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LETTERATURA: La mia vecchia maestra

27 Aprile 2009

di Gian Gabriele Benedetti
                     
Trenta anni non sono uno scherzo, fanno parte di una bella fetta della vita. E ritornare al paese dopo tanto tempo, mi aveva arrecato una non ben decifrabile sensazione di gioia e di apprensione, che si traduceva in uno stato tensivo ed emotivo.
                      Quando si abbandona il proprio posto forzatamente, rimane sempre nel cuore una certa nostalgia, che gli anni possono lenire, ma mai cancellare. Tuttavia la visita alle mie terre di origine, così desiderata, voluta ad ogni costo, che mi avrebbe dovuto far rituffare piacevolmente in un passato di fascino e di sogno, sempre vivo nel ricordo, sempre amato, mi procurò, imprevisti, non pochi momenti di delusione, di amarezza e di infelicità.
                      Il paese, una volta denso di vita e pullulante di gioventù, mi apparve semivuoto, abitato esclusivamente da anziani e da vecchi, che trascorrevano, in una rassegnata attesa della morte, intere giornate seduti sull’uscio di casa, con le mani poggiate sul bastone, senza neppure avvertire il fastidio di mosche insistenti che ronzavano intorno o su loro si posavano. Le case in gran parte recavano le ferite di un lontano abbandono. Qualche rara finestra, ancora aperta a testimoniare una qualche parvenza di vita, sembrava sonnecchiare in uno stanco sbadiglio su facciate che un orribile senso del gusto aveva fatto dipingere con colori impossibili. I campi intorno, un tempo curati come giardini e sfruttati fin nel più piccolo angolo, da molto non conoscevano più la mano dell’uomo e si erano trasformati in un groviglio di erbacce e di rovi, sui quali tentavano disperatamente di emergere rari pali anneriti per viti ormai inselvatichite e la chioma intristita di qualche albero restio a morire.
                      E gli amici? Molti se n’erano andati, come me, dal paese in cerca di fortuna per il mondo; molti altri riposavano nel piccolo cimitero, da tempo lontano, consumati dalle fatiche, dalla miseria, dall’abbandono. Quei pochi ancora vivi, rimasti aggrappati alla loro terra, invecchiati prematuramente e spesso irriconoscibili, a stento ricordavano (o forse non volevano ricordare) gli anni passati.
                      No, non sarei dovuto ritornare, per veder crollare il mio sogno cullato da sempre dentro di me! Avrei mantenuto intatto nel cuore un ricordo fascinoso del mio paese, della mia gente…, e tuffarsi ogni tanto in quella memoria avrebbe rinnovato, come al solito, un senso di piacevole nostalgia. Ora mi era rimasta una fredda stretta al cuore.
                      Ma quando venni a sapere che la mia vecchia maestra era ancora viva, il mio animo si rinfocolò, riempiendosi di struggente desiderio di rivederla. In lei, nel periodo vissuto insieme si racchiudevano, probabilmente, alcuni dei ricordi più incisivi della mia infanzia al paese. Eppure mi avevano sconsigliato di andare: “Sai? La maestra è messa male; è invecchiata, quasi irriconoscibile, tanto ammalata…”.
                      La prospettiva, tuttavia, di quell’incontro mi apparve l’ultimo appiglio sicuro per non far naufragare definitivamente i miei sogni a lungo cullati; così aveva destato in me una nuova ansia, un irrefrenabile bisogno di rivivere momenti ormai lontani, “accantucciati” caparbiamente nell’angolo più profondo della memoria, che sarebbero potuti riaffiorare ed essere rivissuti non più nella mia sola testa, ma unitamente a chi poteva testimoniarli.
                      Fu per questo che andai.  

