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LETTERATURA: La piazza dei giochi

15 Novembre 2007

racconto di Gian Gabriele Benedetti

[di Gian Gabriele Benedetti: “Paese”, Lalli Editore, 1986]


Ci si radunava nella piazza del paese, non appena il giorno “svermigliava”. Le case, in cerchio, ancora impallidite dalla calura di quei giorni estivi, spiavano, sorprese, a finestre spalancate e fiorite, il nostro garrulo presentarci.

Al vociare incessante di noi fanciulli faceva eco il concerto di rondini, instancabili arabeschi neri a disegnare ampi giri nel cielo sbiadito.
Gli uomini se ne stavano al bar per la consueta partita serale, prima di serrarsi nel sonno ristoratore; le donne in cucina, ritte all’acquaio o a sfaccendare per la stanza. I più vecchi, seduti sull’uscio di casa o nei cortiletti vanitosi, ruminavano ricordi lenti di tempi ormai lontani.
Eravamo in molti, allora, a trovarci in quell’unica piazza, e di diverse “taglie”.
Dalle pietre levigate, intorsate di sole pomeridiano, trasudavano vampe di calore che carezzavano i piedi scalzi e le gambe scoperte.
Era il momento dei giochi, il momento atteso, desiderato, che si protraeva, sempre accattivante, fino all’ansia del primo buio.
Le ombre si allungavano pigramente sulla piazza chiassosa ed il fascino arcano della sera ci avvolgeva e ci inebriava.
Il sentirci insieme, il dare sfogo alla nostra spensierata irrequietezza, il seguire i voli di un’indomita fantasia porgevano sciami di attimi complici per una felicità ogni volta inesplorata. L’ansimare della corsa, l’odore della pelle umida di sudore, il perderci nel turbinio del girotondo, il brivido di emozioni fortemente trattenuto nel celarci dietro un angolo, dentro un portone semiaperto o sotto un voltone scuro di travi in legno nel gioco del nascondino ci spingevano su ali azzurre a cavalcare i confini del sogno ed a vivere istanti che parevano eterni.
Lì, tra quelle case amiche, nello sfinirci di giochi, coltivavamo il nostro piccolo prodigio, seguivamo arcobaleni di speranze distesi dinanzi alle limpide pupille, sorseggiavamo, avidi, mai domi, magici accenti d’infantile gaiezza. Lì rimanevamo ad assaporare la malia del rincorrerci a grappoli, andando incontro, ignari, al fiorire dei giorni, che si spalancavano prodighi, invitanti, profumati di promesse.

E quando le giovani tenebre della notte gettavano i tentacoli di inchiostro ad avvolgere ogni cosa ed a fasciarla di mistero, non scemava il brulicare di noi bimbi e non cessava il vociare a perdifiato. I voli, già da un pezzo diradati, intanto si spegnevano, man mano, nei nidi del sonno. Il cielo si incupiva lentamente, lasciando spazio a rare stelle sfuocate, insicure.
Poi ci pensava la luna silenziosa a sbiancare la piazza e le ruvide facciate di sasso. L’aria si faceva più fresca ed inquieta.
All’improvviso i timbri bronzei dell'”Ave Maria”, come voce d’anima, si propagavano nella sera addolcita. Ed era a quel punto che, quasi in coro, si ripetevano e si moltiplicavano i richiami delle mamme che sollecitavano al rientro.
Ci si ritirava, a malincuore, oltre le soglie tiepide, con la certezza di ritrovarci l’indomani. Nei nostri letti soffici ci si addormentava esausti con i giochi cuciti nei sogni.
Il mondo, allora, sembrava girare felice senza fretta. Pietoso inganno per l’innocenza dell’età. I giorni, invece, si sono inerpicati vorticosamente sull’erta degli anni, neppure il tempo di far sostare il pensiero, di maturare idee, di soffermarci su progetti auspicati. Tutto è sfuggito così rapidamente tra le dita inerti e pare adesso come sospeso su un ponte etereo in tessiture quasi irreali. Nessun gesto può raccogliere e riportare al grembo ciò che si è sfrangiato e consumato. Solo fantasmi danzano smaniosi nella foresta di riflessioni appesantite a lievitare il passato in affreschi ridestati, dolorosi e struggenti, sospirosi e lievi, melanconici e trepidi.

Ora, al mio sguardo di inguaribile pellegrino a capofitto sul vuoto di ingigantite emozioni, non rimangono che questa piazza di pietre consumate, disadorna, rimpicciolita, solitaria, silenziosa, e queste quattro case sdrucite, mute, senza fiori, senza vita…
Un fiato spento di rassegnazione ripiega su una realtà logorata ed affaticata. Eppure la stessa luna di allora con poche stelle a contorno, anche stasera, senza riverberi di voci, tra questi tetti bagnati di memorie e di rimpianti, che riducono il cielo, riesce a smielare il suo lume d’ambra e ad ammorbidire pesanti ammutinamenti di grazie appena superstiti.


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