circa 10 anni, molto lontano in California a La jolla per svolgere la mia attivita’ di neuroscienziato, dopo aver lasciato l’Universita’ di Pisa.

    Puo’ ben immaginare quando diverso e’ il mondo attorno a me in confronto a quello vissuto per circa 14 anni in corte della Voltaccia.

    La ringrazio per la Sua Cronaca e spero di poterla incontrare a Lucca durante la mia venuta in questo mese di Luglio.

    Cordialmente,

    Walter Francesconi