                      Davanti alla casa sostai un poco, prima di bussare: sentivo in me una insolita trepidazione. Guardai intorno: qui non era cambiato gran che da quando ero ragazzo. Solo il tempo vi aveva giocato, lasciando le sue evidenti tracce: muri sbiaditi e con qualche ferita, ringhiere attanagliate dalla morsa della ruggine, usci stinti e rugosi… Il fico di fianco alla casa, ingigantito, carico di vespe che danzavano tra i suoi rami, era piegato in un faticoso e goffo tentativo di non voler cedere agli anni ed alle intemperie; l’orto, incolto, era prigioniero di erbe scomposte che non si ricordavano da tempo della falce. Sui davanzali ancora vasi di gerani, come una volta, ma tristi, quasi avvizziti ed avari di fiori.
                      Bussai all’uscio alcuni colpi ed attesi con una certa ansietà. Si udì in risposta una voce ancora giovanile, che mi parve di ricordare e riconoscere.
                      “Avanti!… Tira il paletto ed entra!”.
                      Così feci e mi trovai in una stanza semibuia: da una finestra, velata da tendine a vetri, filtrava un unico raggio di sole che attraversava come una lama la penombra. Intorno, nella semioscurità, si intravedevano più o meno gli stessi mobili ed oggetti di un tempo: la madia scura per il pane da conservare, il tavolo con la pietra di marmo bianco, le sedie di paglia ormai sfilacciate, il caminetto ancora più annerito, la vecchia credenza a vetri con la solita roba dentro, ben disposta: i bicchieri piccoli di cristallo sottile intorno alla bottiglia a forma di pera col collo allungato, le tazzine da caffè bianche orlate d’oro, il vasetto delle caramelle, forse ancora ad attendere una mano bramosa… Di nuovo c’era soltanto la lavatrice accanto all’acquaio di pietra serena: un pizzico di modernità era arrivato anche lì dove il tempo pareva essersi fermato.
                      “Sei tu, Giuseppe?” disse la solita voce.
                      Aguzzando gli occhi (non ero riuscito a vincere del tutto la penombra), scorsi in un angolo non lontano dalla finestra, seduta su di una poltrona, quasi sommersa da enormi cuscini, una figura di donna curva e rimpicciolita dagli anni e dagli acciacchi. Certamente non rinvenni in lei i tratti giovanili ed aggraziati della maestra della mia infanzia. Il viso magrissimo, avvizzito, incavato mostrava lievi luci ed ombre ad ogni movimento. Una scarna capigliatura nivea ne incorniciava l’antica dolcezza, che il tempo, pur crudele, non era riuscito a cancellare.
                      “Sei tu, Giuseppe?” ripeté la maestra, puntando verso di me uno sguardo spento.
                      “No, signorina maestra. Sono Amerigo… Non so se si ricorda di me, di quello scavezzacollo del primo banco, il figliolo di Giovanni, che poi andò nelle Americhe…”.
                      La maestra parve per un attimo sorpresa.
                      “Amerigo… Amerigo del povero Giovanni… Oh, santo cielo, se lo ricordo! Non mi dire che sei tu quel ricciolino biondo, tutto smania e frenesia, con gli occhi furbi, che tenevo al primo banco, quando si faceva scuola in una stanza della casa di Luisa!… Ora sì che rammento bene! Sai? Non ho dimenticato nessuno dei miei scolari. E di bimbi ne ho visti sfilar tanti sotto i miei occhi nella mia lunga carriera di insegnante. Ed ora che non so come passare le mie interminabili giornate di tedio e di sofferenza, rivivo il mio passato, e con la mente ritorno (oh, quanto volentieri!) nella mia piccola scuola, con i miei ragazzi, che rivedo ad uno ad uno e porto ancora in questo vecchio e stanco cuore. Ciò mi dà la forza di continuare a vivere. Oh, caro Amerigo! Dopo tanti anni non ti sei dimenticato della tua vecchia maestra… Vieni che voglio abbracciarti”.
                      Mi avvicinai commosso e cinsi quel corpicino che parve scomparire tra le mie braccia. Sentii le sue mani sottili, un po’ tremanti, cercare di stringermi a lei.
                      “Tu non sai”, continuò con il volto ora sorridente, mentre io me ne stavo, in silenzio, piacevolmente ad ascoltarla, “quanta felicità mi hai arrecato in questo momento. Qui al paese se ne sono andati pressoché tutti, come le rondini d’autunno, solo che la primavera non è più ricomparsa per i felici ritorni. Sono rimasti i vecchi ed i malati come me, perciò, tranne Giuseppe e sua moglie, tribolati anche loro, che mi danno una mano, da me non capita quasi mai nessuno. Trascorro le mie giornate immersa nei ricordi e nei tristi pensieri. Ma guarda che maleducata che sono! Non faccio altro che parlare io e, per di più, di certe contrarietà. Vedi? Anche se sono invecchiata, non mi è passato il viziaccio, proprio dei maestri, di chiacchierare tanto. Ora raccontami un po’ di te”.
                      Le parlai della mia nuova patria, dei primi difficili anni di ambientamento e di lavoro, della posizione buona che ero riuscito finalmente a crearmi, della mia famiglia, di cui andavo fiero, del desiderio di ritornare al paese, che avevo sempre custodito nell’animo…
                      La maestra ascoltava interessata e con soddisfazione. Poi mi interruppe e, in tono un po’ scherzoso, ma anche con una punta di orgoglio, disse:
