LETTERATURA: “Justine o le disgrazie della virtù”
20 Giugno 2008
di Donatien-Alphonse-François, conte de Sade, detto il marchese de Sade. Autore francese (Parigi, 1740 – Charenton, 1814). Â
di Alfio Squillaci
[L’ultimo libro di Alfio Squillaci: “Mare Jonio”, Sedizioni, 2007]
Justine o le disgrazie della virtù è un libro del marchese de Sade, pubblicato nel 1791. Sade, in introduzione a questo lavoro, manifesta la sua irritazione dei romanzi “classici” dove il bene e la virtù trionfano sul male e sul vizio; e come, invece, a posto di questo schema classico, mette in scena “una sfortunata errante di disgrazia in disgrazia;  giocattolo di ogni  scelleratezza; bersaglio di tutti i vizi (…)”.
Ne vien fuori un romanzo fosco, filosofico, pornografico, a tratti umoristico, che illustra le disavventure di Justine virtuosa, che si imbatte in ogni specie di individui, per la maggior parte libertini, e che utilizzano a volte dei sofismi per tentare di convincerla dell’inutilità della virtù. Justine o le disgrazie della virtù riprende la struttura dei libri moralisti, rovesciandoli: i sermoni e gli esempi  raccomandano i vizi, qualsiasi buona azione è sanzionata, ogni vizio è ricompensato. La virtù di Justine non cede mai, fedele ai suoi principi, causa delle sue disgrazie che si accumulano in un crescendo senza fine. Una fine agghiacciante attende  la protagonista che non ha voluto piegarsi alla morale del mondo.
Così si conclude il preambolo filosofico:  «Questi sono i sentimenti che dirigeranno il mio lavoro, ed è in considerazioni di questi motivi che chiedo indulgenza al lettore  per i filosofemi erronei che sono messi in bocca a più di un personaggio, e per le situazioni talvolta un po’ forti che, per amore della verità , ho ritenuto di mettere sotto i suoi occhi ».
Sunto
Justine, 12 anni, e Juliette, 15 anni, sono due sorelle, figlie di un ricco banchiere di Parigi. Non mancavano di nulla  fino  al giorno in cui il padre fa fallimento, e muore di dispiacere, seguito dalla  madre un mese più tardi. Si trovano in uno solo colpo senza alcun bene, e devono sfangarsela per sopravvivere.
La storia di Juliette, che sarà  oggetto di un romanzo successivo, è raccontata in alcune pagine all’inizio del romanzo. Juliette vuole riuscire, ed i mezzi gli importano poco:  non esita a prostituirsi e a  commettere molti crimini, anche infanticidi… Raggiunge il suo scopo con successo, e diventa  la signora contessa di Lorsange.
Justine, l’eroina, è l’esatto pendant della sorella ed è  dotata in eguale misura di virtù quanto quella di vizio. È di un carattere malinconico, tenero, sensibile, ingenuo e candido. Tenterà dunque di uscire dalle  difficoltà con mezzi onesti per tutta la durata  del libro, ma il suo comportamento virtuoso la fa cadere sistematicamente nelle trappole più viziose dei libertini e dei sofisti.
Delusa dopo un incontro con il suo confessore, che tenta di sedurla, Justine è indirizzata verso un ricco finanziere, signor Dubourg, per tentare di migliorare la sua situazione. Questi non ha di meglio che farle un lungo discorso sul fatto che i bambini infelici, i bastardi, gli orfani o il “mal  conformati” dovrebbero essere messi a morte, o essere condannati a morte fin dalla loro nascita.
Indignata, Justine  fugge, ma la sua affittacamere, signora Desroches, la costringe a tornare da Dubourg per soddisfarlo…  Justine (che ha soltanto dodici anni) non subisce nulla da parte di Dubourg,  che perde l’erezione  già nel preambolo (“i fuochi di Dubourg si estinsero nell’effervescenza delle sue imprese”).
La signora Desroches propone a Justine un altro alloggio, presso uno usuraio famoso, Du Harpin,  in via Quincampoix, nei fatti un furfante matricolato, scroccone e ladro. Avaro della peggior specie giunge a risparmiare sull’illuminazione giovandosi di quella riverberata dalla via pubblica, raccoglie le molliche di pane durante la settimana per  mangiarle fritte la domenica, e per non consumare le scarpe mette delle suole di ferro…
Oltre che avaro, è  invidioso, e vuole impadronirsi di una scatola d’oro di un vicino; chiede per ciò a Justine di effettuare il furto, ammollandole  una tirata sull’utilità del furto.  Justine, rifiuta, chiedendogli semplicemente cosa succederebbe se fosse stato lui a subirlo. L’argomentazione non va a genio a Du Harpin, che la fa accusare di furto di uno dei suoi diamanti (che invece ha nascosto nella sua camera), e la povera Justine è condannata .
