Letteratura: Il mondo deve sapere, di Michela Murgia (e il film Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì)
23 Aprile 2008
di Paolo Cacciolati
[Paolo Cacciolati, nato il quattro dicembre di una quarantina d’anni fa, vive in Piemonte e lavora per una grande azienda. Ha vinto vari concorsi di narrativa e ha pubblicato racconti su riviste letterarie e sul sito Nazione Indiana. Nel 2006 ha pubblicato con Fandango un racconto per la raccolta “Una palla di racconto”. Collabora con il sito Vibrissebollettino, pubblicando recensioni in Bottega di Lettura ed è redattore del sito Lapoesiaelospirito.
E’ in uscita il suo primo romanzo, Mirco Michichi, generatore di entusiasmo, per le Edizioni TEA, collana Neon!]
L’effetto di un’antilope che improvvisamente ti attraversa la strada intanto che guidi distratto dalle fioriture umane della primavera.
E’ più o meno così che si è proposto alla mia attenzione il confronto tra il romanzo Il mondo deve sapere e il film Tutta la vita davanti.
Perchè mi interessa tanto? E’ solo per capire come da un buon libro sul lavoro (anche ma non solo precario) si sia arrivati a un ottimo film?
No, qui la faccenda che più mi intriga è che c’è una sorta di inversione di ruolo, quasi uno scambio di formato tra le due opere.
Il libro ha molto del documentario, se non erro è originato dai post scritti dall’autrice sul suo blog, racchiude un orizzonte fatto di flash e visioni concentrate sul microcosmo truffaldino della società K., la famigerata azienda che propina similfolletti, società per la quale la protagonista ha avuto la fantastica opportunità di lavorare.
Nel film c’è molto più “romanzo”, c’è intreccio e sviluppo delle vicende personali dei protagonisti. Insomma, c’è più storia nel film, è più romanzo il film del libro.
Il mondo deve sapere più che un romanzo pare uno scorcio di autobiografia romanzata, ma da non confondersi con l’autofiction, termine introdotto nel 1977 da Serge Doubrovsky e che ormai identifica un “genere serbatoio” per le narrazioni dove l’esperienza stessa dell’autore diventa finzione.
E’ evidente che anche con questo libro si è alle prese con una trasversalità di generi e di formati, una via su cui sembra marciare compatta buona parte dell’ultima leva dei nostri narratori, trasversalità che ha fatto storcere il naso a più di un critico nostalgico del romanzo tradizionale.
Per dimostrarlo, potrei prenderla alla lontana, per esempio partire dal pregnante dibattito sviluppatosi recentemente sulle nuove tendenze della letteratura nostrana, innescato da un’intervista a Pietro Grossi su Tuttolibri e in particolare da una frase dove il giovin scrittore confessava di essersi formato ANCHE grazie ai “librogame”, motto che estrapolato arditamente dal contesto ha dato il via a una panna montata di considerazioni sulle strade battute dai nostri narratori contemporanei, i quali non sarebbero più in grado di confezionare un romanzo secondo i canoni classici,
e giù con Giorgio De Rienzo, che sulle pagine de Il Corriere della Sera di sabato 19 gennaio 2008 dice: “… nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario..”,
e vai con Nico Orengo che dalle colonne della Stampa aggiunge, lì 26 gennaio: Letteratura addio, non si fa nuova narrazione con la scrittura degli scrittori ma con quella pop, di rete, di blog, di libri-game e canzoni. Ma no, son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento. Il «canone » non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo…”
Potrei, ma ho pietà dell’eventuale lettore.
Così, in luogo di muovere dalle suddette calende paracritiche, mi limito a dire che l’annullamento della forma romanzo in senso tradizionale è qui accertabile da una serie di semplici e concreti elementi.
A partire dalla protagonista del libro, che non esiste come persona fuori dalla K., di lei si sa solo che si chiama Camilla e che ha un amica di nome Silvia. Camilla esiste solo in quanto addetta al call center, la sua vita inizia e finisce con quel ruolo, non esiste altro al di fuori di quello.
Al lettore non viene fornito alcun elemento sulla sua vita privata, c’è solo il suo lavoro alla K. ed è un metodo che centra in pieno l’obiettivo dell’annullamento della vicenda personale in favore della sua vita lavorativa.
Altro elemento: coerentemente con la materia del libro, l’autrice adotta una sorta di linguaggio radiofonico, veloce, sarcastico. Il tono è quello del reportage, da mid cult, per mantenere aderenza all’ambiente descritto, costituito dalle ragazze costrette a prostituirsi telefonicamente in cambio di una farsa di stipendio, e dai tanti pescetti e pescecani che popolano l’acquario della k.