                      “Vedi che a qualche cosa sono servita anch’io? Converrai che i miei insegnamenti e l’uso, al momento giusto, della santa bacchetta, uno dei pochi sussidi didattici allora a disposizione, hanno prodotto risultati proficui”. Quindi soggiunse: “Però, a dire il vero, con te è stato tutto facile, perché, quando il buon seme cade nel terreno fertile, immancabilmente offre i suoi frutti in abbondanza”.
                      “Sì, certamente ho sempre fatto tesoro dei suoi insegnamenti e di quelli dei miei poveri genitori”, confermai, “ed ora non posso lamentarmi. Solo mi dispiace che per costruirmi una vita decente sono dovuto emigrare, e lasciare il proprio nido, quando ci si è attaccati, è maledettamente duro. Ma abbandoniamo per un po’ i rimpianti. Ormai il passato è passato. Piuttosto mi tolga una curiosità, signorina maestra: è rimasto niente in me di quel ricciolino biondo che conosceva? Sono cambiato tanto da non riconoscermi?”.
                      Scostai un po’ la tendina ed il sole indorò gran parte della stanza. Mi avvicinai alla maestra per farmi vedere meglio. Solo allora mi accorsi che i suoi occhi erano fissi, spenti, senza vita. Ella si rese conto istintivamente di un certo mio imbarazzo. Divenne triste e disse con amarezza:
                      “Caro Amerigo, la vecchiaia vien con mille mancamenti ed io cerco di sopportare i molti miei con rassegnazione. Ma ciò che proprio non riesco a tollerare, ciò che offusca il mio animo di inconsolabile mestizia è la cecità che mi affligge da diversi anni”.
                      “Lei è cieca, maestra?” domandai quasi per vincere il mio stupore, il mio imbarazzo, la mia afflizione.
                      “Sì, Amerigo. E questa disgrazia non mi ci voleva davvero. Con tutti i malanni che mi tormentavano, se almeno avessi avuto il dono di mantenere la vista, avrei potuto continuare a coltivare il grande desiderio di sempre: quello, cioè, di prendere in mano i miei amati libri e trascorrere così le giornate immergendomi nella voluttà della lettura. Ora vivo, si fa per dire, nel più completo isolamento interiore ed esteriore. Sapessi quante volte provo la struggente nostalgia di rivedere l’azzurro del cielo, quante volte sogno il verde delle nostre campagne e dei nostri boschi, quante volte mi perdo con la mente tra le cime dei nostri monti che sfidano l’immensità, quante volte rimpiango lo sguardo dolce, innocente di un bimbo…! Eppure ho tentato in ogni modo di vincere la disperazione ed ho cercato di farmi animo ricostruendomi una specie di vita scandita da suoni, da rumori, da sensazioni, che, a poco a poco, mi sono divenuti sempre più familiari. Così lo stridio di una rondine mi annuncia che tutt’intorno si ripete il miracolo della primavera; una certa animazione nelle addormentate vie del paese mi testimonia l’arrivo di alcuni villeggianti per l’estate; l’insistere della pioggia o il ticchettio delle foglie sospinte qua e là da vento mi parla dell’autunno; ed il silenzio gelido di una nevicata mi penetra fin nelle ossa e mi trascina nella tristezza dell’inverno. Ascolto ogni rumore: riconosco i passi delle poche persone ancora in paese. E poi c’è l’orologio della torre, che funziona sempre, come un tempo, grazie al vecchio Battista, il quale, nonostante l’età avanzata ed i suoi malanni, trova tuttora la forza e la voglia di salire fin lassù per accudirlo. Sembra che la sua vita sia legata a quell’orologio. Anche per me è un amico fedele: col suo scandire le ore, accompagna la mia dura giornata e le tante notti insonni. È come una voce che, ad intervalli regolari, mi parla, mi sussurra, mi tiene compagnia. Mi auguro davvero che non si fermi fin tanto che non si sia fermato l’orologio della mia vita”.
                      Io ascoltavo col cuore gonfio quel parlare pieno di rassegnato sconforto. Lasciavo sfogare la povera donna. Ero venuto lì per far riemergere soprattutto i miei ricordi di infanzia, per assaporare da vicino tutto ciò che mi aveva seguito, accompagnato con seduzione sempre viva, sempre uguale per gran parte della mia esistenza, ma non osai interromperla, consapevole di esserle un po’ di conforto solo ascoltandola: era l’unico modo per ricompensare la sua sofferenza e per ripagare la sua pesante solitudine. Così rimasi con lei, ad ascoltarla, fin quasi a sera.
                      Al momento di congedarmi, le presi la mano e la strinsi con calore nelle mie.
                      “Cara maestra!”, le dissi pieno di commozione e di tristezza che mi rodevano dentro, “Lei sa quanto sarei felice rimanere qui ancora ad ascoltarla, a parlare, a farle compagnia. Ma il tempo è tiranno. Ormai ho piantato le radici altrove ed è là che debbo ritornare. L’averla vista di nuovo, sappia che per me è stata una gioia immensa. Le dirò che ho sempre tenuto a mente le sue parole ed ho sempre portato nel mio cuore anche lei… Addio, maestra! E che il Signore l’aiuti!”.
                      L’abbracciai, mentre gli occhi mi si velavano di lacrime. Il suo viso si avvicinò al mio e mi inumidì le guance del suo sommesso pianto.
                      Prima di lasciarla: “Grazie!”, mi disse con un tremito di voce, “Grazie di esserti ricordato di me. Non mi dimenticare, anche quando non sarò più. Tu abbia tanta fortuna, caro ragazzo! Goditi a lungo la tua bella famiglia. Cerca di saper sempre afferrare ed assaporare il bello ed il buono che il vivere ti può offrire. Cerca di afferrarli, perché la vita è come il volo di un passero: non appena ne vedi il frullo delle ali, è già sfuggito alla tua vista”.                      