Le avventure si susseguono di disgrazia in disgrazia. Tutte le volte che Justine manifesta fiducia verso il prossimo e ingenuità verso le situazioni  più pericolose per lei,  Sade, demiurgo delle sue sventure, sanziona con rovesci di fortuna la povera Justine.  Così con la Dubois,  Saint-Florent che lei ha aiutato e che per ricompensa la stupra. Il conte di Bressac, omosessuale criminale, non è da meno. Anche il medico Rodin e la sua cricca s’approfittano della povera giovane, e per lei non c’è pace neanche nel convento di  Sainte-Marie dove i monaci la sequestrano e la immettono in spaventose orge, unitamente ad altre giovani ivi recluse.
Sade non fa sconti: denuncia la morale umana corrente: non è vero che i vizi vengono sanzionati e la virtù trionfi, è vero piuttosto il contrario come le disgrazie di Justine confermano: questo mondo è in mano ai forti viziosi contro cui nulla può il debole virtuoso, se non conformarsi alla morale trionfante: quella del vizio e della forza.  I tormenti (les supplices)  che fa subire a Justine conoscono una fine tanto brutale quanto agghiacciante:  Justine, del tutto innocente è condannata al patibolo ma viene salvata dalla sorella viziosa e trionfante. La ragazza sembra ormai al riparo da ogni pericolo proveniente  dagli uomini quando ci pensa la provvidenza a pareggiare i conti: Justine è colta da un … (omettiamo il finale a beneficio dei futuri lettori).
Libro “nero”,  Justine porta alle estreme conseguenze il punto di vista della “filosofia” di  Sade sul  problema teologico del male nel mondo.  Quel problema che è posto dalla domanda, “la” domanda di sempre: Si deus est unde malum? Se Dio esiste, da dove il male?
Gli uomini cosiddetti virtuosi  sono tali perché al riparo da ogni bisogno. Si può essere munifici se si ha del denaro da regalare, al riparo dai vizi se si ha i mezzi per soddisfarli in qualsiasi momento, ma chi si trova in fondo alla scala sociale provvisto solo della propria virtù è destinato a subire la morale corrente (quella dell’ingiustizia e della prevaricazione del più forte sul più debole) dove il male è costantemente remunerato e il bene sempre più vilipeso. Non manca qualche frecciata anche al teista Voltaire: se come sostiene l’angelo Jesrad di  Zadig che da ogni male ne viene un bene, allora fanno bene gli uomini, en avance,  a dedicarsi scientemente al male. Gli uomini sono assistiti sì dalla provvidenza, ma è una provvidenza del male. Se il Dio di Voltaire è un Dio munficatore e punitore – “mi ricompenserà se faccio bene e mi punirà se faccio male” dirà Dondinac nella voce “Dio” del Dictionaire –  (o un “Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”  come dirà l’ex allievo dei Lumi, Manzoni), il Dio di Sade invece interviene a sanzionare la povera Justine sfuggita all’ultima insidia dei  cattivi uomini .
Non c’è possibilità di riscatto nel romanzo di Sade, alcuna speranza, alcuna  possibilità di un lieto fine; alla sorte di Justine  non è assicurata neanche la misericordia del cielo, tutt’altro. Solo un teologo morale d’ispirazione cristiana può intentare una confutazione della semplice e terribile verità sadiana, ma solo nei cieli della dottrina, perché stanno diversamente sulla terra  le cose del mondo. Noi, cui ogni momento della nostra esistenza conferma questo assunto – cui lo spettacolo che si dispiega davanti ai nostri occhi  non smentisce  il “filosofo” Sade -, non possiamo che restare accasciati dalla verità intima di questo racconto in veste di “dimostrazione narrativa” di una verità pre-assunta in sede  filosofica.
Justine è un libro vero e “disperato”. Così andava il mondo ai tempi di Sade, così va ai giorni nostri. Non abbiamo speranza, siamo al mondo, sembra dirci ad ogni passo.
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