Non c’è dubbio che Il mondo deve sapere, del romanzo inteso in senso tradizionale, conserva solo la dicitura sulla prima di copertina.
Questo non significa che non meriti, anzi, si inserisce a pieno diritto nel filone degli ultimi anni emerso nella narrativa italiana che affronta il mondo del lavoro, utilizzando nuove strutture ibride, a metà tra inchiesta, diario e narrazione destrutturata. Un esempio? Pausa Caffè di Giorgio Falco.
La confezione del libro è agile, leggera (in effetti dubito che ne possano esistere di agili ma pesanti), con un solo difetto: quello che c’è scritto sulla sovracopertina.
In prima: quando Bridget Jones incontra Naomi Klein.
In quarta. Irresistibile come una sitcom. Coinvolgente come un romanzo. Vero come un’inchiesta.
Una teoria di aggettivi e di paragoni sufficiente a far allontanare il lettore avveduto.
E invece il lettore avveduto fa bene a ignorare questi acchiappapolli e addentrarsi nel testo, dove sarà subito catapultato nel cuore della vicenda.
La protagonista è al primo giorno di lavoro nel call center della famigerata società K. Da qui inizia la discesa agli inferi di questa novella telefottitrice di casalinghe, le prede privilegiate per piazzare il fantasmagorico aspirapolvere della K.
C’è una spassosa serie di termini e di neologismi coniati dalla Murgia . “Telefucker” per telefonista. “Shark” per venditore (anzi, alla K si chiamano consulenti informativi). “Carne da massaia” per le aspiranti teleseller. E sono rappresentate situazioni tragicomiche capaci di strappare più di un sorriso (amaro).
I gestori della K., a partire dalla patetica coordinatrice, detta Hermann, fino al megadirettore, BillGheiz, sono descritti nelle loro manie con la precisione di un entomologo.
Il libro è strutturato in agili capitoletti, ognuno dei quali affronta un sistema della telefottitura in K., dai metodi per non mollare la preda al telefono ai mezzucci per avere più nominativi possibili, dai sistemi per umiliare i venditori sotto budget, a quelli per umiliare le telefoniste improduttive, fino alle rappresentazione da avanspettacolo della dimostrazione/vendita in casa della sventurata di turno.
L’obiettivo di Michela Murgia è quindi la denuncia dell’azienda e dei suoi metodi. La vicenda personale, ripeto, non esiste, perchè volutamente sul privato è stato completamente sovrapposto il suo ruolo di telefottitrice.
E’ logica e ben riuscita la scelta del formato diario, che consente di tener agganciata la narrazione al suo bersaglio, attaccando capitolo per capitolo tutte le psicopatostrutture della K.
Nonostante ciò, dubito che il libro sia stato letto da molte casalinghe più o meno disperate, per capire come non farsi fottere, certo avrà avuto più successo tra giovani precari/e il cui ultimo pensiero è quello di acquistare un aspirapolvere al modico prezzo di tremila e passa euro.
Comunque, più che un libro sul precariato è un saggio sul mondo del prodotto K. Nel libro il precariato è presente poco o punto, forse solo come molla da cui parte la narrazione. Il “target”, come direbbe la feroce responsabile delle telefoniste, è l’azienda K.
Deh, qualche riferimento al precariato ogni tanto compare. Ad esempio, verso la fine, si dice:
Qualcuno mi fa :”E’ una storia davvero esemplare sul lavoro giovanile. Perché è terribile dover lavorare così, senza nessuna certezza professionale, con l’etichetta di precario perennemente addosso…”.
Sorrido e fingo di assentire, ma dentro di me penso che il precariato in questa situazione è la sola cosa che mi dia speranza. L’idea di fare la telefonista alla K. In maniera stabile è una prospettiva da reparto psichiatrico. L’unico pensiero positivo in questa situazione è che è instabile e transitoria….
Ora, Il film di Virzì.
E’ fedele, fedelissimo al libro, nel riprodurre l’ambiente della società, le dinamiche all’interno del gruppo delle telefoniste, il rapporto con la loro coordinatrice e il direttore, le tecniche di accalappio al telefono, lo squallore delle riunioni motivazionali, i trucchetti da luna park dei venditori.
Ma su tutto ciò viene innestata in modo brillante la vicenda personale della protagonista, intorno alla quale ruotano le storie dei comprimari.