                      Mentre scendevo il colle sulla corriera semivuota che mi portava via, volsi lo sguardo in alto e lassù, come in una cupola di cielo, scorsi il mio vecchio paese che si allontanava e sfuggiva per sempre. Il sole, al tramonto, nel suo ultimo guizzo, lo dipingeva di rosa e lo inebriava di palpiti di luce alle finestre.
                      Lassù, in quella bolla di cielo, avevo sotterrato per sempre tutti i miei ricordi, tutti i miei sogni, tutti i fantasmi di un passato ormai lontano lontano.

(Da “Paese”, Ed. Lalli Poggibonsi)


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4 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 27 Aprile 2009 @ 12:03

    “Qui al paese se ne sono andati pressoché tutti, come le rondini d’autunno”

    Il tema della natura, così caro a Gian Gabriele, ritorna prepotente in queste righe. Ma è una natura matrigna, come sa esserlo la natura quando il tempo cancella ogni traccia e la vita fugge via come un battito d’ali. Mentre scrivo l’orologio qui vicino batte le dodici, e piove di un umido che addenta le ossa. Da stamattina per l’aria si spande un carillion lieve lieve di una tristezza indefinita. Mi dicono che il bello tornerà, ma solo giovedì. Troppo tempo da trascorrere in fretta, non posso più permettermelo.
    Un caro saluto

    Carlo Capone

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 27 Aprile 2009 @ 16:46

    Grazie ancora, Carlo! E grazie anche per il pensiero poetico e significativo sul tempo che ci sfugge tra le dita e non ci concede soste. Il tema del tempo che inesorabilmente se ne va, che muta le cose intorno a noi, che ci consuma gli affetti, che cambia noi stessi, ci rende più fragili, più inclini alla “saudade”; il tema della dolce-malinconia che ci fascia e dell’ansia che ci spinge a non tergiversare più sono quelli più “trattati”, insieme con quelli della natura e della metafora-sostanza esistenziale, soprattutto nella mia poesia. E pure io, quindi, dico che il tempo concesso non consente ritardi. I suoi gravi rintocchi rimbalzano in richiami martellanti. Non più calcoli ragionati. Non sarà dato di tornare indietro o ripercorrere vie abbandonate dal non fatto. Più non rimane a noi che l’ombra del ricordo o la bugia d’un minimo sogno che ancora illude. Ma sbrighiamoci lo stesso a cogliere almeno questo minimo sogno e questa residua illusione. Ci aiuteranno ancora ad andare avanti, magari nei giorni di sole
    Un abbraccio, Carlo
    Gian Gabriele

  3. Commento by claudio grosset — 7 Maggio 2009 @ 09:11

    Ho letto questo racconto in un momento propizio, dovevo ingannare il tempo di qualche ora in attesa d’una persona, seduto sul ciglio di un’aiola al bordo d’un marciapiede.
    A me sembra d’esserci stato veramente nella casa di quella ‘vecchia maestra’, nella penombra di quella stanza, e di aver vissuto da protagonista – lettore quel commovente incontro.
    E mi pare, anche, grande e vera letteratura questa, a dispetto dei tanti libri, non tutti degni di questo nome, sugli scaffali oramai dovunque.
    Ad altri, letterati e critici, lascio l’onere di un giudizio competente, che l’autore invece, per questa volta…. Non potrà esprimere!

  4. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 7 Maggio 2009 @ 14:47

    Sono onorato per questo commento, per cui ringrazio di cuore Claudio Grosset. Fa sempre piacere avere apprezzamenti, soprattutto come il presente. Sono, tra l’altro, un incoraggiamento per uno come me, ormai assai avanti nell’età, nello spingermi ad offrire ancora il meglio di me stesso, per quanto sarà possibile. Lo scrivere racconti e poesie per me è motivo vitale. Mi aiuta a tirar fuori “quanto urge dentro”. E ciò avverto che fa bene: dipinge di emozioni e di sostanza il cammino del mio tempo.
    Grazie ancora ed un affettuoso saluto
    Gian Gabriele

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