In questo senso il film, molto più del libro, è romanzo, assolve al compito di raccontarci una storia che al testo scritto è vietato, in quanto porterebbe il lettore lontano dal cuore della vicenda che vuole essere la denuncia della società K.
Il film invece se lo può permettere, mantiene saldo il fuoco sulla denuncia, ma al tempo stesso apre l’obiettivo sulle storie private. Si dirà che è una scelta quasi obbligata, per non trasformare la pellicola in un documentario, io però dico che Virzì è stato molto bravo e lucido a percorrere questa via “obbligata”.
Così la storia di Camilla diventa la storia di Marta – interpretata da Isabella Ragonese – neo-laureata a pieni voti in filosofia che si ritrova pedina di un call center gestito da una vera “schiava del potere” – Sabrina Ferilli – capace di tutto per affermare la sua posizione dominante.
La mancanza di altre prospettive di lavoro è aggravata dal confronto con gli ex compagni di università che, abbandonati gli studi, ma dotati delle conoscenze giuste, avranno molte più chance della sconcertata protagonista.
Il metodo utilizzato da Virzì è quello del narratore esterno (qui affidato a Laura Morante). Il narratore prima è extradiegetico, narra la situazione generale, ambienta la storia, punta sulla protagonista, colta nel momento di successo della laurea, allarga alla situazione familiare, la madre a Palermo che combatte contro il cancro, poi la voce sommessa di Laura Morante si concentra sempre più sulle difficoltà della neo laureata, le vicende personali, e poi la ricerca di un lavoro, attuando un meccanismo di passaggio all’intradiegetico.
La soluzione del narratore esterno non mi hai fatto impazzire, ma qui funziona bene, non è invadente, dopo l’introduzione si ritira per consentire la messa in scena della vicenda, salvo poi affiorare a tratti come voce alter ego della protagonista.
Quanto agli attori, Valerio Mastandrea è bravo nella parte del sindacalista Conforti (un nome, un destino) che prova a portare i diritti nel call center, ed è consolante che la leva nostrana di giovani attori presenti qualche eccezione rispetto agli imperanti scamarciocloni. Si cala bene nella parte del finto idealista, così finto da sembrare sincero nel suo attivismo, anche quando è impegnato a far carriera nel sindacato e a baccagliare la protagonista prima, la sua coinquilina poi, tanto la moglie sta a buona a casina ad accudire il pargoletto.
Massimo Ghini è bravissimo, lui è il BillGheiz, il dirigente della consociata italiana della K, lui non ha bisogno di recitare la parte del finto buono, lui è lo squalo che naturalmente si scopre pronto ad essere azzannato dallo squalo più grande. Nella sua interpretazione il tono è tanto più efficace quanto più si scende nel surreale, specie nelle scene con la sua ex famiglia e con i suoi schiavi venditori.
(per inciso, nel film tutte le figure maschili ne escono maluccio…)
Tra le attrici, l’unica che non mi ha entusiasmato è la Ferilli, ho l’impressione che le sia rimasta addosso qualche briciola dello sceneggiato Commesse. Recita la parte della capogruppo, anzi alla K. si dice Team Leader, è un pò capò un pò madrina, prova anche lei a giocare sul grottesco, ma quanto fatica a liberarsi dall’eterno ruolo di bonona!
Bravissime sia la protagonista che la coinquilina, interpretata da Micaela Ramazzotti, nonostante il fatto assai riprovevole che si mostrino ignude in più di una scena.
In conclusione, il film di Virzì mi pare recuperare la freschezza dell’esordio, Ovosodo, ma con attori di ben altro livello e soprattutto con un maggior senso di sgomento, a dieci anni di distanza, per una società sotto la quale non sembra covare altro che ferocia e disperazione.
Michela Murgia, Il mondo deve sapere (Isbn), 10 euro.
Tutta la vita davanti, film di Paolo Virzì.
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Pingback by Fontan Blog » Letteratura: Il mondo deve sapere, di Michela Murgia (e il film … - Il blog degli studenti. — 23 Aprile 2008 @ 07:48
[…] vincenzo m: […]
Commento by matteo — 26 Novembre 2012 @ 09:09
Vendere prodotti al telefono a gente che non ne vuole sapere è una delle peggiori esperienze lavorative che possano capitare oggi. La scrittrice sarda ne racconta tutte le dinamiche, con leggerezza, ironia e lucidità. Ma senza risparmiare l’orrore…
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